domenica 25 marzo 2012

Jean Vilar, il gigante del nuovo “teatro popolare” francese


Jean Vilar

Sono passati cento anni da quando Jean Vilar – stimato regista di grande forza drammatica e noto attore francese, oltre che studioso di notevole cultura in grado di riformare il teatro francese e non solo – nacque a Sète (Hérault, Languedoc–Roussillon) il 25 marzo del 1912.

Laureato in lettere e violinista jazz per vivere, s'iscrisse alla scuola d'arte drammatica dell'Atelier. Fu allievo, prima, e collaboratore, dopo, del grande Charles Dullin (1885–1949), insieme con Madeleine Robinson, Jean Marais, Étienne Decroux, Marcel Marceau, Jean–Louis Barrault, Roger Blin, Roland Petit, Jacques Dufilho e Alain Cuny. Dullin – insieme a Barrault, a Vilar e ad André Barsacq – fu a capo di quel rinnovamento del teatro francese che sfociò nel «teatro popolare decentralizzato», fondato sull'improvvisazione, sul mimo e sulla pantomima. Con il “Cartel des Quatre” e con il sostenere che praticare l’arte drammatica significava partecipare alla lotta per la cultura, aprirono la porta a una “età dell'oro”, durante la quale il teatro francese svolse un ruolo determinante nella vita sociale, Dopo una lunga tournée in Francia con la compagnia “La roulotte” (1941), nel 1943, Vilar formò una propria compagnia teatrale.

Nel cinema esordì come attore e recitò, saltuariamente negli anni, sino all'anno della morte. Ricordiamo: La sete degli uomini (La soif des hommes) (1930); Mentre Parigi dorme (Les portes de la nuit) (1946) di Marcel Carné con Pierre Brasseur, Serge Reggiani e Yves Montand (Jean Vilar interpretava Il Destino) – Joseph Kosma compose per il film, su parole di Prévert, la canzone Les feuilles mortes –; Gli squali della morte (Les requins de Gibraltar) (1947); Les frères Bouquinquant (1948); Acque torbide (Les eaux troubles) (1949); La ferme des sept péchés (1949) di Jean Devaivre con Jacques Dumesnil, Claude Génia, Pierre Renoir, Helena Manson e Jacques Dufilho; Giustizia è fatta (Justice est faite) (1950); Jocelyn – la grotta delle aquile (Jocelyn) (1952) di Jacques De Casembroot con Jean Desailly e Simone Valère; Le diavolerie di Till (Les aventures de Till L'Espiègle) (1956) di Joris Ivens e Gérard Philipe con Gérard Philipe e Fernand Ledoux; Le notti boccaccesche di un libertino e di una candida prostituta (Raphaël ou le débauché) (1971); e Quel violento mattino d'autunno (Le petit matin) (1971). Come ha scritto Gianni Canova (“Garzantina del Cinema”): «Nel cinema, pur prendendo parte a numerosi film, non fa mai valere appieno il suo talento, ma si limita a fornire virtuosistiche caratterizzazioni…».

Vilar fu anche sceneggiatore e voce recitante di film documentari per il cinema e la TV, quali: Avignon, bastion de Provence (1951), Le théâtre national populaire (1956), Mourir à Madrid (1963), Gérard Philipe (1966) e André Malraux, la légende du siècle (1972).

