mercoledì 13 giugno 2012

Eschilo e Prometeo incatenato, il mito e la tragedia


Eschilo                                                 Prometeo incatenato (Massimo Popolizio)


è in corso per il 2012 il xlviii ciclo di rappresentazioni classiche a Siracusa presso quel meraviglioso palcoscenico all'aria aperta che è il Teatro Greco, con inizio l'11 maggio e conclusione il 30 giugno. Si rappresentano oltre alle Baccanti di Euripide e agli Uccelli di Aristofane, il Prometeo Incatenato di Eschilo per la regia di Claudio Longhi, nella traduzione di Guido Paduano, con le affascinanti coreografie della Martha Graham Dance Company.

Il Prometeo incatenato (in greco antico Προμηθεύς δεσμώτης) è una tragedia di Eschilo datata nel 470 a.C. circa e facente parte di una probabile trilogia dedicata a Prometeo, che includeva anche il “Prometeo liberato” e il “Prometeo portatore del fuoco” (tragedie delle quali ci sono rimasti soltanto alcuni frammenti). La Prima assoluta risalirebbe al 460 a.C. presso il Teatro di Dionìso ad Atene.

I personaggi sono: Prometeo (un immenso Massimo Popolizio), Efesto (Gaetano Bruno), Oceano (Mauro Avogadro), Ermes (Jacopo Venturiero), il Potere (Massimo Nicolini), la Violenza (Michele Dell’Utri, che è anche assistente alla regia), Io (Gaia Aprea), la Corifea (Daniela Giovanetti) e il Coro delle ninfe Oceanine

Ambientata in un luogo indeterminato fra gli aspri monti inaccessibili e le lande desolate della Scizia (vietati agli uomini), la tragedia narra una vicenda che seguì la rivolta di Giove (Zeus) contro il padre Crono e la successiva guerra sanguinosa che portò Giove alla conquista del potere dopo l'annientamento dei suoi antagonisti. Quando Promèteo («questo misero Nume vedete, / il nemico di Giove, che in odio / venne a quanti Celesti s'addensano / nella reggia di Zeus, perché gli uomini / troppo amavo»), ribellandosi al volere di Giove, donò il fuoco e altri doni agli umani, scatenò la collera spaventosa di Giove e fu incatenato a una rupe nella regione della Scizia (ai confini della Terra) da Efèsto, Potere e Forza che erano riusciti a catturarlo.

Nel Prologo, si avanzano appunto Potere e Forza, tenendo stretto Promèteo, seguiti da Efèsto, e tutti si fermano dinanzi a una rupe alta e scoscesa. Parla per primo Potere: «Agli estremi confini eccoci giunti / già della terra, in un deserto impervio / tramite de la Scizia. Ed ora, Efèsto, / compier tu devi gli ordini che il padre / a te commise: a queste rupi eccelse / entro catene adamantine stringere / quest'empio, in ceppi che non mai si frangano: / ch'esso il tuo fiore, il folgorio del fuoco / padre d'ogni arte, t'involò, lo diede / ai mortali. Ai Celesti ora la pena / paghi di questa frodolenza, e apprenda / a rispettar la signoria di Giove, / a desister dal troppo amor degli uomini.». Efèsto a lui replica: «Forza, Potere, gli ordini di Giove / già compiuti per voi furono; e nulla / più vi trattiene. Ma legare a forza / su questo abisso procelloso un Nume / ch'è del mio sangue, non mi regge il cuore. / E forza è pure che mi regga. Gli ordini / trasandare del padre, è dura prova.». Nonostante tutto, Efèsto sa che dovrà stringere Promèteo in «bronzei ceppi, che niuno a scioglier valga… dove né voce udrai, né forma d'uomo vedrai», esposto alla calura del sole e alla tenebra della notte, senza il soccorso di nessuno, per quell'indebito favore fatto agli umani; egli aggiunge: «Ora, in compenso, / vegliar dovrai questa dogliosa rupe, / senza mai sonno, in pie', senza mai flettere / le tue ginocchia, e cento ululi e gemiti / invano leverai: ché il cuor di Giove / nessuna prece lo commuove; ed aspro / è ciascun che di fresco ebbe il potere.». Potere invita Efèsto a non indugiare e a inchiodare Promèteo alla rupe per non irritare Giove. Efèsto salda le braccia, i fianchi e le gambe di Promèteo, in modo che nessuno possa sciogliere le catene, piangendo e gemendo per i mali del Titano. Finita l'operazione, Efèsto, Potere e Forza si allontanano mentre Promèteo manifesta tutta la sua afflizione: «O divo ètere, o snelle ali dei venti, / fonti dei fiumi, e dei marini flutti / infinito sorriso, e te, che madre / sei d'ogni cosa, o Terra, invoco, e te, / che tutto miri, orbe del Sol! Vedete / ciò ch'io, Celeste, dai Celesti soffro! / Or vedete da quali travagli / laniato, per mille e mille anni / patirò. / […] / Ahimè, ahi!, dell'affanno presente, / del venturo io mi lagno. Deh!, quando / sarà l'ora che il termine segni / di questi tormenti?». Si lamenta di subire quel destino, avvinto nei lacci, per avere predato e donato la fonte del fuoco che «maestra fu d'ogni arte, ed util sommo».

