sabato 14 aprile 2012

Georges Franju, grande cinefilo e cineasta misconosciuto



Georges Franju



In questi giorni avrebbe compiuto 100 anni Georges Franju, uno dei più grandi cineasti francesi, il cui rilievo e la cui capacità d'analisi sono stati spesso sottovalutati. Bretone, nacque a Fougères (Ille–et–Villaine, Bretagne) il 12 aprile del 1912.

Dopo vari lavoretti e dopo un breve arruolamento militare in Algeria (si dimise nel 1932), nel 1936, con Henri Langlois (1914–1977) – un funzionario, pioniere del restauro e della conservazione delle pellicole cinematografiche – Georges Franju aveva creato il cineclub chiamato “Le Cercle du Cinema”, ove venivano proiettati e dibattuti i migliori film muti dell'epoca, appartenenti alla loro collezione privata (ormai dimenticati e considerati inutili). Dalle ceneri del cineclub, nello stesso anno nacque la “Cinémathèque Française” (primo archivio di film in Francia e prima istituzione dedicata ai segreti e alla storia della settima arte), fondata con lo stesso Henri Langlois e con il critico del cinema Jean Mitry (1907–1988). Franju se ne allontanò ben presto, nel 1938, ma si riavvicinò nuovamente alla Cinémathèque negli anni Ottanta, quando ne divenne il direttore artistico onorario. Libertario e laico, tra il 1945 e il 1953, fu il segretario dell'“Institut du cinéma scientifique” creato da Jean Painlevé e divenne un apripista della scuola cinematografica d'avanguardia che preparerà la nuova stagione della Nouvelle Vague.

Dopo aver disegnato gli allestimenti per le Folies–Bergère, iniziò ben presto a lavorare nel cinema come scenografo e come regista di cortometraggi di grande tensione morale, forza poetica e impatto emotivo. Indimenticabili restano Le métro (1934) – girato con Henri Langlois –; Le sang des bêtes (1949) (uno sconvolgente e brutale ritratto del mattatoio di Parigi a La Villette); En Passant par la Lorraine (1950), commissionato dal governo per celebrare la modernizzazione dell'industria francese; Hôtel des invalides (1951), con la voce inconfondibile di Michel Simon, anch'esso commissionato dal governo, uno sguardo accorato sull'Hôtel, ospedale per veterani, e sul museo dell'Armée (il film, che avrebbe dovuto essere una celebrazione, divenne invece un pamphlet contro la retorica del militarismo e l'irrazionale crudeltà della guerra); Le grand Méliès (1953), omaggio al regista–illusionista Georges Méliès (1861–1938) e al cinema muto tramontato miseramente; Monsieur et Madame Curie (1953), dedicato all'appassionante biografia dei due noti scienziati; Le théâtre national populaire (1956) sull'esperienza di quell'avanzato centro d’arte drammatica rimasto nella storia del teatro mondiale; Notre Dame - cathédrale de Paris (1957) e Marcel Allain (1965), omaggio all'autore del romanzo Fantômas. Tutti questi documentari erano caratterizzati da una originalità surreale delle immagini, apparentemente banali nel loro realismo documentaristico ma ricche di un pathos talora straziante che prescindeva dallo sguardo gelido – da osservatore – del regista.

Queste singolari particolarità, attraverso una linea ideale, furono da lui trasfuse nel lungometraggio. Ha scritto Robin Wood (International Dictionary of Films and Filmmakers, 1991): «La carriera di Franju si divide chiaramente in due parti, definite dal format dei film: il primo periodo dei brevi documentari e il successivo periodo dei lungometraggi. Le parti sono connesse da diversi legami di tema, raffigurazione fantastica e iconografia.» (http://www.theyshootpictures. com/franjugeorges.htm).

