venerdì 27 luglio 2012

Il cantico dei cantici: la Bibbia come grande letteratura d’amore


La Bibbia                                                 La coppia del cantico dei cantici



La Bibbia è la raccolta delle Sacre Scritture dell’Ebraismo e del Cristianesimo ed è certamente il grande libro dell’umanità (dalle sue origini al suo destino soprannaturale). Pur non essendo un testo squisitamente letterario, è un racconto ricco di fascino, stracolmo di parole d’amore eterno e pregno di universalità, in quanto esprime i sentimenti e le intuizioni dell’uomo in tutta la sua profondità. È quasi una piccola biblioteca. I greci la chiamavano, infatti, “tà biblìa”, vale a dire “i libri”. La sua struttura è complessa perché comprende una pluralità di contenuti e di lingue, e include diverse letterature.

La Bibbia è suddivisa nell’Antico e nel Nuovo Testamento, ove testamento sta per patto o alleanza. Il “Canone” (cioè la Regola) costituisce l’elenco dei libri contenuti nella raccolta della Bibbia e comprende i 47 libri dell’Antico Testamento: a 39 di loro è riconosciuta autorità dagli Israeliti, componendo la Bibbia ebraica ed essendo costituita dai testi ebraici e aramaici (il vero e proprio monumento della letteratura ebraica antica); gli altri 8 sono i libri Deuterocanonici in lingua greca, inseriti più tardivamente e non riconosciuti da ebrei e protestanti. La Bibbia comprende anche i 27 libri del Nuovo Testamento, che raccolgono la vita e i pronunciamenti di Gesù e che non vanno al di là del 100 d.C., chiudendosi con il Vangelo di Giovanni. I libri al di fuori del Canone, pur avendo caratteristiche e temi simili a quelli della Bibbia, non sono stati mai riconosciuti come canonici. Ciascuno dei libri del Vecchio Testamento è suddiviso in capitoli, e ciascun capitolo in versetti. Il testo ebraico fu scritto inizialmente con caratteri fenici su pelli cucite insieme a formare una lunga striscia da arrotolare (diversi di questi antichi rotoli sono stati scoperti intorno agli anni Cinquanta nel deserto di Giudea, nei pressi del mar Morto). In seguito, si usò la lingua aramaica ma a noi sono pervenute le trascrizioni medievali unificate ed eseguite dagli scribi giudaici.

La Bibbia, il libro religioso degli Ebrei (con riferimento però al solo Antico Testamento) e dei Cristiani (cattolici, ortodossi e protestanti), è ispirato da Dio che interviene nella storia dell’Uomo con un intento di salvezza e per la necessità di dettare le norme della fede, parlando in situazioni diverse e attraverso uomini diversi. In quanto ispirata da Dio, essa è un testo “divino”, ma è anche un testo profondamente “umano” perché contiene parole che narrano storie di uomini e di donne. Al centro della Bibbia, troneggia Dio (Jahvé), che si presenta a Mosè dicendo: «Io sono colui che sono (Eheye asher eheye)», e che a tutto s’interessa e tutto dirige. L’Antico Testamento è l’alleanza di Dio con Abramo e Israele, mentre il Nuovo Testamento è la nuova alleanza di Dio con Israele e con tutto il mondo attraverso il suo figlio Gesù Cristo.

Molti libri biblici parlano d’Amore con parole di alto lirismo, come il Cantico dei Canti (Il Canto sublime), attribuito a re Salomone, ma forse di un poeta anonimo (scritto tra il VI e IV secolo a.C.), di natura più propriamente poetica che sacra. Vi s’inneggia all’amore umano e profano di due giovani sposi che, in un ambiente pastorale, si cercano e si amano appassionatamente con i corpi e con le anime. Quest’amore è, però, pur sempre sacro perché proviene da Dio e dalla creazione dell’uomo. Anche in questo caso esiste forse un intento simbolico: lo sposo è Dio mentre la sposa è Israele; ed esiste forse anche la metafora dell’amore dell’anima umana per Cristo. In tale allegoria, l’“agàpe” (l’elevato, incondizionato e compassionevole amore di Dio) si sovrappone all’“eros”, il più basso amore sensuale e sessuale della sua creatura che è soprattutto desiderio di esclusività. I brani lirici sono uno più bello dell’altro, sempre arditi e ricchi di stupende e surreali espressioni d’amore.

Il poema inizia così: «Cantico dei cantici, che è di Salomone. / Mi baci con i baci della sua bocca! / Sì, le tue tenerezze sono più dolci del vino.». E continua: «Il mio diletto è per me un sacchetto di mirra, / riposa sul mio petto. / Il mio diletto è per me un grappolo di cipro / nelle vigne di Engaddi. / Come sei bella, amica mia, come sei bella! / I tuoi occhi sono colombe. / Come sei bello, mio diletto, quanto grazioso! / Anche il nostro letto è verdeggiante. / Le travi della nostra casa sono i cedri, / nostro soffitto sono i cipressi.» (1. Amabilità dello sposo.). Nel secondo capitolo la sposa invoca: «Sostenetemi con focacce d’uva passa, / rinfrancatemi con pomi, / perché sono malata d’amore. / La sua sinistra è sotto il mio capo / e la sua destra mi abbraccia.». E così continua: «Somiglia il mio diletto a un capriolo o a un cerbiatto. / […] / Il mio diletto è per me e io per lui. / Egli pascola il gregge tra i gigli. / Prima che spiri la brezza del giorno / e si allunghino le ombre / ritorna, o mio diletto, / somigliante alla gazzella / o al cerbiatto, / sopra i monti degli aromi.» (2. Lo sposo cerca la sposa.)». In un successivo capitolo lo sposo esclama: «Come sei bella, amica mia, come sei bella! / Gli occhi tuoi come colombe, / dietro il tuo velo. / Le tue chiome come un gregge di capre, / […] / I tuoi denti come un gregge di pecore tosate, / […] / Come un nastro di porpora le tue labbra / e la tua bocca è soffusa di grazia; / come uno spicchio di melagrana la tua gota / attraverso il tuo velo. / Come la torre di Davide il tuo collo, / […] / I tuoi seni sono come due cerbiatti, / gemelli di una gazzella, / che pascolano tra i gigli. / […] / Tutta bella tu sei, amica mia, / in te nessuna macchia.» (4. Lodi alla bellezza della sposa.). E continua la celebrazione della sposa: «Quanto soavi le tue carezze, / sorella mia, sposa, / quanto più deliziose del vino le tue carezze. / L’odore dei tuoi profumi sorpassa tutti gli aromi. / Le tue labbra stillano miele vergine, o sposa, / c’è miele e latte sotto la tua lingua / e il profumo delle tue vesti è come il profumo del Libano. / Giardino chiuso tu sei, / sorella mia, sposa, / […]» (4. Invito alla sposa.).

A sua volta, la sposa amante celebra le innumerevoli virtù dello sposo: «Il mio diletto è bianco e vermiglio, / riconoscibile tra mille e mille. / Il suo capo è oro, oro puro, / i suoi riccioli grappoli di palma, / neri come il corvo. / I suoi occhi come colombe / su ruscelli di acqua; / i suoi denti bagnati nel latte, posti in un castone. / Le sue guance come aiuole di balsamo, / aiuole di erbe profumate; / le sue labbra sono gigli, / che stillano fluida mirra. / Le sue mani sono anelli d’oro, / incastonati di gemme di Tarsis. / Il suo petto è tutto d’avorio, tempestato di zaffiri. / Le sue gambe, colonne di alabastro / posate su basi d’oro puro. / Il suo aspetto è quello del Libano, / magnifico come i cedri. / Dolcezza è il suo palato; / egli è tutto delizie! / Questo è il mio diletto, questo è il mio amico, / o figlie di Gerusalemme» (5. Descrizione dello sposo.).

Lo sposo adorante osserva invece: «Le curve dei tuoi fianchi sono come monili, / opera di mani d’artista. / Il tuo ombelico è una coppa rotonda / che non manca mai di vino drogato. / Il tuo ventre è un mucchio di grano, / circondato da gigli. / I tuoi seni come due cerbiatti, / gemelli di gazzella. / Il tuo collo come una torre d’avorio; / i tuoi occhi sono come i laghetti di Chesbon / presso la porta di Bat-Rabbim; / il tuo naso come la torre del Libano / […] / Quanto sei bella e quanto sei graziosa, / o amore, figlia di delizie! / La tua statura somiglia a una palma / e i tuoi seni a grappoli. / Ho detto: “Salirò sulla palma, / coglierò i grappoli di datteri; / mi siano i tuoi seni come grappoli d’uva / e il profumo del tuo respiro come di pomi” / Il tuo palato è come vino squisito, / che scorre dritto verso il mio diletto / e fluisce sulle labbra e sui denti!» (7. Contemplazione della sposa.).

Denso di ardore amoroso è l’ultimo brano del Canto: «Mettimi come sigillo sul tuo cuore, / come sigillo sul tuo braccio; / perché forte come la morte è l’amore, / tenace come gli inferi è la gelosia; / le sue vampe son vampe di fuoco / una fiamma del Signore! / Le grandi acque non possono spegnere l’amore / né i fiumi travolgerlo. / Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa / in cambio dell’amore, non ne avrebbe che dispregio.» (8. Stabilità dell’amore.). Che parole strabilianti! Che combinazione di frasi irresistibili per organizzare una narrazione dal fascino straordinario! Pur occupandosi dei problemi eterni dell’umanità, re Salomone riesce a creare versi di fantasiosa e fresca poesia d’amore. [I brani sono tratti da La Sacra Bibbia – Antico Testamento, Edizione Ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana - CEI S.R.L. per il Testo Sacro, Roma 1974]

Con riferimento al “Cantico dei Cantici”, in Terre promesse – La Bibbia letta dal buco della serratura (La Stampa web del 23/4/2004), la scrittrice ebraica torinese Elena Loewenthal così scrive: «Un poderoso io narrante abita fra le pagine della Bibbia: è il Dio onnipotente […] Più di rado, con maestosa compostezza, si ritira per lasciare fuggevole scena agli uomini e alle donne. è allora che la storia si fa piccola, racchiusa fra le mura di una casa, dentro un’alcova. Anche la Bibbia sa diventare un racconto intimo, al quale ci si avvicina quasi in punta di piedi, come per non disturbare. è il caso certamente del “Cantico dei Cantici”, un dialogo d’amore così intimo che leggerlo è un po’ come spiare dal buco della serratura, e a ogni versetto ci si sente addosso la colpa di un abuso, perché la storia è tutta soltanto loro, di questi due innamorati che un poco si cercano e un poco si sfuggono, per amarsi ogni volta di più […].  Queste poche pagine di poesia entrarono per il rotto della cuffia nel novero dei testi sacri, e a patto di interpretarli come una rigorosa allegoria […]».