La tragedia si svolge in modo apparentemente statico nell'incontro tra il titano e i diversi personaggi divini o le varie creature del cosmo, fantastiche e mostruose, che tentano di portargli conforto e consiglio, ma senza alcun confronto diretto tra Giove e Prometeo. S'inizia con il Canto d'ingresso del Coro delle ninfe Ocèanine (progenie di Teti feconda e figliuole del padre Oceàno), dodici bellissime fanciulle che si avvicinano su di un cocchio alato e che tranquillizzano Promèteo con il loro canto, dicendogli: «Non temer: questa schiera è a te benevola.», e aggiungendo con le lacrime agli occhi di temere per la sua sorte: «Ma novello signor l'Olimpo regge; / ma con novella legge / or Giove a suo talento / lo scettro impugna, e tutto / che prima ebbe potere or vuol distrutto.». E Promèteo risponde, rimpiangendo di non essere morto e di non giacere nel Tartaro: «Ora invece, ludibrio dell'aria, / debbo, ahi tristo!, coi miei patimenti / dar gioia ai nemici.». Furente, accenna a un segreto in suo possesso che Giove vorrebbe svelato ma che egli non riferirà mai non lasciandosi sgomentare né dalle lusinghe, né dagli scongiuri né dalle minacce, a meno che Giove non lo liberi dai «lacci selvaggi», non paghi «la pena di questa ignominia» e non gli chieda un giorno «amicizia e concordia».

