domenica 19 febbraio 2012

Pierre Boulle: Il ponte sul fiume Kwai e Il pianeta delle scimmie



Pierre Boulle



Cento anni addietro, il 20 febbraio del 1912, nasceva ad Avignone Pierre Boulle, prolifico scrittore, autore di romanzi, racconti e saggi. La sua vita è stata più esotica, movimentata e appassionante di un romanzo.

Dopo essersi laureato in Ingegneria, fu in Malesia dal 1936 al 1939 come consulente tecnico nelle piantagioni di caucciù. Arruolatosi durante la seconda guerra mondiale fu mandato in Indocina e, dopo l'occupazione tedesca della Francia, partecipò alla missione della Francia Libera a Singapore.

Da agente segreto (aveva preso il nome di Peter John Rule) fece parte della Resistenza in Cina, Birmania e Indocina Francese contro gli invasori giapponesi ma nel 1943, lungo il Mekong, cadde nelle mani dei militari francesi del governo di Vichy e, in prigionia, dovette subire la durezza dei lavori forzati. Riuscì a fuggire e fece ritorno in Francia ove, dopo la fine della guerra per questi suoi innegabili meriti, gli furono conferiti il Cavalierato della Legione d'Onore, la decorazione della Croce di Guerra e la Medaglia della Resistenza.

Dopo aver fatto ritorno a Parigi, si diede alla scrittura attingendo alle sue straordinarie esperienze di guerra. Divenne famoso nel 1952 con il romanzo storico Il ponte sul fiume Kwai (Le pont de la rivière Kwai): il libro divenne un bestseller internazionale, vincendo il Prix Sainte-Beuve. Contestando la follia della guerra e certe assurdità dei valori e dell'etica delle istituzioni militari, narra la storia vera di un gruppo di prigionieri di guerra inglesi in Tailandia, costretti nel 1943 ai lavori forzati sulla “Ferrovia della Morte”, lunga 415 km e da costruirsi sul fiume Mae Klong, programmata dalle truppe giapponesi al fine di collegare la Tailandia con la Birmania. Per le spaventose condizioni di lavoro, per le privazioni e per le tremende sevizie inferte dai soldati giapponesi, morirono circa 16.000 di questi prigionieri – i loro corpi furono sepolti lungo la ferrovia – e più di 100.000 asiatici che facevano parte della manodopera, deportati dalla Malesia e dalle Indie orientali olandesi o arruolati in Thailandia e Birmania. Protagonista del romanzo è il tenente colonnello Nicholson che, dopo aver subito lunghe torture inflittegli dal comandante Saito per il suo rifiuto di far lavorare gli ufficiali in accordo con le norme della Convenzione di Ginevra, decide infine di collaborare con i giapponesi dirigendo i propri uomini nella costruzione di un ponte sul fiume Kwai. In lui c'era anche l'illusione di dimostrare la superiorità tecnica degli inglesi nella realizzazione del ponte e di conseguire una rivincita morale sugli inetti giapponesi; era anche convinto che i suoi ragazzi, finché avessero avuto la sensazione di esser comandati da lui, sarebbero stati soldati e non schiavi. Il ponte alla fine è costruito e per la sua importanza strategica viene minato dal comando alleato che intende farlo saltare al passaggio del primo treno pieno di militari giapponesi; sarà proprio Nicholson, del tutto involontariamente, a provocare l'esplosione di quel ponte che i prigionieri avevano costruito con immensa fatica e con sacrificio di vite umane. All'inizio del suo romanzo, scriveva Boulle: «L'abisso insormontabile che certe considerazioni scavano tra l'anima occidentale e l'orientale può darsi sia solo effetto di un miraggio. […] In questa guerra la necessità di “salvare la faccia” non era altrettanto imperiosa, necessaria per i Britannici come per i Giapponesi? […] Forse gli atti in apparenza opposti dei due nemici non erano per caso manifestazioni differenti ma anodine della stessa realtà immateriale? E lo spirito del colonnello giapponese Saito non era, nella sua essenza, analogo a quello del suo prigioniero, il colonnello Nicholson?» (Pierre Boulle, Il ponte sul fiume Kwai, traduzione di Enrica e Giuseppe Ciocia, Oscar Mondadori, Milano 1965).