Dal 1943 Jean Vilar si dedicò anche alla regia teatrale con risultati molto più brillanti e nel 1944 fu a capo della "Compagnie des Sept". Nel 1947 inaugurò il Festival di Avignone, divenendo il cuore e l'animatore di uno dei più antichi e celebri festival di teatro del mondo, una delle più importanti istituzioni culturali a livello internazionale che gode di finanziamenti pubblici e privati milionari. Il festival d'Avignone costituisce un alto momento associativo, che intende coniugare teatro e architettura nel cercare ambienti all'aperto in uno spazio urbano alquanto ristretto che diviene luogo privilegiato di confronto e di scontro. Ha ospitato diversi milioni di spettatori in una città dal fascino indiscutibile, dall'atmosfera unica e dal destino grandioso (era stata la residenza del Papa nel Medioevo e per questo è ricca di bastioni, ponti, chiese e cappelle; è stata Capitale Europea della Cultura nel 2000). Nel mese di luglio, il Festival presenta i migliori spettacoli, aprendosi ai contemporanei e all'avanguardia, e divenendo un punto di riferimento che mette a confronto tutte le nuove generazioni. Da più di sessant'anni, nell'ambito di una poetica del “teatro popolare” quale espressione di un progetto culturale “collettivo”, cerca di cambiare il mondo e di realizzare una vera “utopia teatrale”: Vilar voleva che gli spettatori diventassero “partecipanti” in una “cooperazione interpretativa” tra organizzazione artistica e pubblico, e in un'“autonomia culturale” che riteneva altrettanto importante quanto gli ideali dell'uguaglianza e della libertà. Victor Hugo ha scritto: «Da lontano, Avignone somiglia ad Atene, e ha avuto anche qualcosa del destino di Roma» e Bruno Tackels, filosofo–critico teatrale e animatore di diversi dibattiti al Festival di Avignone, ha ripreso questa immagine, scrivendo: «Un secolo più tardi, Hugo avrebbe potuto aggiungere: “Avignone è diventata La Mecca di tutti i Festival di Francia e di Navarra, luogo magico in cui è stata inventata una politica culturale. Avignone ha i suoi santi, i suoi apostoli, la sua vulgata, e ogni anno richiama a un doveroso pellegrinaggio”» (su “Dalla parte di Jean Vilar: il Festival di Avignone e il mito fondativo del "teatro popolare"”, di Francesco Crisci, TafterJournal N. 27, del settembre 2010). Quest'esperienza, che rese Vilar popolare in ambito europeo, rappresentò una sua evoluzione artistica e lo trasformò in un intellettuale vivace, lucido e moderno. In Avignone, che dal festival viene trasformata durante il festival in un vero e proprio palcoscenico, a Jean Vilar è stata intitolata una casa, la Maison Jean Vilar (MJV), che non è un museo ma un centro di documentazione (possiede tutti i copioni, gli scritti, i costumi, i cimeli e le lettere del maestro) e dal 1979 svolge anche un'intensa attività culturale per tutto l'anno, costituendo «un luogo della memoria», come lo definì Paul Puaux, braccio destro e successore di Jean Vilar tra il 1972 e il 1979. Nel 1968, questo festival ha subito sia la contestazione di Maggio da parte dei giovani che chiedevano un cambiamento totale sia alcuni mesi di uno sciopero massiccio di artisti e lavoratori dello spettacolo; questa crisi, che rischiò di lacerare l'essenza stessa e la realtà organizzativa del Festival (definito dai contestatori un “Supermercato della cultura” e trasformato nell'immaginario collettivo in un “falso simbolo di mercificazione della cultura”), lo colpì molto segnandolo in modo indelebile. Dalla morte di Vilar, alla direzione del festival di Avignone, si sono succeduti diversi direttori ma nessuno ha saputo eguagliare la sua forza, la sua ricchezza culturale, il suo carisma e la sua grandezza.