Nel Primo episodio, Promèteo racconta al Coro com'era scoppiato l'odio tra i Numi e come la contesa li aveva divisi in due: coloro che volevano abbattere Crono «perché regnasse appunto Giove» e coloro che si adoperavano «perché mai Giove non avesse il regno». Egli si era schierato dalla parte di Giove ma il Nume non gli aveva mostrato gratitudine: «è mal della tirannide / questo di non prestar fede agli amici». Vinto il potere, Giove: «E dei mortali / non fe' parola alcuna: anzi distruggere / tutta quanta volea la stirpe loro, / ed una nuova seminarne. E niuno, / se togli me, si oppose al suo disegno. / Io n'ebbi ardire. E gli uomini salvai / dal piombare nell'Ade, allo sterminio.». Promèteo aveva salvato gli uomini, dando ai loro cuori cieche speranze e donando il fuoco e le molte arti ottenute dal fuoco, e Giove lo aveva punito con quella pena senza termine: «Perché pietà degli uomini sentii, / indegno io stesso parvi di pietà». E al Coro che tenta di dargli consigli per sciogliersi dal suo male, Promèteo risponde: «A chi tien fuori dai cordogli il piede, / dare consigli a chi patisce è facile. / […] / Ma non piangete il mio presente male: / scendete al suolo, e le sciagure udite / che incombono su me, sì che sappiate / compiutamente il tutto.». Il cocchio delle Ocèanine sparisce e su un cavallo marino alato giunge Ocèano che si dice sinceramente addolorato per «la stirpe comune» e che gli consiglia di ritornare in sé adottando «nuovi costumi», placando la sua furia e tentando di cercare un «qualche riscatto» alle sue pene. Così parla Ocèano: «A te forse parranno / triti vecchiumi le parole mie; / ma della lingua tua troppo superba / è questa, Prometèo, la triste mancia. / Ma tu non sai farti umile, non sai / cedere ai mali; ed altri procacciartene, / oltre ai presenti, vuoi.». Infastidito, Promèteo gli risponde di non curarsi delle sue pene, perché non c'è modo di convincerlo, e di ritornarsene là da dove è venuto. E alle insistenze di Ocèano, che vuole aiutarlo a farsi perdonare da Giove, Promèteo risponde: «Ma pur, non affannarti: affanno vano / il tuo sarebbe, e senza utile mio.», ricordando la sorte amara del fratello Atlante costretto a reggere sulle spalle nelle contrade dell'Espero la colonna del cielo e della terra, e dicendosi pronto a sopportare la sua sciagura sino allo sbollir dell'ira di Giove. Ocèano si giustifica dicendogli: «O Prometèo, non sai che le parole / son medicina all'animo che soffre. / […] / È gran vantaggio / sembrar privi di senno, ed esser saggi.». Ocèano se ne va.

Ed è la volta del Primo canto intorno all'ara, con le Ocèanine che intorno all'altare di Diòniso danzano e cantano, gemendo e piangendo per Promèteo, «pel tuo destino acerbo». Lo confortano, dicendogli: «Tutta la terra un ululo / alza per te di duolo. / […] / E quante il sacro suolo / abitano de l'Asia umane genti, / delle torture tue senton, Promèteo, / pietà, dei tuoi lamenti.». Compiute le loro danze, le Ocèanine si volgono verso Promèteo.

Inizia il Secondo episodio, nel quale Promèteo dice loro: «Non per disdegno o per superbia io taccio, / non lo crediate; ma l'obbrobrio inflittomi / veggo, e di conscia doglia il cuor mi struggo. / Pure, i lor pregi a questi nuovi Numi, / chi compartiva, se non io? Niun altri!». Egli era stato mosso a pietà dagli uomini che, avendo perso la saggezza e la ragione, vivevano come formiche sottoterra e senza sole: «Ché prima, essi, vedendo / non vedevano, udendo non udivano; / e simili alle vane ombre dei sogni, / quanto era lunga la lor vita, a caso / confondevano tutto.». E aveva regalato ai mortali i suoi presagi e le sue giuste premonizioni: «E prima / nei sogni sceverai quello che debba / nella veglia avverarsi, e chiari feci / i prognostici oscuri ed i presagi / che s'incontran per via.». E aveva dato il fuoco e «quante utili cose in grembo al suolo / giacean nascoste all'uomo, il rame, il ferro, / l'argento, l'oro, […]», oltre a tutte le altri arti. Spera comunque di sfuggire al suo destino: «Fato non è che tutto ciò si compia. / Ben io da mille triboli, da mille / pene prostrato, ai lacci sfuggirò. / […] / E col segreto / io sfuggirò le pene e i lacci turpi.». [Il mito racconta che Prometeo aveva rimediato alla dimenticanza di fornire le buone qualità agli umani, rubando dalla casa di Atena uno scrigno in cui erano riposte l'intelligenza e la memoria, e donandole alla specie umana. Ma Giove, per nulla bendisposto verso il genere umano, non aveva approvato i doni di Prometeo, ritenendoli troppo pericolosi perché avrebbero reso gli uomini più potenti e più capaci.]

E il Coro amareggiato, nel Secondo canto attorno all'ara, si rivolgono a Prometèo: «Dolce cullare l'animo di letizie serene: / dolce nutrir, sin che la vita dura, / ardue speranze. Ma se te, Promèteo, / d'infinita sciagura / io veggo oppresso, un brivido / corre per le mie vene. / Ma tu, fiero, non trepidi / del Signor dei Celesti, / ed ai mortali troppo onore presti.». E poi aggiunge: «Dove or trovi negli uomini / alcun sostegno, alcun soccorso? Vedi / la fiacca inettitudine, / simile ai sogni vani, / che, in ceppi, degli umani / stringe le cieche torme?».