Emily Dickinson, nata ad Amherst il 10 dicembre del 1830 nel chiuso mondo puritano della Nuova Inghilterra (Massachusetts), amò la Bibbia che leggeva e rileggeva in continuazione, ma soprattutto il Cantico dei Cantici di Salomone: «Un libro antico è la Bibbia – / fu scritto da morte creature / da sacri fantasmi ispirate – / […]» (1545).

La Bibbia ci offre una vivida rappresentazione della felicità incantata (quando l’amore è ricambiato) e del tormento aspro (quando la passione amorosa è invece infelice). E la scarna ed essenziale narrazione biblica non ha nulla da invidiare alla forza espressiva delle più belle pagine della letteratura antica e moderna. A proposito dell’essenzialità della lingua ebraica, George Steiner (L’espresso, N. 44 del 10/11/2005), critico della letteratura e studioso della lingua ebraica, autore di molti libri straordinari tra i quali Grammatiche della creazione (Garzanti, Milano 2003), in un’intervista, scriveva: «L’ebraico è la lingua di scambio tra Dio e gli uomini. Quindi è una lingua di una meravigliosa economia. Dio ha fretta, ha molto da fare, non ha tempo da perdere in lunghi discorsi. La grandezza dello scambio linguistico in ebraico, sta nell’economia della parola. Le altre lingue sono più ricche di ornamenti, di prodigalità immaginaria. L’ebraico ha invece una laconicità formidabile.».

Voglio ricordare, però, che la Bibbia esprime spesso un feroce maschilismo e un’evidente misoginia: alla donna era assegnato un ruolo di bruta sottomissione, se non addirittura di chiara inferiorità, sulla base di una legislazione di famiglia molto discriminante. Nel Deuteronomio, raccolta di tre discorsi di Mosè fatti al popolo d’Israele per ricordare avvenimenti passati e per rinnovare l’amore per Dio, si legge: «Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che essa non trovi grazia ai suoi occhi, perché egli ha trovato in lei qualcosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio e glielo consegni in mano e la mandi via di casa. […]» (24. Divorzio.). Naturalmente, nulla di simile esiste con riferimento all’uomo! Nel Nuovo Testamento, nel Vangelo secondo Matteo (testo in aramaico pubblicato nel 40-50), ai farisei che ironicamente gli facevano notare come le sue parole «Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi» cozzassero contro l’“atto di ripudio” di Mosè, Gesù rispose: «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così. Perciò vi dico: Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un’altra, commette adulterio» (19. Il divorzio.).

In ultimo voglio sottolineare che, a differenza che nel Vecchio Testamento, nei Vangeli non è facile trovare calde pagine d’amore sensuale. In un suo lungo articolo giornalistico dal titolo L’amor sacro e profano, il critico letterario fiorentino Piero Citati (La Repubblica del 28/1/2006) ha scritto: «Nel Vangelo e nelle Lettere di San Paolo, c’è un’immensa omissione che nel terzo secolo colpì l’attenzione di Origene (teologo, 185-253). Mancano il sostantivo “eros” e il verbo “eran”. Ora nella civiltà ellenistica, “eros” ed “eran” esprimevano il desiderio, l’affetto, la tenerezza che sfiorava le persone e le cose “con voluttà e dolore”. […] Con la sua durissima chiarezza intellettuale, San Paolo estirpò queste parole dal vocabolario cristiano. Nel Nuovo Testamento e nelle sue Lettere, non c’è più traccia di “eros”. […] Secondo San Paolo, l’amore cristiano portava un altro nome: “agàpe, caritas”. Esso era superiore a tutte le altre virtù umane, e ne costituiva il cuore e la musica. […] L’amore era superiore perfino alla fede. […] agàpe è l’unica virtù perfetta, piena e assoluta, come sarà perfetta, alla fine dei tempi, la nostra visione della luce di Dio. […] Nell’amore, tutto è già qui: Dio è già dentro di noi. […] lo incontriamo soltanto nell’amore. […] Ma se l’amore è il presente assoluto, è anche l’assoluto futuro. […] Nel vuoto della fine, ci sarà soltanto la “caritas”, che in quel momento si scioglierà nella visione radiosa di Dio.».

In questi ultimi anni, ha cominciato a farsi pressante la richiesta d’inserire nell’insegnamento scolastico la Bibbia, in quanto testo intellettuale che ha offerto e offre contenuti preziosi alla letteratura, all’arte, alla musica e al costume, in quanto preziosa eredità culturale da custodire gelosamente e in quanto vero e proprio libro di letteratura da valorizzare, al di là del semplice recupero del senso delle radici cristiane. Nel 2005, a Milano, si è tenuto un convegno, organizzato dall’associazione laica “Biblia”, che ha discusso ampiamente proprio questo problema, affidandolo a tre esperti: il biblista monsignor Gianfranco Ravasi, il filosofo Salvatore Natoli e il giornalista Gad Lerner. Nello stesso periodo un folto gruppo d’intellettuali italiani (comprendente tra i primi firmatari, oltre ai più importanti biblisti, anche Massimo Cacciari, Umberto Eco, Margherita Hack e Gianni Vattimo), convinti dell’importanza della Bibbia come fondamento letterario per la formazione educativa e culturale degli studenti, hanno sottoscritto un appello rivolto sia al Ministero dell’Istruzione e della Ricerca sia agli altri operatori del mondo della scuola. Naturalmente, non è stato richiesto il tempo di un’ora di religione dedicata alla lettura della Bibbia, bensì l’inserimento integrativo della discussione della Bibbia (quale testo primordiale di grande influenza sullo sviluppo dell’Occidente) nell’ambito dei diversi insegnamenti scolastici: letteratura, storia dell’arte, economia politica, filosofia e musica.

P.S. Il 13 febbraio del 2006, per celebrare la festa di San Valentino, Roberto Benigni ha letto e commentato il Cantico dei cantici nel suo monologo L'amore farà vivere al Teatro Verdi di Terni. Nell'introduzione alla sua lettura, l'attore ha esordito dicendo ai suoi tanti spettatori: «O amici innamorati, sono lieto di inaugurare l’amore valentiniano di questa città che mi ha fatto innamorare. Perché questa città di San Valentino mi ha dato tanto amore, e chi più ne ha più ne metta, e chi meno ne ha meno ne metta. Ho subito accettato quest’invito con erotismo, perché si parla d’amore, ed è una cosa che mi ha avviluppato subito.». Si è detto lieto di affrontare il Cantico dei Cantici «che è un libro eccelso, è la base, il momento più straordinario dei libri della Bibbia». Ha ironizzato col suo solito sarcasmo su Berlusconi e poi si è addentrato sull'argomento. Ha detto tra l'altro: «Il Cantico dei Cantici è antecedente di parecchio a lui [Gesù]. è stato attribuito a Salomone, anche se in realtà non c’entra niente. Però è stato inserito tra i libri Sapienziali, perché è un libro ispirato. Per questo sta nella Bibbia. Perché per stare nella Bibbia ci vuole l’ispirazione: Dio dà l’ispirazione, quello scrive e  Dio lo fa diventare vero. Perché Dio volentieri s’ispira a coloro che ha ispirato. Quindi ha ispirato qualcuno – che non sappiamo chi sia – che ha scritto questo gioiello di bellezza, proprio in mezzo alla Bibbia. Sai, come quando nei quadri religiosi si vedono le cose cupe, poi all’improvviso arriva la Primavera del Botticelli. In questo libro la castità balla insieme alla bellezza e alla sensualità. La Bibbia è un libro straordinario perché è religiosissimo, ed è sensuale, erotico, pieno d’amore. C’è il lusso di spargere il seme della vita ovunque. Perché l’amore ha bisogno di lusso, ha bisogno di spazio, si nutre di se stesso, non gli garba tutto ciò che non è lui. […] Nel Cantico dei Cantici s’invoca l’amore come atto supremo dell’esistenza, un sentimento che abbraccia tutta l’umanità. […] Non c’è forza che può reggere a questo sentimento, e questo Gesù Cristo ce l’ha insegnato, e nel Cantico dei Cantici questo ritroviamo, perché naturalmente ci vogliono le due cose: sensualità e tenerezza. […] Il Cantico dei Cantici, che don Paglia mi ha consegnato di leggere e lo ringrazio perché ci ho ributtato gli occhi dentro e mi sono sommosso dall’emozione, è composto dei dialoghi: il dialogo dell’innamorato della sposa con lo sposo, meravigliosi: parla lei e parla lui, con una forma moderna, straordinaria. Naturalmente sono anche simbolici, perché come tutti i libri sapienziali il saggio sa che bisogna leggere tenendo d’occhio anche agli altri significati, ma poi facendo tutta la strada si ritorna alla semplicità del primo significato, e quindi come dice Dante nella Divina Commedia: “O voi che avete gli intelletti sani, mirate la dottrina che s’asconde dietro il  velame de li versi strani”. C’è sempre dei significati, allora all’inizio pensavano che fosse il richiamo di Dio con Israele, poi c’è stata l’interpretazione di san Paolo che è naturalmente l’amore di Gesù per la chiesa. Ma quella più bella è quella di Gesù con l’umanità. […] Ora io vi voglio leggere questo Cantico dei Cantici augurandovi un inizio di questi festeggiamenti valentiniani meravigliosi a tutte le coppie, naturalmente della felicità nella goduria più spettacolare nella tenerezza e la sessualità. E vi voglio leggere questo gioiello che è stato donato all’umanità, di cui un rabbino del secondo secolo dopo Cristo ebbe a dire: “L’universo intero non vale il giorno in cui fu dato all’umanità il Cantico dei cantici”. Ora ve lo leggo: io l’ho scritto a lapis, e non a biro, perché don Paglia mi ha detto che non si può copiare la Bibbia con qualcosa di metallico, perché con il metallo si forgiano le armi.» 
(http://www.filmfestivalpopoliereligioni.it/cont/index.php?DY=2&CAT=4&ART=150 
L'AMORE FARA' VIVERE).

domenica 22 luglio 2012

Michael Wilding, un attore e il suo “romantico charm”


Michael Wilding                                       Con la seconda moglie Liz Taylor

Avrebbe compiuto cento anni (era nato il 23 luglio del 1912 a Leigh-on-Sea nell'Essex) l'attore cinematografico inglese Michael Wilding – all'anagrafe Michael Charles Gauntlet Wilding – divenuto popolare negli Stati Uniti grazie soprattutto al suo matrimonio con Liz Taylor (fu il secondo marito, di venti anni più grande).

