domenica 27 maggio 2012

Euripide, Le Baccanti e il fascino del Mito greco


Euripide                                       Le Baccanti


è in corso per il 2012 il xlviii ciclo di rappresentazioni classiche a Siracusa – in quel meraviglioso palcoscenico all'aria aperta che è il Teatro Greco della città aretusea – con inizio l'11 maggio e conclusione il 30 giugno. Si rappresentano Prometeo di Eschilo, Baccanti di Euripide e Uccelli di Aristofane. Focalizzerò la mia attenzione sulle Baccanti e su Euripide, ricordando che la regia della tragedia è di Antonio Calenda, con le stupende coreografie della Martha Graham Dance Company.

Le Baccanti (titolo originale in greco antico Βάκχαι), è considerata a tutt'oggi una delle più grandi opere teatrali di tutti i tempi e costituisce una delle tragedie più antiche, scritta da Euripide (uno dei maggiori poeti tragici greci), e una di quelle rimaste più integre (e questo potrebbe forse far intuire quanto fosse amata e prediletta dal pubblico). Fu composta nel 407–406 a.C. e fu data in prima assoluta nel 403 a.C. presso il Teatro di Diòniso in Atene (sotto la direzione del figlio o nipote dell'autore ormai deceduto, chiamato anch'egli Euripide). Fu premiata alle Grandi Dionisie del 403 a.C.

I personaggi della tragedia sono: Diòniso, figlio di Zeus e di Semèle (Maurizio Donadoni); Pènteo, re di Tebe e figlio di Echiòne e Agave (Massimo Nicolini); Cadmo, padre di Semèle e Agave, nonno di Pènteo (Daniele Griggio); Agave, madre di Pènteo (Daniela Giovanetti), Tìresia, indovino cieco (Francesco Benedetto), la Corifea (Gaia Aprea) e naturalmente il coro delle Baccanti.

Ambientata a Tebe (davanti alla reggia di Pènteo, con vicino ancora fumanti le rovine della casa di Semèle), la trama ruota attorno a Diòniso – dio che celebra il vino, il teatro e il piacere, nato appunto dall'amore di Zeus per la donna mortale Semèle. Nel prologo, Diòniso racconta di essere venuto sulla terra, a Tebe, in forma umana per riaffermare la sua natura divina; così inizia la tragedia: «Suol di Tebe, a te giungo. Io son Diòniso, / generato da Giove, e da Semèle / figlia di Cadmo, a cui disciolse il grembo / del folgore la fiamma. Ora, mutate / le sembianze celesti in forma umana, / di Dirce all'acqua, ai flutti ismeni vengo. / Dell'arsa madre a questa reggia presso / veggo la tomba: le rovine veggo / della sua casa, ove il celeste fuoco / fumiga, vivo ancor, della vendetta / d'Era contro mia madre eterno segno.» – testo nella traduzione di Ettore Romagnoli (Roma, 1871–1938). Infatti, le sorelle di Semèle e il nipote Pènteo, che è il re di Tebe, invidiosi di lei, avevano sparso la diceria che Diòniso non fosse un dio, essendo nato dalla relazione di Semèle con un mortale: «[…] perché le suore di mia madre, quelle / che meno lo dovean, disser che mai / figlio non fu Diòniso di Giove, / e che Semèle, da un mortale incinta, / a Giove attribuita avea la colpa, / per consiglio di Cadmo: onde l'Iddio / per le nozze mentite a lei die' morte.».

Per vendicarsi, Diòniso ha travolto le menti e ha rese folli tutte le donne tebane (comprese le figlie di Cadmo e sorelle di Semèle), riparate sul monte Citerone – lo stesso dove Atteone, trasformato in cervo fu sbranato dalle sue cagne – per celebrare i riti in onore di Diòniso e divenute delle Baccanti (Bacco è un altro nome di Diòniso): «Però fuor dalle case io le cacciai / in preda alla follia. Prive di senno / han per dimora il monte; e le costrinsi / ad indossar dell'orge mie le spoglie. / E quante donne ha la città di Cadmo, / fuor dalle case, a delirare, io spinsi; / e donne insieme e giovinette corrono / a ciel sereno sotto i verdi abeti. / Voglia o non voglia, deve Tebe intendere / che priva è ancor dei riti miei, che deve / me per mia madre celebrar, ch'io sono / figlio di Giove, e Nume apparvi agli uomini. / […] / Dunque, a lui mostrerò che Nume io sono, / ed a tutti i Tebani. […] Venni perciò, mortal parvenza assunsi, / e mutai la mia forma in forma umana.».