Durante gli “gli anni gloriosi” del festival, egli trovò la sua icona e il suo interprete più sensibile nel grandissimo Gérard Philipe (1922–1959), astro luminoso sulle scene di Francia, morto giovanissimo all'apice della notorietà, divenuto con il suo bel volto intenso e sensibile, con i suoi occhi espressivi e luminosi, e con i suoi capelli ricci e scomposti, l'incarnazione della rivolta di una gioventù fragile e inquieta, nei confronti della generazione precedente coinvolta dalla guerra. Mitica la direzione di Vilar nel 1950 di Mère Courage et ses enfants di Bertolt Brecht e indimenticabile la messa in scena nel 1952 dello spettacolo teatrale di danza, tratto dal testo anti–nucleare Nucléa di Henri Pichette, con Gérard Philipe e Jeanne Moreau, su musica di Maurice Jarre – per questo spettacolo, Vilar chiese allo scultore americano Alexander Calder (1898–1976) d'inventare una delle sue grandi sculture di arte cinetica (chiamate "mobili"). In effetti, Vilar aveva scritto: «A cosa serve la messa in scena? …ho sempre cercato e cercherò sempre di assassinarla. Attraverso quali armi segrete o convenzionali? Ma nella maniera più semplice: rendendo una totale libertà all'attore nella ricerca del suo personaggio. Libertà di ricerca, libertà di creazione all'interprete, dunque, ma anche al maestro delle luci, il quale assiste a tutte le prove sul palcoscenico ma anche a quelle sulla “lettura” del testo. Libertà al disegnatore dei costumi o al decoratore delle scene, al costruttore delle stesse, ma anche all'assistente alla regia che dirige le comparse e i figuranti. Libertà, infine, al compositore delle musiche. Libertà a chi ancora? All'autore? Al traduttore, o all'adattatore (se l'autore è morto)? Ebbene, per quanto concerne la costruzione dell'opera, e dunque la costruzione del testo drammatico, del testo per il teatro, noi siamo tenuti a delle leggi ferree ma sconosciute: la libertà non esiste più. L'autore e il suo servitore (il regista) non possono e non devono agire in libertà. L'opera comanda ed è alle sue oscure costrizioni, comunque tutte da scoprire, che bisogna rispondere. La legge inevitabile del teatro è: “Essere compresi”. E comprendere la lezione d'insieme è più importante del senso letterale.» (“Bref”, n. 46, maggio 1961).

è interessante ricordare che, proprio nel 1947, Strehler e Grassi fondarono il Piccolo Teatro come un modello di “teatro stabile” pubblico (e, in quanto tale, sostenuto e finanziato dallo Stato), aperto e destinato a tutti coloro che non lo conoscono o che non possono permetterselo (incluso il proletariato non abbiente), teatro ma anche servizio pubblico e centro di cultura. E i contatti tra Vilar e Strehler furono sempre molto stretti. A quella data, però, in Francia, già esistevano teatri pubblici come la Comédie–Française e l’Opéra.

Nel 1951, Jean Vilar fu chiamato a dirigere il nuovo teatro di Stato, il Théâtre National Populaire (TNP), centro d’arte drammatica sito presso il Palazzo di Chaillot del Trocadéro a Parigi, che nasceva con lo scopo di una realizzazione di programma e di un'organizzazione teatrale che fossero veramente a carattere popolare. Gérard Philipe divenne l'attore emblema di quella estetica del “teatro popolare” (intesa come processo evolutivo indotto da un'esperienza di democratizzazione culturale) e il TNP fu la serra nella quale crebbero i tecnici e gli attori migliori di Francia: ad esempio, Philippe Noiret vi lavorò per circa dieci anni, Jeanne Moreau (che debuttò nel 1947 sul palcoscenico del Festival Teatrale di Avignone) nel 1951 lasciò la compagnia della Comédie Française per il più sperimentale TNP di Jean Vilar, e Agnès Varda (protagonista della Nouvelle Vague e fotografa al TNP di Jean Vilar) divenne una regista elegante e raffinata nell'analizzare la complessità dell'animo femminile e dei rapporti di coppia. 