Da questo libro fu tratto lo strepitoso ed epico film inglese di David Lean The Bridge on the River Kwa (1958), che vinse sette premi Oscar (incluso quello per la migliore sceneggiatura non originale conferito a Boulle), con Alec Guinness  nel ruolo di Nicholson si aggiudicò l'Oscar come miglior attore –, Sessue Hayakawa (il colonnello Saito), William Holden (il soldato americano Shears) e Jack Hawkins (il maggiore Warden).

Dopo diversi altri romanzi di successo, tutti pubblicati con Julliard, quali: La Face (1953), Le Bourreau (1954), L'Épreuve des hommes blancs (1955), Les Voies du salut (1958) e Un métier de seigneur (1960), nel 1963, Pierre Boulle raggiunse di nuovo l'immenso pubblico internazionale con Il pianeta delle scimmie (La Planète des Singes), prototipo e classico del genere fantascientifico distopico, ambientato nel Pianeta Soror e nel futuro, nel secolo terrestre XXXI. La storia viene raccontata quale messaggio in bottiglia, scritto da un pioniere spaziale che desidera lasciare una narrazione–testimonianza delle sue straordinarie avventure: «Affido questo manoscritto allo spazio, non con la speranza di ottenere soccorso, ma per contribuire, forse, a scongiurare lo spaventoso flagello che minaccia la razza umana. Dio abbia pietà di noi!». In Italia il romanzo fu tradotto nel 1965 da Luciano Tibiletti con il titolo Viaggio a Soror. Il pianeta delle scimmie (collana Il mosaico, Editrice Massimo, 1965). In un ambito fantascientifico e futuristico, Jinn e Phyllis, facoltosi turisti stanno facendo una gita intersiderale con la loro navicella spaziale: «Jinn e Phyllis stavano passando delle meravigliose vacanze nello spazio, il più lontano possibile dagli astri abitati. In quel tempo i viaggi interplanetari erano all'ordine del giorno.». I due notano una bottiglia fluttuante all’esterno e la recuperano, leggendo il manoscritto che si trova all'interno della bottiglia. Il pioniere spaziale, protagonista della storia, è il giornalista francese Ulisse Mérou – un personaggio simile non poteva che chiamarsi Ulisse! – che nel 2500, insieme al giovane fisico Arturo Levain e al piccolo scimpanzé Ettore, aveva seguito lo scienziato professor Antelle in un’avventura con il suo vascello spaziale destinato a raggiungere il pianeta extrasolare di Betelgeuse (distante trecento anni luce dalla Terra). Dopo due anni di viaggio, atterrano nel nuovo mondo e vi trovano una città abitata da uomini e donne di aspetto primitivo, dimentichi del linguaggio e ridotti in schiavitù, prede di una nuova genia di orangutan, gorilla e scimpanzé dall'atteggiamento umano e dal comportamento evoluto (la razza di scimmie “Simius sapiens” aveva preso il sopravvento sulla popolazione umana, sempre più debole e inetta). I nostri eroi cadono prigionieri di questa popolazione sororiana e Mérou viene rinchiuso in gabbia ed è usato come cavia e sottoposto a esperimenti scientifici per una ricerca sul comportamento sessuale in cattività (per questo scopo gli viene affiancata Nova, una donna bellissima ma quasi animalesca). Ulisse riesce a stabilire un rapporto sia con lei sia con Zira, graziosa scimpanzé, scienziata nel reparto scientifico, la quale – insieme al fidanzato Cornelius, anch'egli scienziato (e contro il saccente e borioso orangutan Zaius, suo capo d'istituto) – lo aiuta a ritrovare la libertà e lo inserisce nella società delle scimmie. Dopo il parto di Sirius (un figlio precoce e intelligente), Ulisse, Nova e il bambino vengono rimessi in orbita verso la Terra per paura che possano dare origine a una progenie evoluta. Ritornato sulla terra (sono passati 700 anni), Ulisse ha l'amara sorpresa di scoprire che anche la Terra è ora governata da scimmie intelligenti, divenute la razza dominante come a Soror. Abbandonata la Terra al suo destino allucinante, lancia il suo messaggio di sconforto nello spazio perché qualcuno lo ritrovi. Nell'epilogo si capisce che Jinn e Phyllis altro non sono che due giovani e pelosi scimpanzé. Appare evidente la forza e l'insito sarcasmo con il quale Boulle vuol capovolgere la teoria darwiniana dell'evoluzione realizzando un rovesciamento di prospettiva: sono le scimmie ad avere ora raggiunto il maggior grado di evoluzione, e non gli uomini! E adesso le cavie non sono le scimmie, ma gli uomini! A proposito della lettura del libro di Boulle, ha scritto Fernando Bassoli ne “IlClassico” il 26 gennaio del 2012: «Dirò solo che è una di quelle esperienze/condivisioni del possibile in forma di parola che tutti dovrebbero sperimentare. […] Questo per la capacità, disarmante, di Boulle di prendere quasi di peso il lettore e precipitarlo in una dimensione in perfetto equilibrio tra sogno e costanti spiegazioni scientifiche (qui torna utile allo scrittore lo studio dell’Ingegneria). La lezione da apprendere, al di là della sensibilità estrema palesata nella caratterizzazione psicologica dei personaggi chiave della vicenda (es. la bella Nova priva di una coscienza umana o l’empatica Kira, coi suoi commoventi rossori) è che quando si progetta un organismo letterario – cioè un mondo virtuale che vivrà autonomamente negli anni, raccontando cose sempre misteriosamente nuove – non bisogna porsi confini né di spazio né d’inventiva. Non bisogna porre limiti alla provvidenza. […] E allora i personaggi di questa strabiliante storia sono di quelli che continueranno a camminare al tuo fianco, come è accaduto al sottoscritto. Per tutta la vita.»
 (http://www.flaneri.com/index.php/flaneri/categoria/ilclassico).