E siamo al Terzo episodio che vede l'arrivo di una fanciulla dal viso bellissimo ma deturpato da due corna di giovenca, che si lancia tra le rupi con folli balzi e che si ferma davanti a Promèteo: è Io, amata da Zeus, trasformata in vacca per la gelosia di Era e costretta a vagare come folle in un viaggio eterno e senza soste. Gemendo e come in delirio, Io chiede a Prometèo: «Dove son? fra che genti? Costui / che legato ai dirupi vegg'io, / esposto ai rigori del cielo, / chi sarà? Questa pena ferale / per quale misfatto patisce?». E rivolgendosi a Giove, al figlio di Crono, così lo implora: «Col fuoco bruciami, fa ch'io di terra / sia ricoperta, del mare ai mostri / dammi in pastura, sordo non essere, / questi miei voti, signore, adempi. / […] / Oh!, morire una volta /  meglio mi val che tutti i dì soffrire.». Chiede poi a Prometèo: «Fra i miseri / chi v'è che soffra quello ch'io soffro? / Deh!, chiaro insegnami, tu, adesso, mostrami / che cosa debbo patire ancora.». Prometèo le racconta tutti i suoi guai e lei gli racconta dell'amore di Giove e delle sue lusinghe attraverso delle visioni notturne, della sua metamorfosi e del suo pazzo vagare di terra in terra. Io gli chiede poi le sue premonizioni e Prometèo prevede per lei, dopo molte vicissitudini («Di guai funesti un tempestoso pelago.»), la conquista della libertà e la fortuna della sua discendenza non appena giunta alla foce del Nilo: «Di quella terra all'ultimo confine, / alla foce del Nilo, ov'esso addensa / le sabbie, sorge la città di Cànobo. / Quivi col tocco e la carezza sola / della sua man, Giove ti rende il senno. / Ed a luce il negro Èpafo darai, / che nome avrà dal gioviale tocco. / E signore sarà di quanta terra / l'ampie fluenti irrigano del Nilo.». Le dice anche che il frutto della relazione fra Giove e Teti, un suo discendente, stirpe della sua stirpe, sarà «un figlio più forte del padre» in grado di annientare Giove, il padre degli dei: «Tale oracolo a me l'antica madre / die', la titania Temi.». Risponde Io: «Che dici? Un figlio mio ti farà libero?» e, colta da un nuovo accesso di delirio, se ne fugge a grandi balzi.

Nel Terzo canto attorno all'ara, il Coro così si esprime, pensando all'infelice destino d'Io: «Solo nozze tra simili / scevre son di terrore, / né le temo io. Ma l'occhio irresistibile / dei più possenti Numi / non si fissi su me pieno d'ardore. / Guerra non sostenibile / questa sarebbe, e origine / di mali senza uscita. / Qual sarebbe mia vita / ignoro: ignoro dove / alla brama sfuggir potrei di Giove.».