Tirannico, irascibile e irragionevole, Pènteo (che ha ricevuto il potere da Cadmio) si rifiuta di riconoscere Diòniso come dio e lotta contro il suo potere, nonostante il nonno Cadmo e l'indovino cieco Tìresia cerchino di convincerlo del contrario; dice Cadmo parlando con Tìresia vestito da baccante: «Io sono pronto, e meco / ho gli arredi del Dio. Tu sai ch'è figlio / della mia figlia: è giusto ch'io lo esalti / per quanto è in me. Dove convien danzare, / muovere il pie', scuotere il crine bianco? / Guida me vecchio, tu, vecchio Tìresia: / ché tu sei savio: ed io mai sarò stanco / di picchiar notte e giorno a terra il tirso: / ché d'esser vecchio io volentier dimentico. / […] / Io vecchio un vecchio guiderò qual pargolo?».

Infuriato, Pènteo si lamenta che le donne, «simulando un estro bacchico», avevano abbandonato le loro case, correndo tra i boschi, onorando con i balli Diòniso e giocando a rimpiattino con gli uomini; egli le aveva incarcerate e quelle disperse per i monti le avrebbe «strette in ferree reti», ponendo fine al loro «pernicioso impeto d'orge». Ha saputo che è giunto un forestiere: «un fattucchiere ciurmator di Lidia, / di bionde chiome ricciole fragranti, / vermiglio in viso, e voluttà spirante / da le pupille, che dí e notte celebra / fra donne giovanette i riti bacchici.». Inutilmente Tìresia gli dice: «Questo novello iddio che tu schernisci, / non ti so dire quanta sia per l'Ellade / la sua grandezza. […] / che all'uom donò l'umor dolce dei grappoli, / l'umido succo che solleva i miseri / d'ogni cordoglio, allor che si riempiono / dell'umor della vite, e dà nel sonno / l'oblio dei mali cotidiani; e farmaco / altro non v'è delle fatiche. / […] / Ed è profeta questo Dio: ché molto / profetico estro è nel furore bacchico. / E quando in abbondanza alcun l'ingurgiti, / fa' sí che gli ebbri dicano il futuro. […] / Pènteo, m'odi. / Non illuderti ch'essere sovrano / per i mortali sia vera potenza; / né reputarti, sol perché lo credi, / saggio, quando non saggia è la tua mente. / Il Nume accogli in questa terra, e liba, / celebra l'orge, al crin ghirlanda cingi.». E anche Cadmo così cerca di convincere Pènteo: «Se pur, come tu dici, / Nume non è, lascia che qui lo chiamino / Nume: e parrà, per questa pia menzogna, / ch'abbia Semèle generato un Dio, / e onore avrem la nostra casa e noi.».

Pènteo non vuol sentire ragioni e manda le sue guardie a cercare il forestiero per arrestarlo e imprigionarlo all'interno della sua reggia: «E voi correte a Tebe, e rintracciate / il forestiere di donnesco aspetto, / che alle femmine adduce il nuovo morbo, / e contamina i letti. E se potrete / coglierlo, in ceppi avvinto qui portatelo, / sì che sotto le pietre espii le colpe, / e l'orge in Tebe gli sappian d'amaro!». Le guardie gli portano Diòniso con le mani legate: «Pènteo, siam qui. La preda ti rechiamo / sulla cui traccia ne inviasti: vana / non fu l'opera nostra. E questa fiera / fu con noi mite, e a fuga il pie' non volse; / ma le man' porse di buon grado, senza / sbiancare in viso; ma così, vermiglio / e ridente, stie' fermo, e c'invitò / a legarlo e condurlo; […]».