Nel 1968 da questo fantastico romanzo fu tratto il film omonimo Planet of the Apes di Franklin J. Schaffner con James Whitmore, Charlton Heston (premiato con l'Oscar), Kim Hunter, Linda Harrison e Roddy McDowall. Il film è stato così commentato su il Morandini di Laura, Luisa e Morando Morandini (Zanichelli editore, Torino): «Thriller di anticipazione che è anche una favola filosofica sui nostri tempi con risvolti politici e sociologici. I suoi primi 20 minuti e gli ultimi 10 ne fanno un precursore della SF moderna al cinema. Vinse un Oscar speciale per il trucco creato da John Chambers.». Seguirono ben quattro sequel: L'altra faccia del pianeta delle scimmie (Beneath the Planet of the Apes) (1970) di Ted Post con James Franciscus, Charlton Heston, Kim Hunter, Linda Harrison e Maurice Evans – meno originale e più fiacco del precedente –; Fuga dal pianeta delle scimmie (Escape from the Planet of the Apes) (1971) di Don Taylor con Bradford Dillman, Kim Hunter, Ricardo Montalban, Roddy McDowall e Sal Mineo, che (come ha scritto il Morandini) «non manca di acume nel sottotesto di analisi politica»; e 1999 - Conquista della Terra (Conquest of the Planet of the Apes) (1972), con Roddy McDowall, Don Murray, Natalie Trundy e Hari Rhodes, e Anno 2670 ultimo atto (Battle for the Planet of the Apes) (1973), con Roddy McDowall, Claude Akins, Natalie Trundy e Severn Darden, entrambi diretti da J. Lee Thompson, ma inferiori per tensione e inventiva ai precedenti. Esistono anche il remake Planet of the Apes - Il pianeta delle scimmie (Planet of the Apes) (2001) girato da Tim Burton, con Mark Wahlberg, Tim Roth, Helena Bonham Carter e Paul Giamatti, e il prequel L'alba del pianeta delle scimmie (Rise of the Planet of the Apes) (2011) di Rupert Wyatt con James Franco, John Lithgow, Freida Pinto, Brian Cox e Tom Felton; Con riferimento a quest'ultimo film, ha scritto Edoardo Becattini il 26 gennaio del 2012: «“L'evoluzione diviene rivoluzione” recita la tagline americana del film. Aforisma perfetto per raccontare questo prequel–reboot espiantato direttamente dal lontano Pianeta delle scimmie datato 1968 per dimenticare l'esperimento dark–autoriale del remake di Tim Burton. Perché il film di Rupert Wyatt – […] – si racconta esattamente attraverso questi due movimenti. Una prima parte in cui si descrive l'Evoluzione della scimmia e si riscrive Frankenstein attraverso un moderno Prometeo alla ricerca di una cura per l'Alzheimer; e una seconda parte in cui la diversità e la sindrome del mostro vissute dalla Creatura–Scimpanzé creano i presupposti per un'insurrezione degna di Spartacus […] È all'interno di questi due momenti narrativi che si modella anche il progetto di questo nuovo capitolo: una dialettica schiavo–padrone in cui il film gioca a far finta di essere “schiavo” della saga originale e dei cliché del cinema di genere per poi mostrarsi perfettamente padrone degli eventi e della messa in scena.» (vedere l'articolo “Un fervido dinamismo visivo, tra tragedia classica e romanzo gotico”, su  http://www.mymovies.it/film/2011/riseoftheapes/). Ispirandosi al romanzo di Boulle, sono state realizzate anche due serie televisive nel 1972 e nel 1975, quest'ultima animata.