Educato alla Christ's Hospital School, studiò arte e fu da disegnatore che entrò nel cinema, divenendo un artista di successo. Mosse poi i suoi primi passi di attore in Inghilterra negli anni Trenta, partecipando ai numerosi film girati con Anna Neagle, nota attrice e cantante inglese «effervescente e dal fascino provocante», moglie dell'«irrequieto» regista e produttore irlandese Herbert Wilcox (nel 1926 aveva fondato con il produttore americano J.D. Williams la British National Pictures). Wilding debuttò con Ottocento romantico (Bitter Sweet) (1933). Scrive Gianni Canova (Cinema, le garzantine, Garzanti, 2009): «Distinto gentiluomo degli schermi inglesi (e talvolta statunitensi), e originariamente pittore ritrattista. Dopo i successi sui palcoscenici di Londra, nel corso degli anni '30 apparve in piccoli ruoli cinematografici in cui mette in luce il suo ascendente sul pubblico. Sebbene limitato nelle sue capacità interpretative, riesce a catturare le platee con il suo fascino educato e aristocratico, diventando celebre e amata star nel decennio successivo.». Wilcox – dopo un insuccesso con un film realista e un successo con un drammone a forti tinte – si convinse che il cinema dovesse essere uno strumento d'evasione buono a superare i «tristi orrori» della guerra e a sfuggire l'austerity e le privazioni del dopoguerra. Disse: «Basta con il realismo. D'ora in avanti il mio obiettivo doveva essere l'intrattenimento del pubblico: bella gente, in begli ambienti, occupata a far belle cose.». Con Herbert Wilcox e Anna Neagle (in ruoli «leggeri, svagati e frizzanti»), Michael Wilding creò un sodalizio molto fruttuoso e fortunato, e tutti e tre divennero i protagonisti del boom cinematografico inglese del dopoguerra grazie al “ciclo di Mayfair”, una serie di film piacevoli e glamour, di ambientazione londinese e senza molte pretese ma ben confezionati che guadagnò una montagna di soldi. Dopo il primo film della serie I Live in Grosvenor Square (1945), in cui la Neagle aveva recitato accanto a Rex Harrison, in Incontro a Piccadilly (Piccadilly Incident) (1946) Michael Wilding divenne il protagonista, e l'attore elegante e misurato si rivelò perfetto nella sua parte da commedia e perfetto risultò l'affiatamento con la protagonista (il film, che fu tra i maggiori successi britannici del 1947, raccontava la trama già vista di una moglie presunta morta che si ripresenta al marito che ha sposato nel frattempo un'altra donna). Anna Neagle e Michael Wilding recitarono nuovamente insieme in Le vie del destino (The Courtneys of Curzon Street) (1947), un appassionante dramma ambientato in epoca vittoriana. Questi tre film «costituivano, insieme, una specie di saga domestica sui casi di una burrascosa famiglia che tre guerre non riescono a domare» (vedere Anna Neagle e Herbert Wilcox, Il Cinema – Grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara 1981).

Seguì L'impareggiabile Richard (Spring in Park Lane) (1948), una fantastica commedia rosa in cui Wilding, un nobile spiantato, si fa assumere come cameriere presso una ricca famiglia, innamorandosi della nipote del padrone di casa (nel film è rimasta indimenticabile una lunga sequenza onirica scandita dalla canzone The Moment I Saw You): «Wilding riuscì a imprimere un certo ritmo a quelli che, senza di lui, sarebbero stati dei film noiosissimi, e nel 1948, con Impareggiabile Richard contribuì al maggior successo della coppia Neagle–Wilcox (e a quello che fu senz'altro il loro film migliore). “Un soggetto brillante, pieno di vivacità e di brio”, commentò allora il Monthly Film Bulletin ed era un giudizio azzeccato. La commedia brillante non è mai stata la specialità del cinema inglese ma questo è senza dubbio l'esempio più riuscito del genere.» (vedere Anna Neagle e Herbert Wilcox, Il Cinema – Grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara 1981).

La coppia Neagle–Wilding, adorata dal pubblico cinematografico britannico e osannata dalla critica, fu insieme per la quarta volta nella commedia sentimentale Il paradiso della donne (Maytime in Mayfair) (1949), nella quale Wilding era il gentiluomo Michael Gore-Brown che riceveva in eredità un atelier mentre la Neagle interpretava l'affascinante bionda direttrice della casa di mode (ed era naturalmente amore a prima vista!). Con Wilcox, Wilding recitò ancora in Into the Blue (1950) – ne fu anche produttore –, The Lady with the Lamp (1951) – biografia di Florence Nightingale –, Derby Day e Ritorna il terzo uomo (Trent's Last Case) (1952).

In seguito Michael Wilding continuò a lavorare nel Regno Unito ma partecipò anche a molte importanti produzioni di Hollywood. Tra i suoi film più celebri, ricordiamo: Eroi del mare (In Which We Serve) (1942) di David Lean; Missione segreta (Secret Mission) (1942), Dear Octopus (1943) ed English Without Tears (1944) di Harold French; Un marito ideale (An Ideal Husband) (1948) di Sir Alexander Korda; Il peccato di Lady Considine (Under Capricorn) (1949) e Paura in palcoscenico (Stage Fright) (1950) di Alfred Hitchcock; La maschera e il cuore (The Torch Song) (1953) e La scarpetta di vetro (The Glass Slipper) (1955) di Charles Walters; Sinuhe l'egiziano (The Egyptian) (1954) di Michael Curtiz; Duello di spie (The Scarlet Coat) (1955) e Una ragazza chiamata Tamiko (A Girl Named Tamiko) (1962) di John Sturges; Il mondo di Suzie Wong (The World of Suzie Wong) (1960) di Richard Quine; I due nemici (The Best of Enemies) (1961) di Guy Hamilton; e Rose rosse per il Führer (1968) di Fernando Di Leo, ove interpretava un generale inglese.

Michael Wilding non disdegnò la TV, ove ebbe anche ruoli da protagonista partecipando a episodi delle serie The 20th Century-Fox Hour (1955-1956), Climax! (1958), Playhouse 90 (1958-1959), Saints and Sinners (1962), Burke's Law e The Alfred Hitchcock Hour (1963), e Mannix (1968).

Negli anni sessanta Michael Wilding fu costretto a limitare le sue apparizioni cinematografiche per problemi di salute. E quelli furono anche gli anni del declino della coppia Neagle–Wilcox, che aveva saputo indovinare i gusti degli spettatori del grande schermo e accattivarsi il favore della critica, e che «aveva sempre lavorato per un pubblico popolare, di massa, ma negli Anni Cinquanta quel pubblico passò rapidamente alla televisione». Wilcox fece bancarotta, la moglie ritornò al teatro e non fece più film, Wilding era già quasi tagliato fuori dal cinema.  

Wilding morì a Chichester il 9 luglio del 1979 in ospedale per un fatale trauma cranico provocato da una caduta per le scale di casa, avvenuta a causa di una crisi convulsiva (aveva soltanto 66 anni).

Wilding è stato sposato quattro volte: con Kay Young (1937-1951), con Elizabeth Taylor (1952-1957) – ebbero due figli Michael Jr, anch'egli attore, e Christopher – , con Susan Neill (1958-1962) e con Margaret Leighton (1964-1976).

Su The Times del 16 novembre del 1979, in un “Obituary” scritto alcuni mesi dopo la sua morte per ricordare Michael Wilding
– http://www.hitchcockwiki.com/wiki/The_Times_(16/Nov/1979) – si legge: «La sua fama è basata principalmente su una serie di commedie romantiche — The Courtneys of Curzon Street, Spring in Park Lane e Maytime in Mayfair — che, ambientate in un mondo artificiale abitato da conti e duchi, consentiva una fuga perfetta del pubblico cinematografico inglese dalle privazioni del razionamento e dell'austerity. Successi enormi al box office, questi film accoppiavano Wilding, scelto solitamente come l'elegante aristocratico, con Anna Neagle, diretti dal marito di lei Herbert Wilcox. Nel 1949 Wilding fu votato come la “top British star” e rimase tra i primi dieci attori più importanti ciascun anno, dal 1947 al 1950.». L'estensore dell'articolo riporta come lo stesso attore si dimostrasse sorpreso di essere arrivato così in alto, nonostante il suo talento limitato, e come paragonasse il suo successo all'adulazione più tardi riservata ai cantanti pop. In effetti, egli irradiava un certo “romantic charm” che, per un certo periodo almeno, milioni di spettatori trovarono irresistibile. Continua l'articolo: «Nel 1952 egli diede ai suoi numerosi fan la possibilità di condividere “a real–life romance”, quando all'età di 40 anni sposò la ventenne Elizabeth Taylor.». Michael ebbe con Liz due figli ma sia il matrimonio sia la sua carriera naufragarono. 

Dopo il divorzio, avvenuto nel 1957, tentò infelicemente di ricostruire la sua carriera a Hollywood e cercò di continuarla in Inghilterra, girando una successione di film insignificanti, sino a che nel 1963 annunciò di voler smettere di fare l'attore per divenire un agente. Lo fece per tre anni, ma poi gradatamente ritornò al cinema. Con l'ultima moglie, Margaret Leighton, morta nel gennaio del 1976, nota attrice, nel 1972 Michael fece la sua ultima brevissima apparizione cinematografica (era Lord Holland) nel film inglese storico Peccato d'amore (Lady Caroline Lamb) di Robert Bolt – lo sceneggiatore di David Lean – con Sarah Miles, Jon Finch, Richrd Chamberlain, John Mills e Laurence Olivier (nella parte del generale Wellington), storia di Caroline Ponsonby, moglie di un brillante uomo politico che diviene apertamente l'amante del giovane e scapestrato poeta Byron, subendo gravissime umiliazioni dall'ipocrita Inghilterra dell'800 (il film è stato trasmesso il 19 luglio da RaiMovie e ho rivisto con piacere questo dramma a cavallo tra la politica e il privato).

giovedì 19 luglio 2012

Frank Kane, scrittore e sceneggiatore noir di grande appeal


Frank Kane (foto tratta dalla retrocopertina di Bullet Proof, 
http://luconti.files.wordpress.com/2008/06/kane-1.jpg)


Cento anni addietro (il 19 luglio del 1912) nasceva a Brooklyn Frank Kane, noto anche con lo pseudonimo di Frank Boyd, scrittore e sceneggiatore di libri gialli, radiodrammi (collaborò ai testi di programmi come The Shadow, Gang Busters, The Fat Man e Nick Carter), film e telefilm noir.

Iscritto alla facoltà di Legge presso la St. John's Law School, lasciò l'università a un passo dalla laurea sia per seguire la passione del giornalismo sia perché era già nata la sua prima figlia Judy (seguirono Maureen e Debbie) (http://www.thrillingdetective.com/trivia/kane.html).