Nell'Ultimo episodio, parlando con la Corifea, Prometèo continua a insistere che il segreto che lui conosce porterà Giove a una rovina senza onore e che, soltanto grazie a lui, il Nume dei Numi potrebbe scamparla. Egli è convinto che ciò che brama avrà esito certo ed è disposto a tutto: «E tu leva preghiere, adora, adula. / Men che di nulla a me di Giove importa. / Faccia, comandi in questo scorcio breve / a suo talento. Poco tempo ancora / su gli Dei regnerà.».
Intimorito, Giove manda il dio Ermète, quale suo araldo e ministro dei Numi, per estorcere quel segreto a Prometeo. Così parla Ermète: «A te, gran saggio, a te che acerbo sei / più che ogni acerbo, che in oltraggio ai Numi / i loro onori compartisti agli uomini, / a te favello, involator del fuoco. / Ordina il padre che tu dica quali / nozze son queste ond'ei cadrà dal soglio.». L'indomito Titano resiste alle intimidazioni: «Ben presto quei che terzo ora comanda, / piombar vedrò, ben turpemente. / […] / E tu / riaffretta la strada onde sei giunto: / ché non saprai di quanto chiedi, nulla. / […] / Tramutar non vorrei le mie sciagure / con la tua servitù, sappilo bene. / […] / Oltraggiare così convien chi oltraggia. / […] / A dirla in breve, tutti i Numi aborro. / Da me beneficati, or mi maltrattano. / […] / Non v'ha tormento, / artificio non v'ha, con cui m'induca / Giove a parlar, se non allenti prima / questi ceppi d'obbrobrio. / […] / Tutto ho già visto, ponderato ho tutto.». Ed Ermète passa alle minacce: «E pure, inferma / è la saggezza onde t'esalti: audacia / per chi non ha saggezza, è men che nulla / di per se stessa. Or vedi, se convincerti / rifiuti ai detti miei, quale procella, / qual maroso di mali ineluttabili / piomberà sopra te. / […] / Ché mentire non sa di Giove il labbro, / ma ciò ch'ei dice, ei compie. Or tu considera, / pensa bene; e una volta almen convinciti / che più val dell'audacia il buon consiglio.». Dopo altre ulteriori intimidazioni di Ermète ( gli minaccia l'invio di un'aquila, che gli avrebbe squarciato il petto e dilaniato il fegato) e altri arroganti insulti di Prometèo, il ministro dei Numi chiede alle fanciulle del Coro di fuggire da quei luoghi: «ché il mugghio / spaventoso del tuono, non debba / per l'orrore distruggervi il cuore!», ma le fanciulle non vogliono tradir l'amico, abbandonandolo. E la punizione arriva implacabile. Prometèo viene scagliato insieme alla rupe alla quale è incatenato in un abisso infinito e senza fondo, mentre così urla: «Ecco i fatti, e non più le parole. / La terra sussulta, / mugghia l'eco del tuono profonda, / tutte fiamma le spire lampeggiano / delle folgori, a vortici va / roteando la polvere, danzano, / l'un con l'altro azzuffandosi i soffi, / tutti i venti: confusi con l'ètere / si sconvolgono i flutti del mare. / Tanta furia scoscende da Giove / contro me, perché tremi il mio cuore. / Di mia madre o tu fregio, o tu ètere, / tu che a tutti comparti la luce, / l'ingiustizia ch'io soffro mirate! (In mezzo a fulmini e orribili tuoni la montagna scoscende e seppellisce Promèteo)» (traduzione di Ettore Romagnoli, http://www.filosofico.net/promincateneschilo42.htm).

Eschilo (in greco antico (Αἰσχύλος) nacque da nobile famiglia il 525 a.C a Eleusi, un demo – piccola comunità abitata – di Atene. è il più antico dei drammaturghi greci, dei quali ci sono pervenute delle opere complete, e colui che aprì la strada alla grande tragedia greca di Sofocle ed Euripide. Visse un periodo politico intensissimo, combattendo contri i persiani a Maratona e a Salamina: queste ultime vicende costituirono il background per la composizione de I Persiani (472 a.C.) e dei Sette contro Tebe (467 a.C.) e per la sua visione del ruolo fondamentale di Atene nella storia del tempo. Fu testimone anche della fine della tirannia ateniese dei Pisistratidi e del primo evolversi della democrazia in Atene: Le supplici (463 a.C.) e le Eumenidi (458 a.C.) che insieme con Agamennone e Coefore faceva parte dell'“Orestea” (unica trilogia del teatro greco pervenutaci) e che contiene chiari riferimenti a quel rivoluzionario potere del popolo e ad Atene democratica quale estremo baluardo della Grecia libera contro lo strapotere dei persiani. Si recò a Siracusa, chiamato da Ierone, tiranno illuminato, ove venne in contatto con i circoli pitagorici e ove scrisse le Etnee, celebrando la fondazione della città di Aitna. Dopo aver subito un processo per empietà per avere violato in modo inconsapevole i segreti dei Misteri eleusini di cui era un adepto, fu costretto all'esilio a Gela (ritornando per la seconda volta in Sicilia), ove rappresentò l'Orestea (458 a.C.) e ove nel 456 a.C. morì. Valerio Massimo ha riportato la leggenda che racconta che Eschilo sarebbe morto per colpa di un'aquila, che gli avrebbe lasciato cadere una tartaruga sulla testa mentre sedeva su di un sasso fuori dalle mura della città.