A questo bestseller, Boulle fece seguire molti romanzi: Un étrange événement (1957), Le jardin de Kanashima (1964), Le photographe (1967), Les jeux de l'esprit (1971), Les oreilles de jungle (1972), Les vertus de l'enfer (1974), Le bon léviatan (1977), Les coulisses du ciel (1979), L'énergie du désespoir (1981), Miroitements (1982), La baleine des Malouines (1983), Pour l'amour de l'art (1985), Le professeur Mortimer (1988), Le malheur des uns (1990) e À nous deux Satan (1992). In Francia, diversi romanzi sono stati trasposti per il cinema e per la TV.

Pierre Boulle scrisse anche molte interessanti raccolte di racconti, storie ricche di humour ironico, disincantate e ciniche, ferocemente candide ma al di là del plausibile e al limite dell'assurdo, a conferma di quanto incomprensibili possano essere la vita e la quotidianità: Contes de l'absurde (1953), Histoires charitables (1965), Quia absurdum: sur la Terre comme au Ciel (1970), Histoires Perfides (1976), e L'Enlèvement de l'Obélisque, uscita postuma nel 2007. Numerosi racconti hanno ispirato film per il cinema e la TV.

Sono degni di essere citati anche i suoi saggi L'ètrange croisade de l'empereur Frédéric II (1968) e L'Univers ondoyant (1987), e il dramma teatrale in quattro atti William Conrad (1962), prodotto per la TV nel 1973.


Nel 1990 pubblicò il romanzo autobiografico L'Ilon: souvenirs


Pierre Boulle morì a Parigi il 30 gennaio del 1994, all'età di 81 anni, senza essersi mai sposato, accudito da una sorella vedova e dalla figlia di lei. In un suo articolo scritto per ricordarlo, Alessandro Gnocci per “il Giornale” (http://sottoosservazione.wordpress.com/2011/08/17/il-bestsellerista-bacchetta-ecologisti-e-giudici/#more-23326), così scrive: «Pierre Boulle è il classico scrittore di cui si può dire: tutti sanno chi è, anche se pochi lo hanno sentito nominare. Alla sua morte non fu pubblicato alcun necrologio; eppure è stato un bestsellerista da milioni di copie. E un bestsellerista anomalo, di quelli che, con un pizzico di fortuna, se non vengono promossi in serie A, almeno ascendono allo status di “autore di culto”. Come Philip K. Dick. Al quale, con le dovute differenze, Boulle può essere nel complesso accostato. Togliete il senso di opprimente paranoia allo scrittore americano e aggiungete ironia a profusione. Togliete un po’ di dramma e aggiungete il gusto della provocazione intellettuale. Ed ecco Pierre Boulle, l’autore francese noto a chiunque per essere l’autore di romanzi divenuti prima casi editoriali e poi immortali classici cinematografici. […] La produzione è torrenziale, tocca tutti i generi ma mantiene una personalità originale perché scettica e dissacrante in tutte le direzioni. […] Il tema ricorrente è l’impossibilità di tracciare una linea netta tra il bene e il male, la normalità e la follia, la ragione e la fede. Ogni forma di pensiero assolutista, come ha scritto Giuseppe Scaraffia, viene smascherato da Boulle. […] L’assurdo si annida ovunque. […] Boulle ha affrontato a modo suo, cioè con perfido sarcasmo, temi difficili e attuali come la giustizia o l’ecologia. […] Con Boulle, questa è la regola, nessuna delle nostre «certezze» dettate dalla moda e dal conformismo è al sicuro. Il che fa di lui uno scrittore indispensabile.».

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