sabato 27 agosto 2011

Il cuore è un cacciatore solitario – Il profondo desolato sud americano dell’incomprensione e dell’odio razziale in Carson McCullers



Carson McCullers


Quaranta anni fa moriva la grande scrittrice americana Carson McCullers, nata in Georgia nel 1917.


Vissuta da bambina a contatto con le contraddizioni e i conflitti dell’oppressivo e desolato mondo del Sud americano, fu marchiata a fuoco da questo ambiente triste, che nei suoi testi tornò e ritornò ossessivamente (ed era la stessa provincia abulica in disfacimento descritta da William Faulkner in L’urlo e il furore).

Donna infantile e fragile, abile pianista col desiderio di diventare concertista, a 15 anni si ammalò di febbre reumatica ed ebbe diversi ictus invalidanti che la portarono giovanissima a essere appena in grado di pestare con un sol dito sui tasti di una macchina da scrivere. Non sorprende che molti suoi personaggi senza tempo né luogo, fossero infermi o tarati psichici, esclusi o emarginati, patetici o talora grotteschi. 

Trasferitasi a New York a 17 anni, nel 1940 ad appena 23 anni, pubblicò il suo primo romanzo
Il cuore è un cacciatore solitario (scritto in un momento di grave infermità), nel quale con potente lirismo svolge il tema dell’incomunicabilità e del desiderio sempre vano di non essere soli e di poter essere almeno ascoltati, se non proprio compresi. Quattro protagonisti si muovono intorno alla figura del sordomuto John Singer, un mite e tranquillo orologiaio (e proprio il padre di Carson lo era), passivo interlocutore scelto come depositario delle angosce di tutti gli alienati e disadattati di una piccola città del Sud.

Prigioniero del silenzio, John non può ascoltarli ma, pieno d’umana comprensione (ne giustifica anche la violenza e i vizi con i quali tentano di contrastare la solitudine), vorrebbe farsi carico delle loro pene. Tenta di leggere faticosamente le parole sulle loro labbra e di rispondere col movimento delle mani affusolate da cesellatore, per alleggerire il fardello del loro infelice destino («Il ricco lo considerava ricco quanto lui, il povero lo paragonava a se stesso… Ognuno descriveva il muto quale lo voleva»).

Paradossalmente, col suo silenzio riesce a dare una qualche risposta alle urla represse di quelle anime: i suoi occhi sembrano comprendere tutto («E la morte, così difficile. E la nascita, così facile. E l’eterno problema delle razze…») e tutto custodire (segreti, dolori, aspirazioni e sconfitte). Tra il muto e i quattro comprimari (un vedovo proprietario di un piccolo caffè, una strana ragazzina con la passione per la musica, un fallito agitatore socialista col vizio dell’alcol e un medico nero marxista e disilluso) si stabilisce un delicato equilibrio che finirà purtroppo tragicamente: Singer, perduto l’amico sordomuto, si sentirà lui stavolta tanto solo da spararsi.

Da questo romanzo fu tratto il film di Robert E. Miller (1968) con Alan Arkin e Sondra Locke.

Seguì il breve romanzo Riflessi in un occhio d’oro (1941), che divenne il film crudo e appassionato di J. Huston (1967) con Elizabeth Taylor e Marlon Brando. Il romanzo, ambiguo e scandaloso, è ambientato in un noioso campo militare della Georgia e mostra l’evolversi di un groviglio di nevrosi nell’ambito di un bizzarro gruppo di persone: una creatura disinibita e selvaggia, sposata a un brutale e misogino maggiore (che nasconde un’omosessualità latente) e amante di un ufficiale (dal quale è attratto anche il marito), la cui moglie è un essere fragile e tormentato; c’è pure un giovane soldato introverso e voyeur che cavalca nudo di notte. E tutti i personaggi non sanno né amare né comunicare e si legano in una tragica ragnatela di torbide relazioni.