Tra i suoi film più significativi (in molti dei quali fu anche autore–sceneggiatore) sono da ricordare: La fossa dei disperati (La tête contre les murs) (1958), tratto dal romanzo di Hervé Bazin, con Jean–Pierre Mocky, Pierre Brasseur, Paul Meurisse e Anouk Aimée, apologo impietoso e sinistro sull'ambiente disperato del manicomio (François, figlio dell'anaffettivo avvocato Geràne, giovane ribelle, sorpreso dal padre a rubare e a bruciare un suo importante dossier, viene internato dal padre in un manicomio criminale diretto da un medico autoritario; costretto a confrontarsi con il dolore dei relitti umani che vegetano in quella mostruosa struttura, François tenterà un  tragica fuga con un amico epilettico, interpretato da un esordiente e bravissimo Charles Aznavour); Piena luce sull'assassino (Pleins feux sur l'assassin) (1961) con Pierre Brasseur, Jean–Louis Trintignant, Philippe Leroy e Pascale Audret, che racconta in una inquietante atmosfera ironica la storia del conte Kéraudren che prima di morire scompare nel suo castello ove uno dopo l'altro vengono assassinati in finti incidenti i quattro nipoti, suoi eredi (e pian piano si ricompone il puzzle che porta alla soluzione del giallo); Il delitto di Thérèse Desqueyroux (Thérèse Desqueyroux) (1962), con Emmanuelle Riva, Philippe Noiret, Edith Scob e Sami Frey, grande film basato sul superbo ritratto di una criminale fatto da François Mauriac, adattato con la collaborazione del grande scrittore e vincitore al festival di Venezia (la coppa Volpi fu attribuita alla Riva), storia di una donna che alienata dalla sua esistenza borghese tenta di avvelenare il gretto ed egoista marito (al processo testimonierà in suo favore soltanto per salvare il buon nome familiare) e la soffocante e ipocrita provincia viene ritratta dal regista transalpino con uno spietato sguardo documentaristico; L'uomo in nero (Judex) (1963), con Channing Pollock, Francine Bergé, Edith Scob e Théo Sarapo, un affettuoso tributo alla serie di film muti dedicati a Fantômas e un colto omaggio a L. Feuillade, che nel 1913 adattò per il grande schermo il romanzo di Marcel Allain e Pierre Souvestre (ha scritto Gianni Canova – in Cinema, le garzantine 2009 – che «tra peripezie e rocamboleschi colpi di scena il regista rievoca le atmosfere perdute di un certo cinema degli esordi, ingenuo e avventuroso»); Thomas l'imposteur (1965) dal romanzo scritto nel 1923 da Jean Cocteau, presentato al 15° Festival Internazionale di Berlino, manifesto contro l'allucinante follia della guerra; L'amante del prete (La Faute de l'abbé Mouret) (1970), tratto dal romanzo di Émile Zola del 1875 (appartenente al Ciclo dei “Rougon–Macquart”), con Francis Huster, Gillian Hills, André Lacombe e Tino Carraro, coprodotto da F. Truffaut, storia del curato Mouret, pieno di buone intenzioni, che seduce un'ingenua ragazza di campagna e che pur pieno di rimorso l'abbandona incinta (ha scritto Gianni Canova: «Franju sviluppa gli elementi simbolici e fantastici della trama, dando contemporaneamente voce a una forte critica anticlericale»); e Notti rosse (Nuits rouges) (1973), con Gayle Hunnicutt, Jacques Champreux, Josephine Chaplin e Ugo Pagliai, una divertente e divertita interpretazione del genere avventuroso.

Ma il suo grande capolavoro è Occhi senza volto (Les yeux sans visage) (1959), film horror di grande tensione, superbo thriller drammatico e archetipo fantascientifico dei film sui trapianti eterologhi, che spazia tra tragedia e poesia, tra orrore e follia. La trama, molto interessante, si svolge in un'atmosfera crepuscolare (l'ottima fotografia è di Eugen Schüfftan, il creatore degli straordinari effetti speciali di “Metropolis” di Fritz Lang): a Parigi il brillante chirurgo plastico Génessier (un grande Pierre Brasseur) provoca uno spaventoso incidente stradale da cui la figlia Christiane (Edith Scob) esce orribilmente sfigurata; reso pazzo dal senso di colpa, con l'aiuto della succube assistente Louise (Alida Valli, in un ruolo di donna tetra ma affezionata), il medico adesca, rapisce e uccide delle giovani e belle ragazze bionde per ricostruire con avveniristici trapianti i bellissimi tratti del volto sfigurato di Christiane che tutti credono morta mentre vive invece reclusa nella villa del padre, depressa e disillusa. I numerosi cadaveri di belle ragazze bionde senza volto, ripescati nella Senna, mettono in moto la polizia (Claude Brasseur); anche Jacques (François Guérin), il fidanzato di Christiane, sospetta qualcosa e la stessa Christiane, lacerata dal dramma psicologico e ormai convinta che il suo bel viso è perduto (il padre le ha reso soltanto una inespressiva maschera di cera), si pente di essere stata complice del padre e cercherà di fermarne il macabro e accanito istinto omicida. Il film, tratto dall’opera di Jean Redon, è stato sceneggiato dai grandi Pierre Boileau e Thomas Narcejac (i romanzieri che hanno ispirato “I diabolici” di Henri–Georges Clouzot e “Vertigo” di Alfred Hitchcock) e si è avvalso della suggestiva e coinvolgente colonna sonora di Maurice Jarre. Ha meritato a Georges Franju la fama di «maestro del realismo fantastico». A proposito del film, aveva commentato Franju: «Quando girai Occhi senza volto mi fu detto: “Nessun sacrilegio a causa del mercato spagnolo, nessuna nudità a causa di quello italiano, niente sangue a causa di quello francese e niente animali martirizzati a causa di quello inglese. E io che pensavo di fare un film horror!”». E girava anche un aneddoto: quando il film fu presentato al Festival di Edimburgo, alcuni spettatori persero i sensi e Franju disse alla stampa che aveva capito finalmente perché gli scozzesi indossassero la gonna. (http://moviecinemania. blogspot.it/2008/04/occhisenzavolto-franju.html). Ha scritto Danilo Cardone in un suo articolo del 2 giugno 2011: «Considerato da molti come un caposaldo del genere horror, Occhi Senza Volto è un film che ha segnato un’epoca ma che oggi appare come troppo sorpassato. […] ha contribuito negli anni a formare l’immaginario collettivo con immagini difficili da dimenticare, eppure visto a distanza di anni mette in luce tutte le sue vaste lacune.» (http://cinefobie.com /2011/06/02/occhi-senza-volto-georges-franju-1960/). Ha scritto inoltre Gianni Canova (Cinema, le garzantine 2009): «La vicenda viene trattata mescolando realismo e lirismo, creando un effetto tra il bizzarro e l'inquietante.».

