venerdì 20 aprile 2012

Marcel Camus e il suo film capolavoro Orfeo negro

Marcel Camus


Il 21 aprile di cento anni addietro, nel 1912, nasceva Chappes, nelle Ardenne, il regista e sceneggiatore cinematografico francese Marcel Camus (morì a Parigi il 13 gennaio del 1982 all'età di 69 anni). è noto soprattutto per avere diretto Orfeo negro” (1959), vincitore della Palma d'oro al Festival di Cannes e Oscar per il miglior film straniero.

Figlio di un insegnante elementare, aveva studiato Belle Arti ed era diventato professore di disegno e di pittura ma – richiamato durante la seconda guerra mondiale – era stato deportato in un campo di concentramento in Germania; in questo tetro ambiente, scoprì il teatro montando i suoi primi spettacoli con gli amici detenuti e sperimentandosi scenografo, attore e regista. Ritornato in Francia, grazie allo zio – lo scrittore Roland Dorgelès –, conobbe molti registi di fama e divenne sia assistente sia consulente tecnico di Luis Buñuel, Alexandre Astruc, André Barsacq, Daniel Gélin e Jacques Becker (vedere: Encyclopédie des personnalités du cinéma, http://cinema.encyclopedie.personnalites.bifi.fr/index. php?pk=13743).

Alla fine degli anni Quaranta e negli anni Cinquanta, fu aiuto regista di molti grandi maestri del cinema. Sono da ricordare: Le sedicenni (Rendez-vous de juillet) (1949) di Jacques Becker, (presentato in concorso al 3º Festival di Cannes); Amore e fortuna (Antoine et Antoinette) (1947) sempre diretto da Becker (vincitore del Grand Prix du Festival International du Film); Casco d'oro (Casque d'or) (1952) ancora di Becker con la grande Simone Signoret; Il nemico pubblico numero uno (L'ennemi public n° 1) (1953) di Henri Verneuil; Sangue e luci (Sangre y luces) (1954) di Ricardo Muñoz Suay e Georges Rouquier; L'allegro squadrone (1954) di Paolo Moffa (tratto dalla farsa militare Les gaités de l'escadron di Georges Courteline); e Gli amanti di domani (Cela s'appelle l'aurore) (1956) di Luis Buñuel con Georges Marchal    e Lucia Bosé.

Iniziò quindi a volare da solo, facendo il grande salto. Non era più giovane ma un uomo già maturo, aveva quarantacinque anni ed era il 1957 quando realizzò il suo primo lungometraggio La donna di Saigon (Mort en fraude) (1957), da un adattamento del romanzo di Jean Hougron, con Daniel Gélin, storia di un villaggio vietnamita ridotto alla fame durante la guerra d’Indocina. Nonostante qualche debolezza, il film mette in discussione l'opportunità della guerra e costituisce una critica scoperta alla politica francese che «n’a fait que dégrader et avilir la culture indochinoise (non ha fatto che degradare e avvilire la cultura indocinese)». Il film fu censurato per il suo eversivo messaggio di fraternità tra i popoli.