Non soltanto autore poetico, Eschilo fu anche regista e innovatore: a lui si deve l'introduzione delle maschere e fu lui l'ideatore della “trilogia legata” (tre tragedie legate insieme in ordine cronologico dai contenuti). Trasformò il soliloquio del monologo di un solo attore nella drammatizzazione del dialogo di due attori togliendo importanza al coro; arricchì, inoltre, il testo di contrasti drammatici e di effetti teatrali sorprendenti realizzando, malgrado l'impianto arcaico delle sue tragedie, una più sofisticata concezione della scena. A queste innovazioni Eschilo fu spinto anche perché attratto dall'emergente Sofocle, che introdusse il terzo attore, creò dialoghi più complessi, elaborò trame più interessanti e mise in scena personaggi più approfonditi dal punto di vista psicologico.

Artista rigoroso e molto religioso, Eschilo si distinse nell'antichità per lo stile potente, per le immagini ricche di lirica suggestione, per la sublimazione della realtà, e per la forte tensione etica: allontanandosi dall'idea arcaica delle oscure forze del destino che travolgono l'uomo impotente e dell'“invidia degli dei”, affrontò il problema della colpa consapevole che dall'individuo si propaga all'intera stirpe, della punizione divina volta a far giustizia e ripristinare l'ordine, e della conoscenza dell'uomo maturata attraverso il dolore esistenziale. Rese la tragedia più adatta alla rappresentazione grazie a una retorica solenne e alle affascinanti metafore. Molto prolifico, avrebbe scritto circa novanta tragedie – delle quali si conosce l'esistenza per i riferimenti fatti da altri autori o per mezzo di antichi documenti – ma ci sono giunte soltanto le sette opere già citate.

Per i suoi particolari rapporti con il genere umano, Prometeo è stato quasi paragonato al Redentore, qual è rappresentato nella tradizione cristiana (l'eroe si sacrifica e muore per l'umanità che ha beneficato). Come Cristo è un uomo e Dio, Prometeo è un Titano, sia uomo che Nume ma si comporta come un dio, non volendo mai apparire come un uomo (egli appartiene, infatti, alla Mitologia). Nella trilogia di Prometeo è possibile che si conciliassero vecchie forze del passato (Giove appare come un tiranno ingiusto e un dio supremo) e giovani forze umane (Prometeo appare come l'eroe nuovo che arriva sino alla blasfemia). Furono questi gli aspetti che tanto piacquero al Romanticismo europeo.

Ricordo la nota poesia di Goethe (1749–1832) dedicata a Prometeo, di cui riporto la parte iniziale: «Copri pure, Giove, il tuo cielo con vapore di nubi / ed esercitati, come un fanciullo che decapiti cardi, / su querce e cime! Ma tu devi lasciar stare la mia terra, / la mia capanna che tu non hai costruito, / il mio focolare di cui m'invidi il calore. / Non conosco nulla di più misero sotto il sole di voi, dei! / […]».

Ricordo ancora, del 1833, la Traduzione dal greco del Prometeo incatenato di Eschilo (Prometheus Bound. Translated from the Greek of Aeschylus), da parte della grande poetessa vittoriana Elizabeth Barrett Browning (18061861), ricca di un variegato vocabolario e piena di effetti poetici rispettosi dello spirito del poeta greco (nel 1850 Elizabeth ripropose alquanto modificata la traduzione del Prometeo incatenato, correggendone alcuni difetti di traduzione, modificandone alcuni passaggi ed eliminando una certa monotonia di base).

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