Nel 1951, all’inizio della sua attività di direttore al TNP, Vilar aveva scritto: «L'arte del teatro è nata dalla passione, calma o ansiosa, a seconda degli individui, di conoscere. Essa non assume tutto il suo significato se non quando riesce a raccogliere ed unire.» (“Un teatro per tutte le persone”: http://www.piccoliprincipiteatro.it). Grazie a Vilar, il teatro francese riuscì a penetrare nei più diversi e sconosciuti strati del pubblico che, attraverso una grande semplicità e una esemplare chiarezza della interpretazione, furono condotti quai per mano alla conoscenza dei testi teatrali immortali e dei moderni lavori dal forte impegno socio–culturale.

In una sua conferenza stampa del marzo 1969 (tratta da “Le Théâtre, service public”), Jean Vilar disse: «In definitiva, il miglior riconoscimento per Avignone è quello di avere aiutato, con l'esempio e la pratica, attraverso la perseveranza e, per dio, attraverso la creazione, a trasformare la nozione stessa di spettacolo, facendo in modo di agevolare la nascita e quindi l'espansione disinteressata, a gettare le basi stesse di una cultura al servizio di tutti o, almeno, a disposizione di tutti. […] Questo teatro comunitario che tutti o quasi tutti sogniamo, intendo dire questo teatro non a tutti i costi rivoluzionario o impulsivo, ma che naviga con sicurezza controcorrente rispetto alle abitudini, alle tradizioni comode ed ecumeniche, alle politiche correttamente fissate, ai diritti acquisiti, il teatro per il popolo, per il popolare, per il lavoratore delle città così come per quello delle periferie più isolate, questo teatro non è altro che una utopia necessaria? Non è che un ideale? Come l'uguaglianza? O la libertà? Nonostante questa visione apparentemente pessimista della nostra impresa, noi non ci siamo mai arresi nel nostro agire di sempre. Noi continuiamo e continueremo.» (su “Dalla parte di Jean Vilar: il Festival di Avignone e il mito fondativo del "teatro popolare"” di Francesco Crisci, TafterJournal N. 27, del settembre 2010).

In un'altra occasione, quasi alla fine della sua vita, Vilar aveva detto: «Cos’è e cos’era, al contrario, Avignone? Un luogo di incontri pacifici, di riflessione, di ricerca di un pubblico unito in una società evidentemente divisa. Un luogo di confronto tanto di idee quanto di stili, di ideologie e di morali. Da quindici anni dico che la teoria fondamentale consistente a lasciare intendere che la rivoluzione efficace arrivi attraverso il teatro non è solamente falsa, non solo è una sciocchezza, ma è una ipocrisia. La mia teoria, la mia ideologia, il mio lavoro erano, lo confesso, più modesti, ma anche molto più efficaci. L'ho già formulato in modo simile: svegliare, provocare, sviluppare, aguzzare la riflessione degli spettatori delle classi lavorative.» (1971, ripreso in “Le Théâtre, service public”).

Il TNP ebbe la sua rivista, “Théâtre Populaire”, un'originale esperienza editoriale rimasta mitica nell’ambiente teatrale francese, che nutriva una fede incrollabile in un teatro politico dell’avvenire (aveva fra i suoi collaboratori più importanti e celebri Roland Barthes e Bernard Dort). Pubblicata dal 1953 al 1964, era considerata sia un bollettino informativo del TNP sia quasi l'organo ufficiale del "brechtismo" francese, lo strumento comune della battaglia in favore del teatro di Brecht. Ha scritto Marco Consolini: «La figura di Jean Vilar, sempre presente, talvolta imbarazzante per TP lungo tutta la sua esistenza, si trasforma in cartina di tornasole, in strumento di segnalazione dei suoi snodi, di misura delle sue tensioni e incertezze.» (su: “Théâtre Populaire: Breve Storia di una rivista teatrale”, http://www. cultureteatrali. org/
images/pdf/ct4_1.pdf).

Nel 1955 Jean Vilar pubblicò l'interessante raccolta di scritti De la tradition théâtrale (L'Arche, Paris).