Questi due romanzi furono un evento letterario di gran successo; Carson fu celebrata come una scrittrice dal talento superlativo e le furono riconosciuti diversi premi della critica. I successivi libri e racconti furono all’altezza dei primi testi e tutti dei bestseller: Invito di nozze (1946) – da cui fu tratto uno spettacolo teatrale premiatissimo che furoreggiò a Broadway e un film di Fred Zinnemann (1952) – che narra della crisi esistenziale di una ragazzina, Frankie, orfana e alla vigilia del matrimonio di un fratello più grande al quale è legatissima; Ballata del caffè triste (1951) – dal quale pure furono tratti una commedia e un film per la regia di Simon Callow (1990) con Vanessa Redgrave e Rod Steiger – ove nel dolore per l’amore impossibile da ricambiare agiscono i tre improbabili protagonisti di un drammatico triangolo amoroso di gusto felliniano (un donnone androgino e scorbutico, un nano deforme e l’ex–marito galeotto); e Orologio senza lancette (1961), dominato dalla lacerazione dell’odio razziale e dall’angoscia della morte (quest’ultimo lavoro non ebbe molto successo e gettò nello sconforto la scrittrice, abituata al consenso generale).


Carson, in effetti, ha scritto la storia della sua vita; la tragedia e l’ambiguità del suo privato superavano di molto quelle simili dei suoi personaggi: a 22 anni aveva sposato il militare–scrittore fallito J. Reeves McCullers (entrambi erano bisessuali e talora innamorati della stessa persona), divorziarono nel 1941 (il marito, mantenuto insieme ai suoi amorazzi da Carson, aveva falsificato degli assegni), si risposarono nel 1945, Carson che soffriva d’alcolismo tentò il suicidio nel 1948, furono entrambi sull’orlo di un duplice suicidio nel 1953, e nello stesso anno Reeves (lasciato da lei definitivamente) s’uccideva in un hotel parigino. Un’angosciosa rappresentazione di questi episodi di vita si ritrova nel dramma La radice quadrata del meraviglioso (1958).


Negli anni ’50, la scrittrice visse a Parigi e strinse amicizia con Truman Capote e Tennessee Williams, autori sulla sua stessa lunghezza d’onda e nella tradizione “gotica” del Sud americano. Intanto, la sua salute peggiorava in mezzo a depressioni (e cure psichiatriche), pleuriti, pol­moniti doppie, angine e ictus devastanti che la costrinsero infine su una sedia a rotelle, impedendole di continuare a scrivere. Negli ultimi mesi tentò faticosamente di dettare la sua biografia: la sua «canzone interrotta».


La vita infelice e disperata di questo astro brillante della letteratura fu stroncata definitivamente da un grave ictus emorragico: moriva il 29 settembre del 1967 dopo lunghe sofferenze e dopo 47 giorni di coma profondo. (www.zam.it, Recensioni, 2007)

P.S. Il cuore è un cacciatore solitario (The heart is a lonely hunter) fu adattato per il cinema dall'omonimo romanzo di Carson McCullers nel 1968 (sceneggiatore Thomas C. Ryan) per la regia di Robert Ellis Miller con Alan Arkin (John Singer) e Sondra Locke al suo debutto (Mick Kelly, la ragazza aspirante pianista). Furono entrambi nominati per l'Oscar. Il film, che non è molto noto in Italia, ricevette anche quattro nomination ai Golden Globe mentre Alan Arkin vinse un New York Film Critics Circle Awards.