Kane fu columnist di The New York Press, Editor-in-Chief del New York Trade Newspapers Corporation, e associate editor di The New York Journal of Commerce. Fu anche esperto di marketing per l'associazione americana Liquor Industry dei produttori di bevande alcoliche (da giovane era stato commerciante di liquori e uno dei più ferventi attivisti per l'abolizione del proibizionismo), e pubblicò e diresse diverse riviste del settore (nel 1965 scrisse Anatomy of the Whisky Business). Fu anche produttore: negli anni Sessanta fu presidente della Frank Kane Corporation e Frank Kane Associates che produceva film regolari e promozionali (http://www.thrillingdetective.com/trivia/kane.html)

A lui si deve la creazione di Johnny Liddell, un investigatore privato newyorchese, amato dai lettori di gialli degli anni Cinquanta e modellato sulla personalità e sullo stile investigativo del fratello Vincent che lavorava come detective nel Dipartimento di polizia di New York (non soltanto Vincent lo ispirò ma fu anche suo consulente). Johnny Liddell è il prototipo del detective privato americano, com'era rappresentato nei polizieschi e nei film gialli del tempo: alto e attraente, solido e ben piantato, mascella volitiva e chioma brizzolata, pieno di sex appeal per il sesso femminile al quale era molto sensibile, naturalmente forte fumatore e consumatore di alcool, dotato di un'affascinante e decorativa segretaria. Egli passa gran parte del suo tempo al bar, quando non è occupato ad attraversare le pericolose strade di New York a causa delle sue investigazioni o a battagliare con i tipacci della malavita organizzata che insegue fin nelle bische, nelle sale delle scommesse clandestine e nei centri dello spaccio degli stupefacenti. Molti di questi tanti romanzi (lo scrittore era molto prolifico e i suoi libri vendevano milioni di copie ed erano tradotti in moltissime lingue) furono tradotti e pubblicati in Italia per lo più nella collana il Giallo Mondadori.

Ricordiamo: L'età del piombo - About Face o The Fatal Foursome (1947), I giganti del male - Green Light for Death (1949), La morte mi vuol bene - Slay Ride (1950), Fuoco a volontà - Bullet Proof e Sempre sotto, Johnny Liddell - Dead Weight (1951), Lista nera - Bare Trap (1952), Veleni ignoti - Poisons Unknown (1953), Un letto per morire - Grave Danger (1954), Fuoco alla miccia - Red Hot Ice (1955), Bambole per l'obitorio - A Real Gone Guy (1956), Il prezzo delle carogne - The Living End (1957), La lunga notte di Johnny Liddell - Trigger Mortis (1958), La bara è scomoda - A Short Bier (1960), Epitaffio per Johnny Liddell - Due or Die e Ciak, si muore - The Mourning After (1961), Luna di miele per Johnny Liddell - Crime of Their Life (1962), Un colpo di telefono - Ring-a-Ding-Ding e Johnny ha l'asso nella manica - Hearse, Class Male (1963), Dum-dum per Johnny Liddell - Barely Seen e Una commedia per Johnny Liddell - Final Curtain (1964), Lotta libera per Johnny Liddell - Esprit de Corpse e Che fiuto, Johnny Liddell - Two to Tangle (1965), e Margine del terrore - Margin for Terror (1967).

In un periodo successivo, alla metà degli anni Sessanta, Kane diede una coloritura di spionaggio al suo personaggio facendo di Liddell un emulo di James Bond e ricreando ottime atmosfere da romanzo spionistico. Ricordiamo: Una valigia colma di dollari - Fatal Undertaking (1965) e Maid in Paris (1966).

Con lo pseudonimo di Frank Boyd scrisse The Flesh Peddlers (1959) e Johnny Staccato (1960). Numerosi furono gli altri romanzi gialli scritti, tra i quali Il cancro della metropoli -Key Witness (1956), che ha ispirato il film “Il cerchio della violenza” (1960) di Phil Karlson con Jeffrey Hunter, Pat Crowley e Dennis Hopper, storia di un feroce teppista che imperversa con la sua banda, incutendo paura protetta dall'omertà dei pavidi. è scritto sul FilmTV: «Apprezzabile film di suspense sullo sfondo del problema, allora emergente, della violenza urbana. Nel cast, il “giovane bruciato” Dennis Hopper.» (http://www.film.tv.it/film/9828/il-cerchio-della-violenza/). Seguirono: Morte a Jackson City - Syndicate Girl e La madrina - Liz (1958), Il racket dei jukebox - Juke-Box King e L'arma terribile - The Line-Up (1959), e Necrologio per mister Carter - The Conspirators (1962).

Kane creò anche una sua casa editoriale, la Lake Press, che pubblicò i suoi testi, inclusi il libro di viaggi Travel is for the Birds (1966) e una newsletter mensile per la Liquor Industry. Fece parte del “board of the Mystery Writers of America”.

Alla fine degli anni Cinquanta, Kane si era trasferito a Hollywood, diventando nel 1958 e nel 1959 il soggettista e lo sceneggiatore più importante dei popolarissimi telefilm di Mike Hammer, ispirati al personaggio di Mickey Spillane che fra le sue mani divenne forse soltanto una diversa maschera di Johnny Liddell. Ne scrisse circa 23 episodi (vedere: http://www.gialloweb.net/recensioni/kane.asp. e
http://www.imdb.it/name/nm0437310/filmoseries).

Tra le sue serie Tv più importanti, ricordiamo The Investigators (1961) in 13 episodi di 60 minuti, della CBS, una serie ricca di azione e di approfondimento investigativo, che studiava i casi dei due detective assicurativi di New York Russ Andrews (James Franciscus) e Steve Banks (James Philbrook), aiutati dalla loro affascinante segretaria Maggie Peters (Mary Murphy).

Frank Kane morì ancora giovane a Manhasset il 29 novembre del 1968.

Ha scritto Luca Conti: «Qualcuno si ricorda ancora di Frank Kane? Credo pochi, e a quanto so è così anche negli USA. Eppure per una decina d'anni, dalla metà dei Cinquanta alla metà dei Sessanta, il vecchio Frank è stato uno dei giallisti più popolari nel nostro paese. A me è sempre piaciuto, fin da piccolo (il primo suo libro l'ho letto nel 1972, avevo dieci anni…), e ho continuato a leggerlo – e a rileggerlo periodicamente – con grande passione, proprio come periodicamente mi sparo massicce dosi di telefilm (Hunter, ad esempio, o Rockford). La passione per Kane credo di condividerla, in maniera abbastanza singolare, con uno scrittore di genere totalmente diverso come Valerio Evangelisti, che in un articoletto apparso tempo fa in rete racconta le sue prime esperienze di lettore di gialli e la scoperta, anche leggermente pruriginosa, degli hard–boiled di Kane.» (http://www.gialloweb.net/recensioni/kane.asp).


La nipote Maura Fox (figlia di Maureen Kane) ha scritto un bel ricordo su Frank Kane sul sito Thrilling Detective dal titolo “An appreciation and biography”, ricco di notizie e informazioni sul famoso nonno. Scrive la Fox che Kane creò il «Big Apple private eye Johnny Liddell» nel 1944 dedicandogli circa 40 libri e innumerevoli racconti (circa 400). Parla di «sensational wit and sense of humor (sagacia sensazionale e senso di humor)» e ammette che Kane non è stato né un genio né un grande innovatore né uno scrittore di grandissimo stile ma non ha mai fallito di produrre in modo costante, consistente e competente delle cose buone che hanno sempre divertito e raramente deluso. Riferisce la Fox che The New York Times scrisse del nonno: «Frank Kane continua a essere il migliore scrittore d'intrattenimento nel campo dello “hard–boiled” sin dai tempi di Jonathan Latimer». The Philadelphia Inquirer scrisse: «come scrittore di veloci, dure ed eccitanti “mystery stories”, Frank Kane è il top» e The Los Angeles Herald Express commentò: «Frank Kane scrive con l'autorità di una mitragliatrice “good socko mystery”, hard–boiled e stimolanti». Conclude Maura Fox: «Credo che mio nonno sia stato uno scrittore estremamente talentuoso, abile e arguto, la cui carriera è stata sfortunatamente interrotta all'età di 56 anni con molti progetti ancora in corso (http://www.thrillingdetective.com/trivia/kane.html).

sabato 14 luglio 2012

Anna Karenina: Levin e Kitty, la coppia affettuosa e solidale


Anna Karenina (miniserie TV 1974) 
Valeria Ciangottini (Kitty)         Sergio Fantoni (Levin)


La seconda coppia coprotagonista nel romanzo Anna Karenina di Lev N. Tolstoj è quella di Levin – uomo orgoglioso e geloso, amico d’infanzia di Stiva e proprietario entusiasta di una grande azienda agricola, un esperto di economia rurale e «un appassionato coltivatore della terra», convinto dell’utilità del lavoro nei campi – e Kitty, deliziosa e tranquilla ragazza dal carattere sincero e determinato.

Kitty è la sorella di Dolly, cognata di Anna Karenina e moglie dell’infedele Stiva, una ragazza graziosa e ragionevole che riceve una dichiarazione d'amore dal timido e serio Konstantin Levin, «un uomo superiore... tutto d’un pezzo». Kitty – che è corteggiata anche dal vacuo Aleksandr Vronskij, ricchissimo e seducente aiutante dell’imperatore con molte relazioni mondane – respinge, però, con dispiacere Levin che ne soffre grandemente. Anna e Vronskij si conoscono ed è subito colpo di fulmine. Durante un ballo dal quale Kitty – interessata a Vronskij – si aspetta molto, i due flirtano insieme e gettano nello sconforto la ragazza che si ammala, sia perché capisce di non essere amata, sia perché si vergogna di aver mal riposto la sua fiducia in un uomo indegno come Vronskij, umiliando con un rifiuto un uomo sensibile e degno come Levin.

Dopo il breve doloroso intermezzo con Vronskij, i due giovani si sposano e condividono tutto. Kitty si preoccupa di ciò che interessa Levin: «Essa sapeva che Levin aveva in campagna tutta un’attività che gli era cara: di quest’attività non capiva nulla e non voleva capirne, ma la riteneva molto importante […] lo amava perché lo capiva, perché sapeva tutto di lui e perché tutto ciò che stava a cuore a lui stava a cuore anche a lei […]». Levin, a sua volta, ama ciò che piace a Kitty: «La libertà! Che doveva farne della libertà? La felicità consisteva nell’amare, nel vivere dei pensieri, dei desideri di lei. Quella era la felicità. […] in quel momento capì che il cuore di lei era all’unisono col suo […] egli non sapeva più distinguere dove finiva lei, dove cominciava lui.». E questo avviene, nonostante i piccoli inevitabili litigi per motivi insignificanti (con le successive tenere riconciliazioni) e nonostante le meschine preoccupazioni quotidiane! Essi si amano di un amore autentico ed eterno: il vero grande amore e il legame indissolubile della vita coniugale sono per loro un insieme che prescinde dalla falsità del loro marcio ambiente aristocratico. Levin vive in uno stato di esaltazione e – come soggiogato da una forza esterna – non può vivere senza Kitty: «[…] sapeva che per lui tutte le ragazze si dividevano in due categorie: a una appartenevano tutte le ragazze di questo mondo, e queste ragazze avevano tutte le debolezze umane; all’altra categoria apparteneva soltanto lei e non aveva nessuna debolezza ed era superiore a ogni cosa terrena […] Egli non poteva sbagliarsi. C’era al mondo soltanto un essere capace di concentrare in sé tutta la vita, tutto l’universo per Levin.».

