martedì 30 agosto 2011

Georges Bernanos e il suo struggente “Diario di un curato di campagna”



George Bernanos


Centoventi anni addietro nasceva (il 20 febbraio del 1888), e sessant’anni addietro (il 5 luglio del 1948) moriva a Parigi Georges Bernanos, scrittore cattolico dalla forte tensione spirituale, un polemico originale e disobbediente dinanzi ai compromessi della gerarchia ecclesiastica.


Il suo capolavoro Diario di un curato di campagna (1936) è la toccante storia di un’anima: quella di un giovane e sensibile curato (appena uscito dal seminario), chiamato da Dio e diverso da tutti gli altri preti, senza vanità e senza ambizioni, povero e solo, stanco e malato di cancro (riesce a mangiare soltanto pane raffermo inzuppato nel vino ed è così magro da essere soprannominato «triste a vedere»), con «la forza dei deboli, dei fanciulli… della razza di chi tien duro, che sta ritta».

Nella sua «prima ed ultima parrocchia» in un «villaggio miserabile… divorato dalla noia», pieno di pietà e sete di giustizia, deve lottare contro l’ipocrita ostilità dei parrocchiani – che odiano la sua semplicità e che fingono d’ignorarlo, spargendo calunnie e nascondendo atroci rivalità, profonde angosce e «spaventosi segreti» – ai quali egli non può far altro che opporre le sue tremende sofferenze. Per la volontà di veder chiaro in se stesso, decide di appuntare su «un quaderno da scolaro… il tesoro nascosto» il suo dialogare col buon Dio, i suoi prolungamenti di preghiera e le riflessioni sulla sua «solitudine profonda… inumana» e i suoi «momenti di confusione, di affanno».

Salgono così a galla debolezze e inettitudini, turbamenti psichici e dolori fisici. Egli è lacerato soprattutto dal timore di perdere la fede («No. Non ho perso la fede!... La fede non si perde… cessa d’informare la vita, ecco tutto… Dio s’e­ra ritirato da me… L’anima tace. Dio tace. Silenzio.») e di peccare contro la speranza, in preda a «una rassegnazione tenebrosa, più spaventevole dei grandi soprassalti di disperazione e delle sue immense cadute…» e a una «sorda ribellione… uno stizzoso silenzio dell’anima, quasi pieno di odio…».

Subito dopo l’infausta diagnosi, il curato–fanciullo muore per un’emorragia gastrica, lontano dalla sua parrocchia, in casa di un amico, sacerdote spretato, anch’egli lambito dalla morte (che grazie a lui si riconcilia forse con Dio), al quale dice le sue ultime sublimi parole: «Che cosa importa? Tutto è grazia.».

Nel 1951 Robert Bresson, il grande maestro francese che ha usato il cinema come una via per la ricerca della Grazia, ha ricavato dal suddetto romanzo uno struggente film, Leone d’oro a Venezia.

Pur essendo in apparenza uomo di destra e cattolico ancorato alle tradizioni e ai temi del peccato e della colpa, del perdono e della santità, della carità e della grazia, Bernanos manifesta un pensiero che non è né di destra né di sinistra ma si innalza a descrivere in forma universale il dramma dell’uomo solo davanti al mistero di Dio (e solo in faccia alla morte), in una visione della vita pessimistica (quando non addirittura apocalittica) che guarda indietro a Blaise Pascal e al suo uomo angosciato, perché prigioniero della sua finitezza, che spasima però per essere felice nonostante le umiliazioni e l’infelicità.

Georges Bernanos racconta non i fastosi personaggi dell’“establishment” cattolico istituzionale (forti e senza dubbi) ma i rappresentati più umili e fragili, individui in bilico tra spiritualità e tentazioni, tra purezza d’animo e comportamenti di degradazione.