Nel segno della continuità, Vilar lasciò la direzione del teatro al suo migliore collaboratore, Georges Wilson (1921–2010), attore molto noto anche in Italia e regista francese, allievo di Pierre Renoir, che nel 1952 era stato chiamato da Jean Vilar e Gérard Philipe a far parte del TNP, ove interpretò i ruoli più prestigiosi della sua carriera. Vilar lavorò allora al Théâtre Récamier, nel quale collaborò insieme alla Compagnie Renaud–Barrault, espulsa dall'Odéon dopo il maggio del 1968 e che vi rimase sino al 1975.

Vilar, che aveva pronunziato la celebre frase: «La morte non può spegnere un'anima», morì purtroppo ancora giovane, a soli 59 anni, nella città natale di Sète il 28 maggio del 1971 e fu seppellito nel cimitero di Saint-Charles a Sète. Questo grazioso cimitero si trova di fronte al mare: vi fu seppellito Paul Valéry (1871–1945), che nel 1920 aveva scritto la celebre “Le Cimetière marin” (il cimitero fu ribattezzato per questo Cimitero marino). Più tardi, il cantautore Georges Brassens, nato anch'egli a Sète (1921–1981), compose “Supplique pour enterré à la plage de Sète”, nella quale pregava di venire sepolto sulla spiaggia di Sète, così da riposare in un cimitero più marino di quello di Paul Valéry.

Nel 1972 Jacques Rutman ha diretto il documentario Jean Vilar, une belle vie, con la partecipazione di Georges Wilson, Dominique Paturel, Jean–Louis Trintignant, Philippe Noiret, María Casares, Claude Piéplu, Germaine Montero, Daniel Ivernel e Geneviève Page, dedicato alla vita e alla carriera di questo grande uomo di teatro, che aveva tentato di rinnovare il linguaggio teatrale attraverso una strenua ricerca innovativa e una “comunicazione aperta con lo  spettatore”, il quale doveva essere “formato” sotto la spinta del sogno di un teatro come servizio pubblico e di una fruizione teatrale popolare, non  elitaria, ma estesa a tutti gli strati sociali.

Gianni Poli (Scena francese nel secondo Novecento: Jean Vilar–Louis Barrault, Il Nuovo Melangolo –  collana Opuscula, Genova, 2007) ci ha restituito degli eccellenti ritratti di due superbi protagonisti della scena francese, che sono stati anche i protagonisti assoluti dello spettacolo contemporaneo. In questo «racconto di due diverse avventure artistiche», nell'apertura del libro, in una breve nota in corsivo, l'autore così scrive: «La commemorazione dei protagonisti comporta comunque la rievocazione di molti altri compagni di strada e, di conseguenza, di quell'affollato panorama di opere e compagnie e talenti che costituisce uno dei patrimoni più significativi del teatro novecentesco europeo.». Ha osservato Siro Ferrone, nella recensione a questo libro: «Poli affronta lo studio di due personalità rilevanti come Vilar e Barrault con la pazienza e la cura che si dedicano solitamente ai classici della letteratura, seguendo un'ordinata procedura ermeneutica che lo vede compulsare con analitico rispetto tutti i contributi critici (soprattutto francesi, ma non solo) che si sono nel tempo affollati, dimostrando di ascoltare – cosa rara – tutte le voci che, anche contraddittoriamente o temerariamente, si sono succedute. […] Non si tratta quindi di un libro che giustappone due monografie, quanto piuttosto di un libro che, attraverso due monografie, traccia in realtà l'inedito – soprattutto per l’Italia – disegno di una civiltà dello spettacolo. […] Di Vilar si registra, in definitiva, la contraddizione fra l'aspirazione a un repertorio classico di alto profilo e l'ansia di partecipare al rinnovamento del presente più concreto. […] Entrambe le biografie sono così accomunate da un'idea agonistica e utopica della vita e del teatro, per cui, in una stagione straordinaria della cultura europea, il successo “è un incitamento e un conforto, mai un alibi”».


1 commento:

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