Molto romantica è la descrizione dell’incontro decisivo tra Levin e Kitty in casa di Stiva e Dolly (dopo un anno dal rifiuto di Kitty) e del loro riconoscersi innamorati: «Quando seppe che era là, provò a un tratto un tale piacere e insieme un tale timore che gli si mozzò il respiro e non riuscì a pronunziare le parole che voleva dire […] Come l’avrebbe trovata? Pensava […] era un’altra. Era spaventata, timida, e perciò più simpatica. Lo vide subito: l’aspettava […] Arrossì, impallidì, poi arrossì di nuovo, con le labbra che le tremavano. Egli, dopo aver salutato la padrona di casa, le si avvicinò, s’inchinò e si diedero la mano in silenzio […] Non c’era nulla di straordinario in quello che diceva, ma egli trovava un significato che non si poteva esprimere in parole in ogni sillaba, in ogni movimento delle labbra, negli occhi, nelle mani di lei, vi trovava una fiducia, una carezza che implorava il perdono, una promessa, una speranza, e l’amore del quale oramai non poteva più dubitare. Levin si sentiva come se gli fossero cresciute le ali […] Levin sapeva che lei stava ascoltando le sue parole e che le faceva piacere udirle. E soltanto quest’unica cosa lo interessava […] Si sentiva a un’altezza tale da fargli girare la testa, e là in basso, da qualche parte, lontano, stavano tutti quei buoni e bravi Karenin, Oblonskij e tutto il mondo […] Fra lei e Levin era cominciata una conversazione, ma non era neppure una conversazione, era qualcosa d’intimo, di misterioso che li avvicinava sempre più e li rendeva felici e insieme atterriti dinanzi all’ignoto nel quale entravano […] Egli vide soltanto quegli occhi chiari, sinceri, spaventati dallo stesso radioso amore che riempiva tutta l’anima di lei. Essa si fermò tanto vicino a lui che quasi lo toccava. Alzò le mani e gliele posò sulle spalle, dandosi tutta in quel gesto timido e pieno di gioia. Egli l’abbracciò e premette le labbra sulla sua bocca che cercava quel bacio.».

E quando Kitty resta incinta, la nascita di un figlio sembra a Levin un fatto straordinario ma anche «un avvenimento così misterioso che sfuggiva alle previsioni umane […] non poteva pensare senza terrore al momento che si avvicinava […]». Si sente quasi colpevole per le sofferenze di Kitty e nella fase finale del parto sembra quasi non poter più sopportare lo strazio cui è sottoposta la giovane moglie durante il lungo travaglio. Quando infine nasce il bambino, vivo e sano, e quando Kitty è ormai salva e libera dai patimenti, egli è finalmente felice!

Il romanzo non finisce, però, con il suicidio di Anna Karenina! C’e una Parte Ottava – quasi un epilogo morale – nel quale si narra la soluzione per via religiosa della grave crisi spirituale di Levin, personaggio autobiografico, così tormentato dalla necessità di conoscere la sua vera natura e i tanti “perché” della vita da giungere sin quasi sulla soglia del suicidio. Levin – che «si sentiva conficcare sempre più nella terra come un aratro» – comprende infine che deve custodire, come una vestale, il fuoco sacro della terra e del suo arcaico lavoro che molti nobili hanno abbandonato. Intuisce che deve iniziare a vivere non soltanto per sé ma anche per il bene comune e per Dio. Per dare un significato alla sua vita, s’impone una missione che consiste nella conoscenza del bene, nel recupero dei valori evangelici e nella realizzazione della legge morale che ogni uomo porta scritta in sé. (Brani tratti da Anna Karenina, nella traduzione di Enrichetta Carafa D’Andria, Newton Compton Editori, Roma 1996)

P.S. Nel film di Julien Duvivier (1948) con Vivien Leigh (Anna) e Kieron Moore (Vronskij), Kitty era interpretata da Sally Ann Howes e Levin da Niall MacGinnis. Invece nel film di Bernard Rose (1997), con Sophie Marceau (Anna) e Sean Bean (Vronskij), Kitty era Mia Kirshner e Levin il concreto e solido Alfred Molina.

Nella miniserie televisiva italiana del 1974 di Sandro Bolchi, con Lea Massari (Anna), Pino Colizzi (Vronskij) e uno straordinario Giancarlo Sbragia (Karenin), Kitty era interpretata dalla sensibile e fresca Valeria Ciangottini mentre Levin era un eccezionale Sergio Fantoni (i Morandini – ne il Morandini, Zanichelli editore – hanno scritto della sua interpretazione: «quest'ultimo in uno dei suoi personaggi più scavati: è il possidente di sentimenti democratici che sottintende lo stesso Tolstoj»).

mercoledì 11 luglio 2012

Anna Karenina: Stiva e Dolly, la coppia convenzionale


Anna Karenina (miniserie TV 1974)  Marina Dolfin (Dolly)     Mario Valgoj (Stiva)


Nel grande romanzo Anna Karenina di L.N. Tolstoj, scritto tra il 1875 e il 1877, accanto alle due coppie infelici costituite da Anna–Aleksej Aleksandrovic e da Vronskij–Anna, troviamo altre due coppie unite da forti legami interiori, che rappresentano i due prototipi ideali di due diverse forme di matrimoni, quella di Stiva e Dolly e quella di Levin e Kitty.

La prima coppia, costituita dal fratello di Anna, l’ufficiale civile Stepan Arkad'ič Oblonskij (detto Stiva), e da Darja Aleksandrovna (detta Dolly), è meno importante e dominata dalla superficialità e dai tradimenti del marito (uomo infedele, oltre che cattivo amministratore delle finanze familiari), contrapposti all’infelicità di lei, abbattuta dall’umiliazione e appassita nelle cure quotidiane della casa e nelle preoccupazioni per i figli. I due vivono il loro matrimonio nella falsità del compromesso e all’interno delle più viete convenzioni. Scrive Tolstoj: «Quando nella vita di famiglia non c’è né un accordo né un dissidio completo, le cose non possono andare spedite. Si vedono famiglie rimanere per anni in luoghi dove stanno malvolentieri soltanto perché il prendere una decisione susciterebbe discussioni spiacevoli.».

Stiva si accorge che la moglie invecchia mentre egli è ancora pieno di vita: «[…] non era più innamorato di sua moglie, madre di cinque figli viventi e di due morti, e di un anno appena più giovane di lui […] ma s’immaginava in modo confuso che la moglie da un pezzo avesse indovinato tutto e non se la prendesse troppo delle sue infedeltà. Anzi gli pareva che lei, sciupata, invecchiata, non più bella, senza nessuna attrattiva particolare, semplicemente una buona madre di famiglia, dovesse, per un certo senso di giustizia, mostrarsi indulgente. E invece era accaduto proprio il contrario.».

Dolly ha capito che l’amore è finito e che tra loro due non esiste più nulla, e confessa alla comprensiva Anna venuta da Pietroburgo a Mosca per ricomporre il dissidio coniugale: «E il peggio è, capisci, che io non posso lasciarlo: sono legata a lui dai bambini. E soltanto non posso vivere con lui: vederlo mi è una tortura […] Io non stimo mio marito; mi è necessario e lo tollero […]». Con mestizia lo perdona, anche se non può più amarlo. Dolly non giudica Anna: «Come molte donne di una ineccepibile morale, essa, da lontano, scusava l’amore colpevole e quasi l’invidiava […]». In cuor suo ritiene che Anna ha fatto bene a lasciare un marito che non ama per vivere felice con l’uomo che ama, mentre lei deve sopportare una vita di avvilimento perché il suo carattere e la sua educazione le impediscono una scelta diversa («Aveva la coscienza che tra lei e Anna c’era un abisso»).

è interessante un brano del romanzo, nel quale Dolly tenta di spiegare a un offeso Levin perché Kitty (la giovane sorella) in un primo tempo lo ha respinto, ingannata e confusa dalla corte di Vronskij. Esso descrive bene la condizione delle fanciulle dell’Ottocento, che è rimasta tale però anche sino ai primi decenni del 20° secolo: « – Sì, ora ho capito tutto – continuò Darja Aleksandrovna – Voi non lo potete capire: voialtri siete liberi di scegliere e sapete sempre chiaramente chi amate. Ma una ragazza aspetta col suo pudore di donna, di vergine; una ragazza vede voialtri uomini da lontano, crede tutto sulla parola, e spesso non sa che cosa dire, che cosa pensare […] voi uomini avete delle vedute su di una ragazza, andate in casa, entrate in intimità, osservate, aspettate per vedere se vi piace davvero, e poi, quando siete convinti di amarla, fate la vostra domanda […] Fate la vostra domanda quando il vostro amore è maturo o quando avete pesato tutte le qualità di due persone e sapete quale dovete scegliere. Ma una ragazza non può scegliere: può dire soltanto sì o no […] Nel momento che voi facevate la vostra proposta essa era proprio in quella situazione nella quale non poteva rispondere. Era indecisa: voi o Vronskij. Lui lo vedeva tutti i giorni, voi non vi vedeva da un pezzo […] – Vi dirò soltanto una cosa ancora […] Io non dico che lei vi amava, ma voglio dire che il suo rifiuto, in quel momento, non significa nulla.» (brani tratti da Anna Karenina, nella traduzione di Enrichetta Carafa D’Andria, Newton Compton Editori, Roma 1996).

Gli ultimi anni della vita di Tolstoj non furono, purtroppo, felici da un punto di vista coniugale: lo scrittore aveva scelto di divenire il profeta di una utopica comune socialista, e aveva rinunciato alla proprietà e ai titoli nobiliari. Si guastarono allora irrimediabilmente i rapporti e crebbe un divario insuperabile con la moglie che non seppe comprendere più le sue idee e i suoi comportamenti (tra i quali, la sua rinunzia ai diritti d’autore), e che lottava per il bene dei suoi figli (ne avevano tredici), per mantenere i suoi valori e per riavere la sua vita. Tolstoj cominciò allora a sentire il peso del vincolo matrimoniale, che gli appariva come una prigione dalla quale desiderava liberarsi (lo scrittore era nato lo stesso anno di Ibsen, e l’idea che il matrimonio non fosse altro che una vecchia istituzione in crisi serpeggiava ormai per tutta l’Europa). Alla fine dell’ottobre del 1910, a ottantadue anni, stanco e amareggiato, rabbioso e deluso, riuscì a realizzare la sua sognata fuga da casa, lontano da quella moglie oppressiva che amava/odiava e spinto anche dal sentimento eroico di abbandonare quei privilegi che aveva condannato per tutta la sua vita. Dopo appena dieci giorni moriva, però, nella fredda stazione di periferia di Astàpovo, stroncato dalla malattia e dall’abbandono (era il 7 novembre del 1910).