Pènteo minaccia di tenerlo custodito in ceppi ma Diòniso gli risponde che il Nume, che gli sta vicino e che vede come soffre, lo avrebbe sciolto quando egli glielo avrebbe chiesto. Furioso per le sue parole, Pènteo lo fa rinchiudere presso le stalle, nelle segrete dalle tenebre più profonde, mentre Diòniso gli profetizza: «Ma il Dio che tu neghi, Diòniso, / trarrà vendetta dell'ingiurie tue: / ché, me legando, in ceppi il Nume stringi.». Infatti, Diòniso scatena un terremoto, liberandosi facilmente; si sente una scossa tremenda e un rombo, e tutto il Coro si lamenta: «Come la terra scuotono i Numi! / Ahimè, ahimè! / Cadrà di Pènteo / la reggia al suolo presto in frantumi. / Sopra la casa piombò Diòniso!», mentre la reggia comincia a crollare e dalla tomba di Semèle si levano altissime fiamme. E le Baccanti si prostrano dinanzi a Diòniso, che esce trionfante dalla reggia e che volge lo sguardo su loro.

Dal monte Citerone, intanto, un bifolco porta notizie spaventose; le baccanti in pieno furore dionisiaco allattavano i selvaggi cuccioli di lupo, dalla roccia avevano fatto sgorgare polle di acqua fredda e vino, dal suolo avevano grattato latte puro e dagli arbusti avevano fatto scorrere rivoli di miele. I bifolchi e i pastori si erano adunati e si erano salvati dall'esser sbranati, soltanto fuggendo e nascondendosi. Le Baccanti avevano poi squartato viva una mandria di mucche: «Esse piombarono / sopra le greggi che pasceano l'erba, / senz'arme in pugno: e lì, questa vedevi / in due squarciare una mammosa vacca / muggente; l'altra lacerare a brani / a brani le giovenche: e fianchi e bifidi / zoccoli su e giù lanciar vedevansi, / e sanguinanti penzolar dai rami. / E i tori violenti, avvezzi al rabido / cozzo dei corni, al suol giacean fiaccati, / tratti giù dalle mani innumerevoli / delle fanciulle; e in men che tu le palpebre, / o re, non serri, fatti erano in pezzi.». E le donne impazzite avevano messo tutto a sacco, rapendo bambini e mettendo in fuga la popolazione atterrita: «Dalle case rapiano i pargoletti; / e quanto si ponean sopra le spalle, / o bronzo o ferro, senza alcun legame / vi adería, né cadea sul negro suolo./ E portavano fuoco sopra i riccioli, / né le bruciava. […]». E il bifolco spaventato invita Pènteo a ritornare sui suoi passi: «Questo Dèmone dunque accogli, o re, / qual ch'egli sia, nella città: ché sommo / è in tutto; ed ai mortali, a quel che dicono, / donò la vite che sopisce il duolo. / E dove non è vino non è amore;/ né alcun altro diletto hanno i mortali.».

Convinto da Diòniso, dopo molte perplessità, invece di concentrare le sue forze militari contro le Baccanti, Pènteo decide di travestirsi da donna (ricoprendo di pepli di bisso le sue membra, sciogliendo la chioma sugli omeri e mettendo delle bende sul capo), per poter spiare le Baccanti senza essere scoperto. Dalla reggia escono Diòniso che parla e Pènteo che lo segue: «Tu che brami veder quanto vedere / non conviene, e t'affretti a ciò che meglio / saria fuggire, esci, o Pènteo, nei panni / di Mènade baccante a noi ti mostra. / […] / D'una figlia di Cadmo hai la figura!». Pènteo gli assicura che sarebbe stato nascosto fra gli abeti. Aizzate dal dio, però, le Baccanti lo ritrovano e – scambiandolo per un leone – lo fanno a pezzi, guidate da Agave, la madre di Pènteo, divenuta anch'essa una Baccante: «E lui scoprir le Mènadi, più ch'egli / non le scoprì. Ché mentre ancor nascosto / era fra i rami, lo straniero sparve, / e una voce per l'ètere – la voce / di Diòniso, penso – risuonò: / “L'uomo io vi reco, o femmine, che voi, / che me, che l'orge mie mise in ludibrio: / traetene vendetta!” / […] / Con mille e mille mani / quelle abbrancar l'abete, e lo divelsero; / e dall'eccelso suo rifugio, a terra, / con mille e mille strida, Pènteo giù / cadde, che si sentia giunto al suo fine. / Prima su lui piombò, ministra prima / fu del rito di sangue Agave a lui. / Ed ei, perché la madre lo ravvisi, / via dalle chiome le bende scagliò, / e le sfiorò la gota, e disse: “O madre, / io son Pènteo, sono tuo figlio! Nacqui / di te, nei tetti d'Echióne! Ora, abbi / pietà di me; e per gli errori suoi, / non voler, madre, uccidere tuo figlio!”. / Quella, sputando bava, e roteando, / torcendo le pupille, e dissennata, / era invasa dal Nume, e non l'udiva; / ma con la manca un braccio gli afferrò, / e, il pie' puntando sopra il fianco al misero, / l'omero gli strappò: non di sua forza, / ma nelle mani un Dio vigor le infuse. / […] / Ed una un braccio, un pie' l'altra portava: / nude l'ossa apparian dai fianchi rotti; / e con le mani sanguinose tutte / si palleggiavan di Pènteo le carni.».