Riflessi in un occhio d’oro (Reflections in a Golden Eye) fu diretto nel 1967 da John Huston con Elizabeth Taylor (Leonora Penderton), Brian Keith (il tenente colonnello Morris Langdon), Marlon Brando (il maggiore Welden Penderton), Julie Harris (la fragile Alison Langdon), Robert Foster (l'aitante e misterioso soldato Williams) e Zorro David (il cameriere filippino Anacleto, apertamente gay, col quale Alison discorre di pittura e musica). Crudo e coinvolgente, pervaso da comportamenti crudeli e ambigui, il film si dispiega sino all'esplosione del dramma: sconvolta da ciò che accade intorno a lei, Alison muore di crepacuore e, una notte, Penderton – un militarista omosessuale represso – uccide Williams venuto a spiare Leonora che dorme. Tutti credono che abbia ucciso per gelosia della moglie mentre egli amava disperatamente e segretamente Williams, a sua volta innamorato di Leonora. Insieme all'oggetto amato ha cercato di uccidere la sua – inconfessata e incoffessabile – omosessualità. E il riflesso del titolo fa riferimento all'occhio d'oro di un uccello immaginario dipinto da Anacleto. Hanno così commentato Laura, Luisa e Morando Morandini ne "il Morandini (Zanichelli editore): «Sottovalutato dalla critica e ignorato dal pubblico, l'una e l'altro disorientati da una vena grottesca che fu scambiata per involontaria parodia, è un film inquietante e suggestivo in cui Huston racconta con distacco lucido i personaggi senza dare valutazioni morali né spiegazioni psicologiche. Un quartetto d'attori di prim'ordine e un interessante uso del Technicolor, denaturato in laboratorio per ottenere una dominante di oro–arancio.». Ian Fleming, che amava la McCullers e questo breve romanzo, ne trasse ispirazione per chiamare "Golden Eye" la sua tenuta in Giamaica.

Da Invito di nozze (The member of the wedding) (1946), il regista Fred Zinnemann trasse il film Il membro del matrimonio, girato nel 1952, con la sceneggiatura di Edna e Edward Anhalt, e interpretato da Ethel Waters (Sadie Brown), Julie Harris (Frankie Addams), Brandon De Wilde (John Henry) – che si aggiudicò un Golden Globe speciale nel 1953 – , Arthur Franz (Jarvis Addams) e Nancy Gates (Janice). Il regista seppe dare spessore e intensità alla tenera storia di una dodicenne, Frankie, ragazzina solitaria, malvista da tutte le ragazze del quartiere, che vive in una opaca cittadina di provincia nel sud degli Stati Uniti. Frankie ha una sola amica, la cuoca di colore Sadie, e con lei trascorre molte ore in cucina chiacchierando ma ha anche un piccolo amico che abita vicino a lei. Molto legata al fratello Jarvis, sogna addirittura di partire con lui e con la moglie in occasione del loro viaggio di nozze, lasciando quell'ambiente così inospitale.

Dall'omonimo romanzo Ballata del caffè triste (The Ballad of the Sad Cafe), scritto dalla McCullers nel 1951, furono tratti sia la versione tetrale del 1963 di Edward Albee (il celebrato autore di "Chi ha paura di Virginia Woolf"), sia il film del 1990 diretto dal regista esordiente Simon Callow con Vanessa Redgrave (Miss Amelia), Rod Steiger (Marvin Macy) e Cork Hubbert (il nano Lymon). La storia è strana e surreale: in un villaggetto del sud degli Stati Uniti, povero e sperduto (siamo nel periodo della Grande Depressione), Miss Amelia, una donna matura e mascolina, ha un emporio e sottobanco gestisce anche una distilleria clandestina. Raggiunta da Lymon, un cugino nano e gobbo ma dal carattere lieto, che non aveva mai conosciuto, viene convinta da lui a trasformare in caffé il suo negozio. Vivono un breve periodo di gioia e la donna sembra anche ritrovare una certa dolcezza di carattere, ma ritorna dal carcere Marvin Macy, l'ex marito di Amelia, da lei cacciato la sera stessa delle nozze e finito in carcere, che è venuto a cercare vendetta. Lymon viene sottoposto a offese e umiliazioni da parte di Marvin, ma nonostante tutto cerca di procurarsi il suo affetto. Durante un litigio tra i coniugi, Amelia cerca di strozzare Marvin ma in soccorso dell'uomo accorre Lymon ed entrambi riescono a neutralizzarla. Diventati amici, i due uomini ubriachi provocano l'incendio della distilleria. Sono trascorsi molti anni da allora e una ormai vecchia Amelia ricorda il passato (Marvin intanto è nuovamente rinchiuso in galera). Ha scritto Gian Luigi Rondi (ne "Il Tempo"): «Restano fra i meriti, solo quel carattere durissimo al centro, che poi la vita distruggerà, e quell'ambientazione di sfondo ricostruita con un realismo acre non privo però di accenti tra il visionario e il simbolico: per testimoniare, sia pur senza coinvolgimenti né pietà, di una condizione umana.».

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