P.S. Come abbiamo già detto, sia il cinema sia la televisione hanno amato il tema narrativo e la tensione sentimentale di questo romanzo. Nel film di Julien Duvivier (1948) con Vivien Leigh (Anna) e Kieron Moore (Vronskij), Dolly era interpretata da Mary Kerridge e Stiva da Hugh Dempster. Hanno scritto i Morandini (il Morandini – Zanichelli editore, di Laura, Luisa e Morando Morandini): «In questa edizione britannica, prodotta da A. Korda, l'adattamento di Jean Anouilh lo riduce a “un vaudeville triste e noioso sino allo sbadiglio” (J. Borel). Vestita da Cecil Beaton, la Leigh appare a disagio mentre tra gli altri interpreti spicca Ralph Richardson nella parte di Karenin. Meraviglioso il bianconero di H. Alekan.».

Invece nel film di Bernard Rose (1997), con Sophie Marceau (Anna) e Sean Bean (Vronskij), Dolly era interpretata da Fiona Shaw e Stiva da Danny Huston. Hanno commentato i Morandini: «Illustrazione corretta, accademica, ben pettinata, senza impennate, nemmeno nei duetti tra Anna e Vronski, con la cinepresa di Rose, anche sceneggiatore, che tampina da vicino i suoi personaggi, alternando la dinamica dei piani–sequenza con primi e primissimi piani a uso della fruizione in TV o in DVD.».


Nella stupenda miniserie televisiva italiana del 1974 di Sandro Bolchi, con Lea Massari (Anna), Pino Colizzi (Vronskij) e uno straordinario Giancarlo Sbragia (Karenin), Dolly era la brava e sensibile Marina Dolfin e Stiva il vacuo e ironico Mario Valgoi.

domenica 8 luglio 2012

Anna Karenina: l’amore fatale e il fallimento


Anna Karenina     Greta Garbo         Sophie Marceau



Desidero parlarvi della vicenda d’amore e d’adulterio di Anna Karenina, eroina del romanzo Anna Karenina di Lev Tolstoj (1828-1910). Questo grande romanzo ebbe una difficile gestazione. Tolstoj era stato ispirato da un fatto realmente accaduto a Mosca e vi lavorò per ben cinque anni, in un momento di forte crisi spirituale. Per motivi politici – una larvata polemica nei confronti della guerra che la Russia zarista aveva appena intrapreso contro la Turchia che lo scrittore considerava una soluzione selvaggia e terribile – fu costretto a pubblicarlo a sue spese nel 1877. Ebbe però un successo travolgente, addirittura superiore a quello di “Guerra e pace” (1869), il ponderoso romanzo corale in sei libri dedicato agli avvenimenti storici iniziati con l’invasione napoleonica del 1812, che già gli aveva meritato grande fama in patria.

Parlando di tutte le eroine tragiche che hanno condiviso il destino fatale di Emma Bovary e di Anna Karenina, nel saggio Una stanza tutta per sé (traduzione di Maria Antonietta Saracino, I Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1998), Virginia Woolf ha scritto che sono «le donne che hanno illuminato come fiaccole accese le opere di tutti i poeti fin dalla notte dei tempi». Simboli di un moderno disagio borghese, queste due donne inquiete hanno vissuto in pieno la crisi dell’Ottocento, tradendo tutti i codici morali ottocenteschi e minando l’istituzione familiare per giungere infine sino al suicidio finale (l’una si avvelena con l’arsenico, l’altra finisce sotto le ruote di un treno).

La storia di Anna Karenina è nota ma val la pena di ricordarla. Anna è la sorella del principe Stiva Oblonskij, uomo allegro e superficiale che vive a Mosca ed è lo sposo infedele di Dolly, che vorrebbe lasciarlo dopo aver scoperto l’ultimo suo tradimento con la governante dei bambini. Andata a trovarli da Pietroburgo a Mosca, Anna riesce a comporre con abile semplicità il dissidio tra i due sposi che sono i genitori di ben cinque figli. Dolly è la sorella di Kitty, una ragazza graziosa e ragionevole che riceve una dichiarazione d’amore dal timido e serio Konstantin Levin. Kitty, che è corteggiata anche dal vacuo Aleksandr Vronskij, ricchissimo e seducente aiutante dell’imperatore con molte relazioni mondane, respinge con dispiacere Levin, che ne soffre grandemente. Anna è una donna bella ed elegante, vivace e annoiata. Vive a Pietroburgo ove è sposata con Aleksej Aleksandrovic, un alto burocrate (influente, rigido e perbenista), ed è la madre affettuosa di un ragazzo, Sereza. Anna e Vronskij si conoscono ed è subito colpo di fulmine. Durante un ballo dal quale Kitty – interessata a Vronskij – si aspetta molto, i due flirtano insieme e gettano nello sconforto la ragazza. Anna è presa da un amore senza il quale non può esserci né gioia, né dolore, e neppure vita. Rimane incinta, partorisce una figlia e si ammala gravemente. Alla fine decide di unirsi a Vronskij e di lasciare il marito e il figlio. I due amanti viaggiano per tre mesi per l’Europa e vanno in Italia, ove Anna impara a vivere soltanto per Vronskij, che è la sua felicità ma anche la sua infelicità. Il marito la punisce con il completo allontanamento dal figlio e con il fermo rifiuto del divorzio. La corrotta aristocrazia pietroburghese, chiusa a riccio nelle sue ipocrite convenienze formali, costringe Anna a vivere nel disprezzo mentre, in qualche modo, perdona Vronskij e si apre per lui. Nonostante tutto, Anna è «imperdonabilmente felice».

Vronskij (che si è dimesso dalla carriera militare) si strugge, invece, dalla noia rimpiangendo la sua precedente esistenza gaia e libera. Vronskij e Anna vivono nel lusso e nell’eleganza una vita agiata e superficiale. Vronskij soffre perché la figlia porta il nome di Karenin e vorrebbe convincere Anna a chiedere il divorzio per sposarlo e risolvere così le mille complicazioni della loro situazione. Anna non è, però, interessata al divorzio sia perché non riesce a voler bene ad Anny, la bambina di Vronskij, sia perché sa che il divorzio in ogni caso non le restituirà il figlio che ama. Anna si limita a rendersi attraente e seducente per Vronskij, è tesa e nervosa perché teme di perderlo e riesce a dormire soltanto quando usa una pozione a base di morfina. Pur apprezzando la sua dedizione, Vronskij sente il peso di quelle reti amorose nelle quali Anna tenta di avvilupparlo e diventa sempre più freddo e distante, in taluni istanti, anche ostile e crudele: non intende sacrificare la sua indipendenza di uomo a quell’amore oppressivo, rimpiangendo la libertà perduta. Si affacciano i primi gravi dissapori con i segni inequivocabili della fine di quella passione disperata. Anna avverte di perdere il controllo della situazione: si sente capace di qualunque follia e inizia ad aver paura di se stessa; sente che accanto all’amore si è inserito uno spirito maligno che la spinge a una lotta crudele con l’uomo che ama.

I due vanno a Mosca: Vronskij per affari, Anna in attesa delle decisioni del marito riguardo al divorzio: «Eppure non esisteva una cagione esterna di dissidio, ma ogni tentativo fatto per calmare quest’irritazione latente non faceva che accrescerla. Il male veniva di dentro. Per lei l’irritazione nasceva dal veder diminuire l’amore di Vronskij; per lui, dal riconoscere di essersi messo, a cagione di Anna, in una situazione penosa che essa, invece di alleviare, rendeva sempre più penosa. Né l’uno né l’altra conveniva dei motivi di questa irritazione, ma ognuno di loro credeva che l’altro avesse torto e ad ogni occasione essi lo volevano dimostrare. Anna avrebbe preteso che Vronskij concentrasse tutta la sua vita in lei e quindi era gelosa. Non era gelosa di una data donna, ma la diminuzione dell’amore di lui la rendeva gelosa ed essa cercava un oggetto per la sua gelosia. […] Ed essendo gelosa, Anna si adirava contro Vronskij e cercava tutte le occasioni per prendersela con lui. Lo accusava di tutto ciò che aveva di penoso la sua situazione. Attribuiva a lui lo stato tormentoso di attesa nel quale s’era trovata a Mosca, sospesa fra cielo e terra, la lentezza e l’indecisione di Aleksej Aleksandrovic, la sua solitudine. Era colpa di lui se stavano a Mosca invece che in campagna. Era colpa di lui se essa era divisa da suo figlio. Anche quei rari momenti di tenerezza che capitavano fra loro non la calmavano: ora negli slanci amorosi di lui essa vedeva una tranquillità, un’assoluta sicurezza che non c’era prima e che l’irritava.».

Le discussioni e le recriminazioni tra Anna, ormai distrutta dalle continue torture morali, e Vronskij, non più in grado di affrontare la situazione penosa nella quale lo ha posto l’amore per lei, continuano sempre più aspre e crudeli. Anna scopre in Vronskij una punta di antipatia nei suoi confronti; ormai è convinta che lui non l’ami più, che tutto è finito o deve finire. Nella sua anima regna la tempesta e si sente a una svolta della sua vita che potrebbe avere conseguenze terribili. Comincia a pensare alla morte come alla sola cosa in grado di risolvere tutto, di riaccendere l’amore e di provocare in lui pentimento, commozione e sofferenza. Nonostante il desiderio di consolarla e la paura per una tremenda minaccia che Anna pronuncia in tono disperato, Vronskij decide di andare dalla madre ove si trova anche la principessina Sorokina (che la madre vorrebbe fargli sposare). Anna è presa dal disgusto e dall’odio: sente di amarlo e di odiarlo nello stesso tempo. Come un automa, fa una strana e confusa visita a Kitty e Dolly, e decide di andare in stazione e di prendere un treno per coglierlo in flagrante. Durante il viaggio, in mezzo alla confusione e alle innumerevoli distrazioni, in un soliloquio delirante che i critici hanno chiamato «monologo interiore», Anna passa in rassegna tutta la sua vicenda esistenziale. Arrivata in stazione, cede all’impulso di gettarsi sotto le ruote del vagone di un treno merci e di liberarsi così da tutti e da se stessa. A lei che si era chiesta: «Perché non dobbiamo spegnere la candela quando tutto ciò che vediamo ci fa orrore?», nell’istante della morte «in un lampo la vita le apparve con lo splendore di tutte le sue gioie passate». Allora si pente e fa il tentativo impossibile e inutile di ritirarsi, chiede perdono al Signore e la luce si spegne per sempre.