è un messaggero ritornato a Tebe a narrare questi fatti a Cadmo, che poco dopo vede arrivare la figlia Agave, delirante, che grida in modo dissennato (seguita da uno stuolo di donne
in costume di Baccanti, anch'esse dissennate e deliranti) e che porta un bastone su cui è infilzata la testa di Pènteo (che crede quella del leone). Ella cerca il vecchio padre Cadmo e il figlio Pènteo per mostrar loro la testa della fiera smembrata con le sue stesse mani bianche. Cadmo, che aveva intanto cercato, ricomposto e riportato i poveri resti di Pènteo, riesce a far ritornare in sé la figlia Agave, che misura con orrore quel che ha fatto (ha ucciso il figlio e ne ha infilzato come un trofeo la testa): «O padre, vedi la sciagura mia! / Pènteo miseramente fra le rupi / sbranato giacque. Ed ora, con che lagrime / lo piangerò? Come potrò, me misera, / stringerlo al sen, toccarlo con le mani / che commiser lo scempio? A brani a brani / le membra che ho nutrite io bacerò!»; infine, gettando a terra i paramenti del dio, proclama di non voler vedere mai più il monte Citerone.

Diòniso riappare dinanzi a Cadmo, che sta piangendo la morte di Pènteo, spiegando di avere compiuto la sua vendetta per punire tutti coloro che non credevano alla sua natura divina. Decreta anche che Cadmo e Agave debbono separarsi per essere esiliati in terre lontane. Ad Agave dice: «Tu con le sorelle / Tebe lasciar dovrete, e il fio pagare / del duro scempio a lui che avete ucciso; / né vedrete più mai la patria vostra.». A Cadmo – che pure era stato l’unico della famiglia a riconoscere la sua natura divina – Diòniso dice: «se saggi / stati voi foste allor che non voleste, / vi sarei stato amico, e voi felici» e profetizza che dovrà soffrire finché, trasformato in drago, non troverà la pace con Armonia, datagli in sposa da Marte e trasformata in serpe. Ci si avvicina alla conclusione con il padre e la figlia che si dicono addio e che si abbracciano, piangendo l'uno per l'altra, e con Agave che saluta la terra amata: «Addio, mia casa! Addio / terra ove nacqui. Lungi dalla reggia / ove fui sposa, me spinge sventura.»; si lasciano, quindi, per affrontare il loro destino di esilio e separazione. La tragedia termina con le parole della prima Corifea: «Spesso tramuta quando oprano i Dèmoni, / e inaspettati eventi i Numi compiono. / E a ciò che s'attendea negarono esito, / e all'inatteso aprir tramite agevole. / Della favola triste è questo il termine.».

Le Baccanti fu la tragedia della maturità, scritta da Euripide mentre si trovava presso la corte di Archelao (re di Macedonia) pochi mesi prima della sua morte. Essa è considerata da taluni come la riscoperta finale della religione da parte di un drammaturgo che per tutta la sua vita aveva voluto essere assolutamente laico, ma alcuni studiosi, invece, vi hanno visto una forte e drammatica invettiva anti–religiosa. Infatti, di fronte la vendetta del dio Diòniso è troppo spietata ed egli è tanto privo di scrupoli e di pietà verso gli uomini che, criticamente, Agave si rivolge a Diòniso alla fine dell'opera dicendogli: «Vero è; ma troppo contro noi t'avventi! / […] / Rancor mortale ai Numi non si addice!».

