venerdì 26 agosto 2011

Cassola, lo scrittore della provincia e della quotidianità



Carlo Cassola



Cassola nacque nel 1917 (è il 90° anniversario della sua nascita) a Roma ma fece della Toscana e della Maremma la sua patria spirituale, «il luogo dell’anima» come disse il poeta Mario Luzi.

Quella difficile terra di provincia divenne una metafora della fatica del vivere e della condizione umana ma, d’altra parte, fu anche un simbolo di salvezza e d’integrità morale, ambiente di vita e fonte di felicità nell’intrecciarsi di rapporti semplici e genuini. Visse schivo e ritirato tra Grosseto e Cecina, lontano dalla critica e dall’editoria ma sempre molto amato dai suoi lettori.

È ritenuto un rappresentante del neorealismo italiano: il suo stile è infatti semplice ed essenziale, i suoi contenuti sono scarni e senza fronzoli.

Iniziò a scrivere racconti brevi nel 1937 e, pur laureato in Giurisprudenza, divenne insegnante liceale di filosofia, rimanendo però in seguito disgustato dalla scuola e dal suo fallimento (nel 1969 parlò di «scuola di criminalità… grande spacciatrice di droghe… autentico oppio del popolo»).

Antifascista, visse in prima persona la Resistenza, testimoniandola col racconto autobiografico Fausto e Anna, che diede origine a polemiche stilistiche e ideologiche.

La sua attività letteraria è divisibile in periodi: inizialmente fu affascinato dalle tematiche storico–politiche per divenire in seguito un intimista dai toni dimessi, volto a cogliere la realtà nascosta dell’esistenza nelle apparenze della quotidianità e «sotto la soglia della coscienza pratica». Parlò di «realismo subliminare», e in ciò si sentiva vicino al James Joyce di Gente di Dublino: «In Joyce scoprii il primo scrittore che concentrasse la sua attenzione su quegli aspetti della vita… di cui gli altri sembravano non accorgersi nemmeno».

Nel 1949 dopo la morte della moglie, ebbe un momento di crisi umana e letteraria che gli ispirò il racconto Il taglio del bosco.


In diversi romanzi e saggi, come I Minatori della Maremma (1953), descrive con asciutta semplicità la Maremma e i suoi ruvidi abitanti, interpretandoli anche da un punto di vista sociale. Un altro suo racconto, La ragazza di Bube, vero bestseller della narrativa italiana, che racconta di una ragazza che sposa un partigiano colpevole d’omicidio, ha imposto l’autore all’atten­zione di tutti ed è stato premiato con lo Strega nel 1960. Ne è stato tratto anche un dignitoso film di Luigi Comencini con una Claudia Cardinale giovane e bellissima.


Nel 1978 vinse il premio Bagutta con L’uomo e il cane.


Nell’ultimo periodo di vita, dominato dal senso di frustrazione per la caduta di quegli ideali per i quali era vissuto e per l’inevitabilità della storia e degli eventi umani, coltivò interessi di ecologista e antimilitarista. Paralizzato per mesi, si spense infine nel 1987 (questo anno celebriamo anche il ventennale della sua morte).


La sua opera è stata al centro di polemiche feroci. Italo Calvino rispose con parole durissime ad alcuni articoli di Cassola, attaccando la sua tematica astorica, priva d’impegno e proiettata sulla sfera interiore e sul privato (disse tra l’altro: «Romanzi sbiaditi come l’acqua della rigovernatura dei piatti, in cui nuota l’unto dei sentimenti ricucinati»).


Pier Paolo Pasolini denunciò in un epigramma «la morte del Realismo» e la «restaurazione dello stile», che imputava soprattutto a Cassola che, contrario all’uso del dialetto ma pur ritenendosi dalla parte del Realismo, aveva scritto: «Mi ritengo uno scrittore realista nel senso che amo la realtà e non desidero evaderne. Nel senso che amo il mio tempo.».


Fu stroncato in malo modo (e forse ingiustamente) anche dal “Gruppo 63” (del quale facevano parte Eco e Sanguineti), corrente di neoavanguardia, i cui componenti anticonformisti e dissacratori dell’establishment letterario bollarono lui e altri consacrati dalla fama col termine ironico di «Liale». Malgrado tutto ciò, Cassola è stato, e resta, un grande della letteratura. (www.zam.it, Recensioni, 2007)

P.S. Il film La ragazza di Bube, girato nel 1963 per la regia di Luigi Comencini, sceneggiato da Comencini e Marcello Fondato (fotografia di Gianni Di Venanzo in bianco e nero, e musiche di Carlo Rustichelli), aveva tra i suoi attori protagonisti Claudia Cardinale (Mara), George Chakiris (Bube), Marc Michel (Stefano), Emilio Esposito (padre di Mara) e Dany París (Liliana). Il produttore Franco Cristaldi (per Vides Lux Film Lux France) si aggiudicò il David di Donatello (1964) mentre Claudia Cardinale vinse Nastro d'Argento (1965) come migliore attrice protagonista.

Claudia Cardinale, che per la prima volta recitò con la sua voce roca e gutturale ma ricca di fascino, ci ha restituito una protagonista tenera e dolce. Mara, che ha solo sedici anni ed è una ragazza civetta e superficiale, conosce Arturo detto Bube – un partigiano serio e molto impegnato politicamente, amico del fratello Sante anch'egli partigiano e deceduto – e se ne innamora. Una volta diventuta «la ragazza di Bube», si sente così legata a lui (coinvolto nell'uccisione di un carabiniere e di suo figlio) da essere in grado di aspettarlo molti lunghi anni (lei così giovane). Gli resta fedele, prima, durante la sua clandestinità poi, dopo il suo arresto, durante la lunga detenzione in carcere. E nel film il personaggio di Mara sovrasta con la sua calda personalità tutti gli altri personaggi, che rimangono nell'ombra e che sono mal contestualizzati negli importanti eventi storici del dopoguerra, incapaci di esprimere la disincantata delusione di coloro che, impegnati nella Resistenza, ne vedono cadere quasi tutte le proposte rinnovatrici, delusione che appare invece molto forte nel romanzo.

Ha scritto Adelio Ferrero (Cinema nuovo, 1963): «La saldatura tra Cassola e Comencini si verifica nella riscoperta di un piccolo mondo di anime belle, nel vagheggiamento di una angusta zona del sentimento, soli valori certi e permanenti di contro al movimento ingannevole di una Storia deludente e sfuocata.».

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