Ma il romanzo non finisce qui! C’e una Parte Ottava – quasi un epilogo morale – nella quale si racconta, tra l’altro, la disperazione di Vronskij che, indurito dal dolore ma arricchito da una nuova forza interiore, parte volontario per la guerra in Turchia, pronto a morire o a rinascere nell’eroica lotta. (Brani tratti da Anna Karenina, nella traduzione di Enrichetta Carafa D’Andria, Newton Compton Editori, Roma 1996)

Il romanzo di Tolstoj non narra la storia di un banale adulterio o di un passeggero capriccio sentimentale, bensì quella di un’attrazione reciproca fortissima e irresponsabile tra due esseri in fondo molto diversi. Questo trasporto si trasforma in una passione travolgente e fatale, non lasciando spazio agli impegni presi, agli affetti già esistenti, alle abitudini inveterate o alle convenzioni sociali. Vronskij è un aristocratico privo d’interiorità e dall’elevata posizione mondana, che ama la vita militare e il suo reggimento, che predilige i cavalli e che gode nel divertirsi con donnine allegre: non ha mai preso in considerazione la possibilità del matrimonio, non amando la vita di famiglia. Anna, invece, è una donna sensibile e tormentata, che sceglie per amore di cedere a «quello che l’anima sua desiderava e che la sua ragione temeva […] uno spaventevole e tanto più seducente sogno di una felicità impossibile». Si convince ad accettare un rapporto adulterino, rinunciando alla sua rispettabilità di donna sposata: «Devi capire che per me, dal primo giorno che t’ho amato, tutto si è trasformato. Per me non c’è che una cosa sola: il tuo amore. Se lo posseggo, mi sento così in alto che nulla può umiliarmi. Sono orgogliosa della mia situazione […]». In realtà, Anna paga l’adulterio con tremendi complessi di colpa, con l’abbandono del figlio e con uno sdoppiamento di sé: «C’era qualcosa di terribile, di odioso nel ricordo di quello che avevano pagato col prezzo della loro vergogna […] Anna gli teneva stretta una mano e non si muoveva. Sì, quei baci li aveva comprati a prezzo del suo onore, quella mano era la mano del suo complice […] Ella sentiva che le era impossibile di tradurre in parole la vergogna, l’orrore, la gioia che provava di fronte a questo ingresso in una nuova vita […]».

Tra l’altro, Anna ha anche preso consapevolezza della crisi del suo soffocante legame matrimoniale che vive d’ipocrisie: a lei sembra ingiusto continuare a vivere nella finzione, rimanendo accanto a un marito che non ama: «I suoi rapporti con lui avevano sempre avuto una tinta come di falsità, ma ora ne ebbe una coscienza chiara e dolorosa […] Si sentiva fasciata da un’impenetrabile corazza di menzogna!». In seguito, pur continuando ad amare Vronskij, Anna è costretta ad accorgersi che dentro di sé ha creato di lui «un’immagine superiore al vero e impossibile nella realtà». D’altra parte, Vronskij comincia a notare ben presto che «Anna non era più la stessa per lui: moralmente e fisicamente era mutata. La guardava come un uomo guarda il fiore che ha colto e che ora è appassito, e dura fatica a ritrovarvi quella bellezza per la quale lo ha colto e sciupato.».

A proposito di Anna, riporto ciò che ha scritto Gesualdo Bufalino nel suo Dizionario dei personaggi di romanzo (Oscar Saggi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1989): «L’adulterio nella meteorologia amorosa dell’Ottocento è non di rado un’acquata di primavera. Per Anna Karenina è l’alluvione che spacca la diga. Da quando Vronskij le apparve, nel suo fatuo splendore di denti e spalline, non esistono più per lei, benché per un po’ insista a rispettarli, né l’alfabeto mondano né il codice dei valori morali. Finirà sotto le ruote di un treno, pietosamente, chiudendo tra una banchina e l’altra di una stazione il curricolo nero della sua deroga. È una vendetta del cielo? E Anna la meritava? O non la meritava piuttosto il mondo che la spinse alla morte? […]».

E Aleksej Aleksandrovic Karenin, il marito tradito? Per Anna, non è un essere umano ma una macchina ministeriale. Per Vronskij, è un personaggio scomodo e apparentemente superfluo! Anna lo ha sposato senza amore (più vecchio di lei di venti anni), non conoscendo l’amore, ed egli è un uomo veramente molto enigmatico e difficile da amare. Forse non aveva mai amato veramente Anna né guardato nell’anima di sua moglie, e certamente non aveva mai tentato di entrare nel segreto dei suoi sentimenti. All’inizio, è impotente davanti alla sfacciata passione dei due: «Come un bue che china dolcemente il capo, egli aspettava il colpo che sentiva sospeso su di sé […] Era come un uomo, furioso, di non aver potuto spegnere un incendio, che dice al fuoco: “Brucia! Fai pure!” […] non voleva guardare in faccia la sua situazione. Preferiva chiudere come in uno scrigno sigillato il suo affetto per la moglie e per il figlio, e anzi era diventato freddo verso il bambino, lui un tempo padre tanto premuroso […] andava inventando pretesti di lavorare per non aprire quello scrigno sigillato, dove erano racchiusi sentimenti e pensieri che il tempo rendeva sempre più penosi […] Non voleva pensare a queste cose e non ci pensava, ma giù, in fondo in fondo all’anima, sapeva, pur senza averne le prove, ma sapeva senza dubitarne di essere un marito tradito, e ne soffriva profondamente […] non soltanto non pensava di uscire da quella situazione ma non voleva riconoscerla, appunto perché era toppo terribile, troppo contro natura […] egli non voleva vedere e non vedeva […] non voleva penetrare nei sentimenti di sua moglie, gl’importavano solo i segni esteriori […]». In seguito, piuttosto brutalmente, Anna gli confessa il suo amore: «No, non sbagliate […] Io ero disperata e lo sono ancora. Vi ascolto e penso a lui. Io lo amo, sono la sua amante, non ne posso più, ho paura, vi odio... Fate di me quel che volete […]». In un primo momento Aleksej Aleksandrovic resta immobile «in quella solennità che hanno i visi dei morti» ma diviene poi un giudice implacabile per quella che considera «una donna depravata... senza onore e senza cuore, senza religione». Pensa di chiedere il divorzio dopo il riconoscimento dell’adulterio, in modo che il figlio non possa assolutamente rimanere con la madre. Cessa di occuparsi di lei e di suo figlio, e senza nessuna indulgenza prende tutte le rigide misure indispensabili per tutelare le apparenze e il suo decoro, e per salvare ciò che resta del suo onore. Si organizza, inoltre, per vivere nel modo più conveniente e per vendicarsi di Anna nella maniera più tremenda: «Non era più la gelosia che lo tormentava ma il desiderio che Anna non trionfasse, che pagasse il fio della sua colpa.». Quando però – in seguito al parto di una bimba e a una febbre puerperale – Anna sta per morire e lo chiama al suo capezzale per chiedergli perdono, egli è preso da una strana commozione e da un più alto sentimento di pietà: con la sua generosità umilia Vronskij, il quale tenta il suicidio sparandosi un colpo di revolver alla parte sinistra del petto senza però toccare il cuore. Anna guarisce e riprende a detestare Aleksej Aleksandrovic, desiderando di essere liberata dalla sua odiosa presenza: «Ho sentito dire che le donne amano gli uomini anche per i loro vizi, ma io l’odio per la sua bontà. Non posso vivere con lui […] Lo odio per la sua magnanimità […] Stiva dice che lui acconsente a tutto, ma io non posso accettare la sua generosità […]». Rinunzia allora al divorzio onorevole che le è stato proposto e parte con Vronskij e la bambina per l’Italia, lasciando il marito solo col figlio nel loro appartamento.

Aleksej Aleksandrovic non è tuttavia quell’uomo freddo e impassibile che tutti credono; anzi, è un individuo distrutto che soffre intensamente e che resta a fronteggiare questo dolore in una disperazione solitaria: «Sapeva che la gente l’odiava e lo disprezzava perché era infelice. Sapeva che, perché il suo cuore era lacerato, tutti sarebbero stati crudeli con lui. Sapeva che la gente lo avrebbe scacciato, come i cani sono pronti a dilaniare un povero cane che urla di dolore. Sapeva che l’unica difesa contro gli uomini era di nascondere la sua ferita e aveva tentato di farlo per due giorni, ma ora non si sentiva più la forza di prolungare quella lotta disuguale. In tutta Pietroburgo non c’era una sola persona alla quale avrebbe potuto confidare il suo tormento, che l’avrebbe compatito, che avrebbe visto in lui non l’alto funzionario, l’uomo di alta posizione sociale, ma semplicemente un essere umano che soffriva.». è da notare che nel piano originario del romanzo, Karenin avrebbe dovuto essere l’eroe tragico al centro della narrazione mentre Anna avrebbe dovuto rappresentare il personaggio negativo (la «donna rivoltante»). Nelle mani di Tolstoj, poi, la situazione si era capovolta con un’Anna nobilitata e un Karenin trasformato in un burocrate grigio e ottuso. In realtà, io credo che un lieve pulviscolo dorato della primitiva nobile tragicità del personaggio sia rimasto appiccicato su Aleksej Aleksandrovic.

Quest’amore così totalizzante sembra, quindi, un errore. Non dimentichiamo, però, che esistono diversi aforismi che inneggiano all’amore smisurato e senza freni: il poeta latino Properzio Sesto (45-15 a.C.) sosteneva: «Il vero amore non ha mai conosciuto misura». Il romanziere e motteggiatore francese Roger Bussy de Rabutin (1618-1693) scriveva: «Quando non si ama troppo, non si ama abbastanza», mentre il poeta e commediografo francese Paul Geraldy (1885-1983) – che aveva pubblicato nel 1913 la raccolta di poesie d’amore Tu e io si giustificava dicendo: « è perché ti amo troppo, se ti amo così male».


P.S. Il cinema e la televisione hanno amato Anna Karenina. Sono almeno venti le trasposizioni cinematografiche e televisive dal 1911 (film per la regia di Maurice Maître) al 2012 (film diretto da Joe Wright con Keira Knightley, Aaron Johnson e Jude Law). Da ricordare: Love (1927) per la regia di Edmund Goulding con Greta Garbo e i film Anna Karenina di Clarence Brown (1935) con Greta Garbo, di Julien Duvivier (1948) con Vivien Leigh, e di Bernard Rose (1997) con Sophie Marceau. Desidero rammentare anche la stupenda miniserie televisiva italiana del 1974 di Sandro Bolchi con una superba e indimenticabile Lea Massari.



martedì 3 luglio 2012

L'amore malato, Emma Bovary e Gustave Flaubert


Madame Bovary Jennifer Jones      Isabelle Huppert


È possibile sostenere che esiste un amore malato, e questo è vero soprattutto per le donne che talvolta amano troppo e soffrono di una vera e propria pena d’amore. In molte donne, d’altra parte, esiste il mito dell’amore totalizzante (e come tale destinato a dare sofferenza). George Gordon Byron (1788-1824), poeta inglese dalla vita tumultuosa e superbo modello di uomo romantico, aveva scritto: «Per l’uomo l’amore è parte della vita, per la donna amare è tutta l’esistenza».


L’idea che le grandi passioni fossero malattie senza speranza e che l’amore romantico potesse divenire tanto eccessivo da portare alla perdizione totale, ha pervaso molta letteratura amorosa dell’Ottocento. Tutti ricordiamo le tristi vicende d’amore e d’adulterio di Emma Bovary, protagonista dalla vita sregolata del romanzo Madame Bovary (1857) di Gustave Flaubert (1821-1880).