Si è anche detto che questa tragedia sancisca la fine dell'eroe tragico, dignitoso nonostante tutto; infatti, il protagonista Pènteo sembra perdere invece ogni sua dignità: vestito da donna, è messo in una posizione quasi grottesca, non degna di un eroe classico, e anche il nucleo tragico della vicenda sembra spesso venire quasi ridicolizzato.

è anche interessante il fatto che Euripide si fosse ispirato a qualcosa di reale che – se anche non si praticava più nell'Atene nel V secolo a.C. – era ancora in vita in alcune località più primitive del mondo greco: alcune donne (dette Baccanti o anche Menàdi) si riunivano in gruppi detti tìasi, ad anni alterni, ritirandosi sui monti per celebrare i riti di Diòniso, abbandonandosi senza freni a danze e suoni col sacro flauto e con i frigi timpani, sbranando gli animali a mani nude e mangiandone le carni crude.

Un'altra cosa degna di nota è che, nel Fedro, Platone afferma essere la follia superiore alla sapienza (nel senso di saggezza: sophía), poiché la seconda è di origine umana mentre la prima è di origine divina; e la follia di cui parla Platone è proprio quella iniziatica che è riconducibile ai riti del dio Diòniso (gli altri tipi di follia sono quella profetica riconducibile ad Apollo, quella poetica riconducibile alle Muse e quella erotica riconducibile ad Afrodite). D'altra parte, oltre alla follia, le Baccanti sembrano portare avanti anche il desiderio e la soddisfazione di una società alternativa, vissuta a contatto con la natura e lontana dagli stili cittadini: «O padre, molto gloriarti puoi, / che generasti valorose figlie / come niun dei mortali: io dico tutte, / e più di tutte me, che, abbandonate / presso i telai le spole, a maggior gesta / venni, e cacciai con le mani le belve!». In esse, c'è anche la voglia di un recupero di autonomia esistenziale che meglio consentiva loro una matura consapevolezza di sé; così canta appunto il coro delle Baccanti: «Oh felice, chi, ai Superi / diletto, assiste ai lor sacri misterii, / e il suo viver santifica / inebriando l'anima nel tíaso, / pei monti, in estro bacchico, / e della Madre Rea celebra l'orge / solenni, ed alto in aria / il tirso squassa, e servo di Diòniso / si fa, cinto il crin d'ellera! […] Savio non è chi troppo è savio, e l'occhio / oltre agli umani limiti / volge. Breve è la vita. Or chi, seguendo l'ardue / cose, vorrà le facili / non sopportare? Offeso, a quanto sembrami, / chi così opra, ha il cèrebro / dalla follia, né bene si consiglia.».

Euripide – che insieme a Eschilo (525–456 a.C.) e Sofocle (496–406 a.C.) fu tra i grandi poeti tragici greci – seppe esprimere nelle sue tragedie atteggiamenti filosofici di profonda introspezione psicologica. Era nato a Salamina (stupenda isola nel golfo di Sarònico, sita di fronte ad Atene) il 20 settembre del 480 a.C., proprio il giorno della famosa battaglia che vide i greci vincitori sui persiani (e il suo nome trasse appunto ispirazione dal canale Euripe, nei pressi del luogo ove si svolse il combattimento). Il padre Mnesarco (forse un semplice bottegaio ma ricco di beni e terre) gli fece dare un'ottima istruzione mentre la madre era soltanto un'umile erbivendola. Su questa umiltà delle origini del grande autore tragico, insistette il quasi contemporaneo commediografo ateniese Aristofane (445–388 a.C), un ricco aristocratico dalla cultura raffinata, che odiava Euripide considerandolo un rozzo innovatore di costumi e che, a proposito di alcuni umili protagonisti rappresentati da Euripide, parlò con feroce sarcasmo di «straccioni euripidei».