Adriano Grande (il sensibile traduttore del grande autore francese) ha scritto che i suoi personaggi «come quelli di Dostoevskij ci sono fratelli, sono esseri che abbiamo veramente conosciuto, diventan parte della nostra umanità. A loro ripensiamo sovente come figure della nostra povera e umiliata e tragica realtà quotidiana.».

Gli “eroi perdenti e quasi perduti” di Bernanos però, quando la lotta è finalmente giunta al suo termine – pur soffocati da fardelli, vizi e sofferenze inaudite, pur tentati dalla disperazione di non poter salvare né la loro anima né quella degli altri secondo l’immensa missione loro affidata da Dio (sempre e comunque volti nella direzione del Divino) – riescono a conquistare quella Grazia e quella Santità, tanto ansiosamente ricercate. (www.zam.it, News, 19/2/2008)


P.S. Da Il diario di un curato di campagna (Journal d'un curé de campagne) di George Bernanos, romanzo scritto nel 1936, il regista francese Robert Bresson nel 1950 trasse un superbo film con Claude Laydu al suo debutto (il curato d'Ambricour) – grandissimo interprete deceduto all'età di 84 anni proprio un mese addietro (il 29 luglio) – , Jean Riveyre (il conte), Adrien Borel (il curato di Torcy), Nicole Maurey (mademoiselle Louise) e Rachel Bérendt (la contessa). Presentato in concorso alla 16ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, si aggiudicò il Premio OCIC (Office Catholique International du Cinèma). E soltanto un regista come Andre Bresson avrebbe potuto restituirci la bellezza e la profondità del libro di Bernanos, con il suo intendere il cinema non come spettacolo popolare ma come scrittura alta e nobile, con il suo rigore introspettivo e il suo background filosofico, e con il suo scavare psicologicamente all'interno dei personaggi, che lo hanno reso unico e indimenticabile nel panorama cinematografico mondiale. Intellettuale colto e sensibile, egli è stato anche l'abile sceneggiatore del film.



A Robert Bresson si deve anche l'omonima appassionata versione cinematografica di Mouchette, sceneggiata e diretta nel 1967 (in Italia si scelse il titolo Mouchette. Tutta la vita in una notte) con Nadine Nortier (Mouchette), Jean-Claude Guilbert (Arsène), Marie Cardinal (la mamma), Paul Hebert (il padre) e Jean Vimenet (Mathieu), tutti attori poco conosciuti ma bravissimi. Considerato uno dei migliori film di Bresson, scarno ed essenziale, vi si narra la triste storia di Mouchette, una contadinella adolescente che vive nell'ambiente rurale di un villaggio della Provenza. Povera e maltrattata sia dal padre alcolizzato sia dagli ottusi paesani, viene violentata da un bracconiere epilettico, soccorso dopo una crisi; nonostante sia la vittima innocente, la gente del villaggio – arida e piena di pregiudizi – la considera una vergogna per il paese e la isola spettegolando con malvagità. Mouchette decide allora di concludere quella sua esistenza di violenze e umiliazione col suicidio, che rappresenta un atto accorato di estremo rifiuto dell'orrore del mondo e della sua vita invivibile che le ha regalato soltanto delusioni e disperazione. Si avvicina pertanto alla sponda del fiume e si lascia scivolare passivamente nel fango sino all'acqua che l'accoglie nel suo grembo. Il film nel 1967 vinse al Festival di Cannes il Premio OCIC. Hanno scritto Laura, Luisa e Morando Morandini (ne "il Morandini", Zanichelli editore): «A un anno di distanza da "Au hasard Balthazar", e sulle stesse linee tematiche, Bresson ritorna a Bernanos cui si era già ispirato per "Il diario di un curato di campagna", ma continua a descrivere un mondo senza Grazia, avviandosi verso "un cristianesimo ateo, senza riscatto, in cui l'unico gesto libero che l'uomo sembra compiere è quello di morire" (A. Ferrero). Già risuonate due volte, le note del Magnificat di Monteverdi suggellano, all'insegna della discrezione e del ritegno, la sconsolata sacralità della sequenza finale.».

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