Con riferimento all’amore e al tradimento, è sempre l’illusione quella che tradisce e di ciò Emma Bovary è l’eroina–feticcio: prima del matrimonio aveva creduto veramente di amare il marito ma aveva ottenuto da lui così poca felicità che aveva pensato di essersi sbagliata. Cercando d’immaginare cosa significassero le parole felicità, estasi e passione (che le erano sembrate tanto belle lette nei libri) era passata da un uomo all’altro, senza trovare in nessuno di loro la felicità. Nel suo Dizionario dei personaggi di romanzo (Oscar Saggi, Arnoldo Mondadori Editore, 1989), di Emma Bovary, così scrive Gesualdo Bufalino: «Schiacciata, come schiacciano due battenti, fra la platea brutale di tutti gli Homais della terra e le quinte dipinte e pesanti dei suoi fantasmi di biblioteca, la povera infedele di provincia recita fino alla morte in scena, con arsenico vero, il suo assolo di primadonna. Incarnazione di non so quante creature illuse da una nuvola o da una parola; alter ego dello stesso autore, di cui accusa, dietro il falso marmo della sintassi, gli ardori nascosti e l’invincibile credulità nelle maschere della passione.».

Nel suo romanzo, Flaubert riesce a trasformare un piccolo e indegno dramma borghese in un’alta materia letteraria, dando l’impressione di documentare «la meschinità del matrimonio» e di esaltare «la poesia dell’adulterio». Venne per questo sottoposto a un processo per immoralità che si risolse con l’assoluzione. In realtà, attraverso il romanzo, si fece il processo ai costumi del tempo (considerati sconvenienti), dei quali la storia di Emma era la più realistica testimonianza. Nella sua arringa difensiva, l’avvocato difensore di Flaubert puntualizzò l’attenzione sugli errori della cattiva educazione impartita alle ragazze di provincia (che esaltava le loro anime sognatrici e romantiche) e sul dissidio interiore che impediva loro di cercare la felicità nella propria casa mentre la vagheggiavano al di fuori del vincolo matrimoniale, rimanendo così disilluse sia nel matrimonio sia nell’adulterio. Si richiamò anche al monito nascosto contenuto nel romanzo di trovare nel senso del dovere e nell’imperativo della coscienza e della morale tutte le forze necessarie alla rassegnazione.

Uomo nevrotico e un pessimista totale, Flaubert partecipava poco alla vita letteraria del suo tempo e diceva di scrivere per «incombenza esistenziale». Odiava il mondo borghese (definendosi «uno che sbraita nel deserto della vita») ma odiava soprattutto l’uomo e se stesso: per la sua posizione di rifiuto e per il suo disprezzo dell’umanità, non si sposò mai e non ebbe figli. Si racconta che abbia detto: «Madame Bovary c’est moi (Madame Bovary sono io)»; la cosa è discussa, ma certamente Gustave aveva gli stessi sogni inappagati e vagheggiava gli stessi desideri impossibili di Emma, e identica era la sua insoddisfatta bramosia di vivere che sempre cozzava con un profondo e oscuro senso di noia e col disincanto della sconfitta. All’età di quindici anni, sulla riva del mare di Trouville, Gustave aveva conosciuto Elisa Foucault, una donna bella e intelligente (di undici anni più grande di lui), compagna prima e moglie poi di un importante editore di musica. Nella fantasia adolescenziale di Flaubert Elisa divenne il mito dell’Amore con l’A maiuscola, un sentimento perfetto ma inaccessibile, l’irrepetibile sogno d’amore (simile a quello coltivato da Emma) che gl’ispirò il capolavoro Educazione sentimentale (Education sentimentale) (per i brani trascritti: traduzione di Vladimiro Cajoli, I Giganti di Gulliver, Bologna 1995) con le sue autobiografiche «intermittenze del cuore». Quell’amore lo costrinse a una vita incompiuta. Scriveva: «Nella mia povera vita, così piatta e tranquilla, le frasi sono delle avventure, e io non raccolgo altri fiori che le metafore.». Tentò di combattere quella passione infelice, consolandosi nella difficile relazione sentimentale con Louise Colet, che nel romanzo rappresenterà attraverso il controverso e inappagante rapporto di Federico Moreau con la vivace e mondana Rosanette, in opposizione al sentimento intenso di Federico per Madame Arnoux, la pura e seria moglie di un adultero e indegno mercante d’arte (contemplata da lontano e simile alle donne dei libri romantici). Moreau ama senza speranza e senza secondi fini (in modo assoluto e quasi religioso) una donna che non può corrispondere al suo amore: «La contemplazione di quella donna lo snervava, come un profumo troppo forte. Ne era penetrato sin nel profondo, gli diveniva quasi un modo di sentire, un nuovo modo di vivere […] Tutte le strade conducevano alla casa di lei […] Parigi viveva di lei […] egli si aggirava nel suo desiderio come un prigioniero nella cella […]». Pur convinto che «le passioni straordinarie producono le opere sublimi», la vita di Federico rimane anch’essa mediocre e incompiuta, senza quella felicità che la sua anima agognava, trascinata in una passione inutile che coinvolgeva tutto ciò che aveva a che fare con Madame Arnoux («A forza di sogni l’aveva messa fuori dalla condizione umana»). Dopo molti anni, alla fine, quando Madame Arnoux va a trovare Federico ormai perduto nelle macerie dei suoi sogni (e forse vorrebbe cedergli), lei si toglie il cappello e la lampada illumina improvvisamente i suoi capelli bianchi: «Fu come un urto in pieno petto […] Si sentiva ripreso da un desiderio più forte che mai, furioso, rabbioso. Tuttavia provava qualcosa d’inesprimibile, una repulsione, come il terrore di un incesto. Un altro timore lo arrestò, quello di averne disgusto più tardi […] Per prudenza e per non avvilire il suo ideale si allontanò da lei […]». Quel che Federico aveva avuto di meglio dalla vita (ormai quasi finita) era stato soltanto un sogno evanescente! 

Il tema dell’amore come pena e sofferenza continua è stato affrontato mirabilmente dalla psicoterapeuta americana Robin Norwood nel suo conosciuto saggio – divenuto un best-seller – Donne che amano troppo (presentazione di Dacia Maraini, traduzione di E. Bertoni, Universale Economica Feltrinelli, Roma 1989), scritto per suggerire alcune ricette pratiche per uscire da una grave situazione morbosa. L’autrice, che è preparata nella cura delle tossicodipendenze e dell’alcolismo, partendo da un’esperienza personale di «troppo amore», nel capitolo introduttivo “Amore senza fine” inizia il suo libro con le seguenti parole: «Quando essere innamorate significa soffrire, stiamo amando troppo. […] Quando giustifichiamo i suoi malumori, il suo cattivo carattere, la sua indifferenza, o li consideriamo conseguenze di un’infanzia infelice e cerchiamo di diventare la sua terapista, stiamo amando troppo. […]  Quando non ci piacciono il suo carattere, il suo modo di pensare e il suo comportamento, ma ci adattiamo pensando che se noi saremo abbastanza attraenti e affettuose lui vorrà cambiare per amor nostro, stiamo amando troppo. […] Quando la relazione con lui mette a repentaglio il nostro benessere emotivo, e forse anche la nostra salute e la nostra sicurezza, stiamo decisamente amando troppo. […] Quasi tutte abbiamo amato troppo almeno una volta, e per molte di noi questo è stato un tema ricorrente di tutta la vita. Alcune si sono lasciate ossessionare tanto dal pensiero del loro partner e della loro relazione, da riuscire appena a sopravvivere.». Una donna che ama troppo, spesso, ama in realtà un uomo egoista e freddo, incapace di affetto e calore, che spesso non si cura di lei e che la tradisce di continuo, umiliandola. E lei non riesce a lasciarlo, ma anzi lo desidera sempre di più e gli si dedica sempre di più. Lui diviene per lei simile a una droga. Scrive Robin: «Quanto più il rapporto col nostro uomo ci fa soffrire, tanto più riesce a stordirci. Una relazione travagliata ha per noi semplicemente la stessa funzione di una droga molto forte. […] Troviamo eccitante l’uomo poco equilibrato, l’uomo infido è una sfida irresistibile, l’uomo imprevedibile è romantico, l’immaturo è incantevole, il lunatico è misterioso.». La donna che ama troppo, nel fondo dell’inconscio, diviene dipendente da un uomo di questo tipo e dai suoi contraddittori atteggiamenti; teme l’abbandono perché ha una gran paura di perdere il suo uomo e di restare sola; non ha molta stima di sé e ha la netta sensazione di non essere degna d’amore. Sotto questo profilo, l’«amare troppo» è una vera e propria sindrome psico–patologica (non molto diversa dall’alcolismo e dalla tossicodipendenza), che porta a rapporti tormentati e a comportamenti distruttivi, e come tale deve essere trattata e curata. Bisogna fare in modo che chi ama tanto da soffrire, divenga finalmente una persona che stima di più se stessa e decida di smettere di soffrire non insistendo in questi amori deliranti.

P.S. Il cinema ha amato il personaggio di Emma Bovary e diverse sono state le trasposizioni televisive e cinematografiche. Ricordo le più note e forse meglio riuscite.

Il film Madame Bovary di Vincente Minnelli con un’indimenticabile e bellissima Jennifer Jones e con James Mason, Van Heflin e Louis Jourdan. Hanno commentato Laura, Luisa e Morando Morandini (il Morandini, Zanichelli editore): «Scritto da Robert Andrey, quest’adattamento del famoso romanzo è incorniciato dal processo contro Gustave Flaubert (Mason), accusato di aver offeso la morale. È lui che racconta la storia. Minnelli lo diresse dopo aver letto saggi di Freud, Henry James, Somerset Maugham sul personaggio, concludendo che Emma è una donna che cerca la bellezza, ma la trova soltanto nella sua mente. Ebbe accoglienze contrastate dai critici che, comunque, ne apprezzarono il puntiglio nella rievocazione ambientale, l’eleganza della messinscena e la bella sequenza del ballo.».

L’altro film da ricordare è Madame Bovary di Claude Chabrol con una strepitosa e inquietante Isabelle Huppert e con Lucas Belvaux, Jean-François Balmer, Christophe Malavoy e Jean Janne. Hanno commentato sempre i Morandini: «Dopo il film TV del 1974 con la regia di Pierre Cardinal, è la 4ª versione del capolavoro di Gustave Flaubert, contraddistinta da una scrupolosa fedeltà illustrativa, realizzata con una esposizione spiccia, agile, ellittica che raramente si dispiega in sequenze larghe. Una volta accettata l’impostazione, non si può non ammirarne i modi espressivi, la coerenza, la fluidità e l’intensa interpretazione della Huppert. L’equilibrio tra la lucidità di sguardo di Chabrol (e di Flaubert) e l’affetto per il personaggio (del regista e della sua interprete) sembra impeccabile.».