Da giovane, l'autore greco fu nutrito del culto di Apollo e divenne amico del grande filosofo ateniese Socrate (469–399 a.C.); in seguito crebbe nell'area della filosofia sofistica di Protagora di Abdera (V sec. a.C.), che riteneva l’uomo la misura di tutte le cose e che ne influenzò gli interessi, i  gusti e la cultura. Euripide si dedicò con successo anche alla pittura. Fu un uomo solitario e individualista (la leggenda narra che scrivesse i suoi drammi in una grotta sul mare), probabilmente ateo, e non si occupò mai di politica pur essendo molto aperto alla cultura anti-tradizionale e alle inquietudini del suo tempo. Ebbe il merito di ridurre nella drammaturgia greca la prevalenza del Coro (usato essenzialmente per rallentare l’azione drammatica) e la presenza irrinunciabile degli Dei, ricorrendo spesso al deus ex machina (una soluzione drammatica usata soltanto più tardi) e cercando di mettere al centro delle sue rappresentazioni teatrali l'uomo con la sua essenza umana e psicologica. In un nuovo “realismo umanistico”, l'individuo diviene il vero protagonista con la sua calda umanità, le sue violente passioni e i suoi vivi sentimenti: non è un personaggio fermo e risoluto, ma più modernamente un soggetto problematico e conflittuale, che può godere del lieto fine soltanto eccezionalmente e che nel dolore conquista la sua maggiore dignità tragica.

Euripide usò un linguaggio d'uso quotidiano ma contemporaneamente lirico e sublime, ricco d'immagini fantasiose e di musicalità; le trame e i temi erano squisitamente riferibili alla psiche umana e si rivolgevano al destino e al fato (padroni della sorte dell'uomo), oltre che alle ragioni e ai modi del vivere umano. I suoi personaggi diventano spesso personificazioni universali di sentimenti umani.

Euripide scrisse 92 composizioni drammatiche, delle quali ci restano 17 tragedie e il dramma satirico Il Ciclope. Nelle prime composizioni ha privilegiato le tematiche amorose, rappresentando delle tragedie condizionate dalle passioni umane e dalle forze elementari dell'amore; in seguito, si è ispirato a tematiche politico–patriottiche e al problema del caso che in modo cieco e oscuro confonde i destini degli uomini.

L’ordine cronologico delle sue tragedie è incerto. Le prime furono probabilmente Alcesti (438 a.C.) e Medea (431); seguirono Ippolito (428), Ecuba (420), Troiane (415) ed Elettra (413); tra le ultime vi furono Elena (412) e Oreste (408). Grazie a Euripide il giovane (il figlio o meglio il nipote di Euripide), furono rappresentate postume Ifigenia in Aulide e Baccanti (forse il suo capolavoro, ricco di un fascino ambiguo e misterioso). Al suo tempo, in Grecia, si tenevano delle gare di teatro definite «agoni tragici»: egli fu vincitore di quattro o cinque di questi agoni (il primo lo vinse nel 441 a.C.) ma in realtà in vita ebbe scarsa popolarità. Morì nel 406 a.C. (forse sbranato da una muta di cani famelici) in Macedonia ove viveva alla corte di Archelao, dopo avere abbandonato Atene. Dopo la sua morte, Euripide raggiunse una fama immensa, ispirando con i suoi testi sperimentali la “Commedia Nova” greca e la drammaturgia latina: gli ateniesi gli dedicarono una statua di bronzo nel teatro di Dioniso (330 a.C.). Fu amato dal raffinato poeta francese Jean Racine (1639–1699) e dal grande scrittore tedesco Johann Wolfgang Goethe (1749–1832), che con moderna spiritualità rivisitarono alcune grandi protagoniste di Euripide, come Andromaca o Ifigenia.

Lo scrittore calabrese Corrado Alvaro (18951956), che tra il 1950 e il 1951 scrisse un’Alcesti dando una moderna rilettura del mito di Euripide, era interessato alla rielaborazione della mitologia classica e scriveva: «Abbiamo sempre bisogno di ricorrere ai miti del passato per stabilire i termini del presente… L’antichità aggiunge nobiltà al dramma borghese, la lontananza creata dal mito gli dà risonanza poetica. Il secondo dopoguerra, come il primo, ha cercato di leggere chiaro nel destino contemporaneo rispecchiandolo negli eroi del passato».

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