Ma il suo vero capolavoro fu il suo secondo film, Orfeo negro (Orphée Noir), film d'amore e di morte, storia di passione tenera e tragica, che il regista sceneggiò con Jacques Viot da un testo teatrale di Vinicio de Moraes, Orfeu da Conceição, ritagliandosi anche una parte da attore (era Ernesto), vincitore della Palma d'oro all'unanimità al Festival di Cannes nel 1959 e Oscar per il miglior film straniero nel 1960 (nello stesso anno, si aggiudicò anche il Golden Globe per il migliore film straniero). Era l'anno in cui il premio per il miglior regista fu attribuito al regista francese François Truffaut per il mitico “Les quatre centi coups” e quello come migliore attrice alla grande attrice francese Simone Signoret per “Room at the Top” di Jack Clayton. Girato in Brasile durante il carnevale di Rio, con attori prevalentemente presi dalla strada, il film è una rivisitazione lirica del mito di Orfeo ed Euridice (che si ripete senza soste nella storia culturale di sempre) e riprende le idee di fraternità del primo film. Il protagonista è Orfeo (Breno Mello, nella vita reale un giocatore di football), un giovane tranviere di Rio de Janeiro, amante del canto e della chitarra (in paese circola la voce che con l'armonia della sua musica sia lui a far sorgere il sole), rappresentante del samba e della bossa nova durante il carnevale di Rio de Janeiro. Di lui è innamorata Mira (Lourdes De Oliveira, che divenne moglie di Marcel) che vorrebbe sposarlo ma Orfeo è innamorato della graziosa Euridice, un'umile ragazza dei quartieri popolari (Marpessa Dawn, l'unica attrice professionista), inseguita da un uomo misterioso travestito per il Carnevale con il costume della morte. L'uomo riesce a rapirla ma Euridice scappa nel deposito dei tram e, a causa di Orfeo, muore folgorata. L'amante sconvolto – guidato da un collega tramviere di nome Ermes (Alexandro Constantino) – la ritrova morta e, stringendo tra le braccia l'inerte corpo senza vita di Euridice, giunge fino alla sua capanna sulla collina, ma viene colpito dalle pietre lanciate dalla gelosa Mira e dalle sue amiche precipitando in un burrone e riunendosi nella morte all'amata scomparsa. Un piccolo uomo, un ragazzino amico, prende allora la chitarra di Orfeo e – prima dell'alba – con le sue dita inesperte prende suonare, compiendo la magia di far spuntare il sole e di far iniziare così il nuovo giorno. L'intreccio passionale si avvale di un realismo vivace e colorato, di una rappresentazione poetica dell'allegria spontanea dei brasiliani, delle straordinarie canzoni e dei ritmici balli del Carnevale che fanno dimenticare nella spensieratezza di un attimo la povertà delle favelas e le scelte tragiche di un destino infame segnato dai nomi dei due amanti infelici (il regista ha inserito anche un cane dall'evocativo nome di Cerbero). Come scrive Renato Persòli: «Euridice è la nostalgia, il futuro negato, la fine innocente, la vitalità stroncata: tutto piuttosto evidente nella versione di Moraes e Camus. Il film ha un di più: l'alternanza tra la luce e il buio, tema che ci è caro. Orfeo, secondo una credenza dei due bambini presenti nella pellicola, sa far sorgere l'alba con la musica, che si trasmette al suo giovane allievo, protraendosi nel passare a noi spettatori e lasciandoci un desiderio di giorno, di sconfitta delle tenebre.» (vedere: http://cartescoperterecensionietesti.blogspot.it/2007/12/marcel-camus-orfeo-negro.html).
Camus aveva scritto: «Pour moi, le cinéma n’est pas un but, c’est un moyen de trouver le contact avec les hommes (Per me il cinema non è uno scopo, ma un mezzo per trovare il contatto con gli uomini)». Nel film un grosso punto di forza evocatore e comunicativo è rappresentato dalla musica afro–latino–americana di Luis Bonfà, Vinicius de Moraes e Antônio Carlos Jobim, usata con ricchezza e invadenza, che mescola musica popolare brasiliana, jazz e primitivi ritmi carioca. Il film ebbe il merito di fare conoscere al mondo i ritmi del samba e della bossa nova, portando al successo brani come Samba de Orfeo, Manhã de carnaval e A felicidade (cantati da Agostinho dos Santos). Gianni Canova non è tenero con Marcel Camus: «[…] il ben più noto Orfeo negro, un'elaborazione del mito di Orfeo ed Euridice, incastonata nella cornice di Rio de Janeiro, che resta però lontana dalla realtà del contesto sociale brasiliano quale in seguito sarà messa in scena dal Cinema nôvo. Il film accolto come un'opera sfolgorante ([…]) si dimostra presto tutto giocato su un esotismo folcloristico esasperato e ridondante, rivelatore di una vena priva di profondità, In effetti i suoi film successivi, […], non si riscattano da una grigia medietà.» (Cinema, le garzantine, Garzanti, 2009). Ha scritto, invece, il critico di cinema Pietro Pintus: «[…] anche se Jacques Viot e Marcel Camus sono arrivati molto vicini al folclore meno pittoresco e alle sue componenti più genuine, Orfeo negro è sempre frutto di un intellettualismo di seconda mano, che si sforza di contaminare il mito greco con una realtà popolare che disdegna ogni ascendenza letteraria […] il film deve essere visto sotto il profilo dello spettacolo, mettendo subito da parte il decadentismo mitologico e il bagaglio allegorico […]» (Il cinema – grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara, 1982). Ha scritto Morando Morandini: «Un film pervaso da una frenetica e triste gioia di vivere con la Dawn che delinea una Euridice casta, sensuale e incantevole.» (il Morandini – Zanichelli editore).

Oltre al suo capolavoro, la filmografia di Camus (che spesso lo vedeva anche come sceneggiatore) comprende non più di una dozzina di film: Rio negro (Os Bandeirantes) (1961) di nuovo ambientato in Brasile con Raymond Loyer e Lourdes De Oliveira; L'uccello del paradiso (L'oiseau de paradis) (1963); Ossessione nuda (Le chant du monde) (1965) con Catherine Deneuve; L'homme de New York (1967); La ragazza della notte (Vivre la nuit) (1968) con Saro Urzì e Jacques Perrin; L'età selvaggia (Un été sauvage) (1970) con Daniel Beretta, Juliet Berto e Nino Ferrer; Un elmetto pieno di... fifa (Le Mur de l'Atlantique) (1970), una commedia sulla seconda guerra mondiale con il grande André Bourvil; Bahia, noto anche come Otalia de Bahia od Os Pastores da Noite (1979), tratto da un racconto del romanziere brasiliano Jorge Amado suo coetaneo (1912–2001), con Mira Fonseca e Antonio Pitanga.

Negli anni Settanta e Ottanta, Camus si occupò anche di TV. Ricordiamo le miniserie televisive Molière pour rire et pour pleurer e La porteuse de pain (1973), e Les faucheurs de marguerites (1974), storia romanzata dei pionieri dell'aviazione; i sei episodi di Ce diable d'homme (1978) sulla vita di Voltaire; la miniserie Le roi qui vient du sud (1979); Les amours du mal–aimé (1980) e la serie televisiva Winnetou le mescalero (1980); Le roman du samedi: L'agent secret (1981); Le féminin pluriel (1982); e Madrid (1983) (1° episodio delle “Capitali culturali d'Europa”).


Le ultime opere cinematografiche e televisive non raggiunsero la grandezza e il successo del grande capolavoro ma erano contrassegnate, però, dalla stessa generosità, dal medesimo coinvolgimento empatico e dal suo solito ideale umanistico.

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