Negli anni Settantam trascurato dal cinema, Georges Franju si dedicò alla TV: ricordiamo i quattro episodi di “Le service des affaires classées” (1970), gli otto episodi di “L'homme sans visage” (1975) e i due episodi di “Cinéma 16” Le dernier mélodrame (1979) e La discorde (1978). Ha scritto nella sua Scheda sul film La tête contre les murs, a proposito del regista francese, Tita Bellini: «Erede della tradizione del realismo poetico, vicino al surrealismo, ammiratore di Feuillade e Buñuel, Franju è un visionario alla ricerca di quello che chiama “l'insolito”, il fantastico, da non confondere con il sensazionale e l'orrido. […] Poi Franju abbandona il cinema per la televisione: “L'insuccesso mi ha obbligato a girare dei telefilm, ma purtroppo il cinema di poesia interessa poco in televisione”. “Se non mi fanno più lavorare poco importa, mi resta tempo per sognare, attività che non costa nulla e che mi è sempre stata congeniale”, confidava nel 1982. Franju riesce a ricreare il mistero a partire dal quotidiano (“l'insolito emerge da solo dagli interstizi della realtà quotidiana”); per questo, paradossalmente, amava definirsi “realista, dunque surrealista”.» (http://www.renatadurando.com /tinamodotti/Programma_2012/Schede_film_2012/fossa.pdf).

Georges Franju morì a Parigi il 5 novembre 1987: aveva 75 anni.

Ha scritto Roberta Gigi a proposito di questo regista singolare: «La sua passione per il cinema, nata grazie all’amicizia di Henry Langlois, era una personale dichiarazione d'amore verso la verità, ch'egli riusciva a portare alla superficie in modo a volte cinico, ma così limpidamente affascinante. Il binomio violenza–tenerezza rivela l'estetica dell'autore, la cui carriera verrà celebrata oltre che da registi della Nouvelle Vague come Truffaut e Godard, da altri esponenti del mondo del cinema, nonché dai circoli letterari. L'interesse per l'immagine e il suo potere di impressionare, ebbe su di lui un effetto molto profondo durante il periodo della giovinezza; come sotto effetto di una droga, l'immagine proiettata sullo schermo aveva per lui molta più credibilità della realtà concreta. […] Il suo aspetto critico, i suoi film, e la sua fama sono da attribuire alla sua formazione culturale, i cui maestri sono stati Fritz Lang, Georges Méliès, Ferdinand Zecca, Louis Feuillade.» (http://www.fusiorari.org/fusiorari/html/modules.php?name= News&file=print&sid=285).


E per concludere, Claire Clouzot ha descritto il cinema di Franju come «uno straziante realismo fantastico ereditato dal surrealismo e dal cinema scientifico di Jean Painlevé, influenzato dall'espressionismo di Lang e Murnau» (vedere: Ince Kate, Georges Franju, Manchester University Press, 2005).

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