martedì 3 luglio 2012

L'amore malato, Emma Bovary e Gustave Flaubert


Madame Bovary Jennifer Jones      Isabelle Huppert


È possibile sostenere che esiste un amore malato, e questo è vero soprattutto per le donne che talvolta amano troppo e soffrono di una vera e propria pena d’amore. In molte donne, d’altra parte, esiste il mito dell’amore totalizzante (e come tale destinato a dare sofferenza). George Gordon Byron (1788-1824), poeta inglese dalla vita tumultuosa e superbo modello di uomo romantico, aveva scritto: «Per l’uomo l’amore è parte della vita, per la donna amare è tutta l’esistenza».


L’idea che le grandi passioni fossero malattie senza speranza e che l’amore romantico potesse divenire tanto eccessivo da portare alla perdizione totale, ha pervaso molta letteratura amorosa dell’Ottocento. Tutti ricordiamo le tristi vicende d’amore e d’adulterio di Emma Bovary, protagonista dalla vita sregolata del romanzo Madame Bovary (1857) di Gustave Flaubert (1821-1880).

Con riferimento all’amore e al tradimento, è sempre l’illusione quella che tradisce e di ciò Emma Bovary è l’eroina–feticcio: prima del matrimonio aveva creduto veramente di amare il marito ma aveva ottenuto da lui così poca felicità che aveva pensato di essersi sbagliata. Cercando d’immaginare cosa significassero le parole felicità, estasi e passione (che le erano sembrate tanto belle lette nei libri) era passata da un uomo all’altro, senza trovare in nessuno di loro la felicità. Nel suo Dizionario dei personaggi di romanzo (Oscar Saggi, Arnoldo Mondadori Editore, 1989), di Emma Bovary, così scrive Gesualdo Bufalino: «Schiacciata, come schiacciano due battenti, fra la platea brutale di tutti gli Homais della terra e le quinte dipinte e pesanti dei suoi fantasmi di biblioteca, la povera infedele di provincia recita fino alla morte in scena, con arsenico vero, il suo assolo di primadonna. Incarnazione di non so quante creature illuse da una nuvola o da una parola; alter ego dello stesso autore, di cui accusa, dietro il falso marmo della sintassi, gli ardori nascosti e l’invincibile credulità nelle maschere della passione.».

Nel suo romanzo, Flaubert riesce a trasformare un piccolo e indegno dramma borghese in un’alta materia letteraria, dando l’impressione di documentare «la meschinità del matrimonio» e di esaltare «la poesia dell’adulterio». Venne per questo sottoposto a un processo per immoralità che si risolse con l’assoluzione. In realtà, attraverso il romanzo, si fece il processo ai costumi del tempo (considerati sconvenienti), dei quali la storia di Emma era la più realistica testimonianza. Nella sua arringa difensiva, l’avvocato difensore di Flaubert puntualizzò l’attenzione sugli errori della cattiva educazione impartita alle ragazze di provincia (che esaltava le loro anime sognatrici e romantiche) e sul dissidio interiore che impediva loro di cercare la felicità nella propria casa mentre la vagheggiavano al di fuori del vincolo matrimoniale, rimanendo così disilluse sia nel matrimonio sia nell’adulterio. Si richiamò anche al monito nascosto contenuto nel romanzo di trovare nel senso del dovere e nell’imperativo della coscienza e della morale tutte le forze necessarie alla rassegnazione.

Uomo nevrotico e un pessimista totale, Flaubert partecipava poco alla vita letteraria del suo tempo e diceva di scrivere per «incombenza esistenziale». Odiava il mondo borghese (definendosi «uno che sbraita nel deserto della vita») ma odiava soprattutto l’uomo e se stesso: per la sua posizione di rifiuto e per il suo disprezzo dell’umanità, non si sposò mai e non ebbe figli. Si racconta che abbia detto: «Madame Bovary c’est moi (Madame Bovary sono io)»; la cosa è discussa, ma certamente Gustave aveva gli stessi sogni inappagati e vagheggiava gli stessi desideri impossibili di Emma, e identica era la sua insoddisfatta bramosia di vivere che sempre cozzava con un profondo e oscuro senso di noia e col disincanto della sconfitta. All’età di quindici anni, sulla riva del mare di Trouville, Gustave aveva conosciuto Elisa Foucault, una donna bella e intelligente (di undici anni più grande di lui), compagna prima e moglie poi di un importante editore di musica. Nella fantasia adolescenziale di Flaubert Elisa divenne il mito dell’Amore con l’A maiuscola, un sentimento perfetto ma inaccessibile, l’irrepetibile sogno d’amore (simile a quello coltivato da Emma) che gl’ispirò il capolavoro Educazione sentimentale (Education sentimentale) (per i brani trascritti: traduzione di Vladimiro Cajoli, I Giganti di Gulliver, Bologna 1995) con le sue autobiografiche «intermittenze del cuore». Quell’amore lo costrinse a una vita incompiuta. Scriveva: «Nella mia povera vita, così piatta e tranquilla, le frasi sono delle avventure, e io non raccolgo altri fiori che le metafore.». Tentò di combattere quella passione infelice, consolandosi nella difficile relazione sentimentale con Louise Colet, che nel romanzo rappresenterà attraverso il controverso e inappagante rapporto di Federico Moreau con la vivace e mondana Rosanette, in opposizione al sentimento intenso di Federico per Madame Arnoux, la pura e seria moglie di un adultero e indegno mercante d’arte (contemplata da lontano e simile alle donne dei libri romantici). Moreau ama senza speranza e senza secondi fini (in modo assoluto e quasi religioso) una donna che non può corrispondere al suo amore: «La contemplazione di quella donna lo snervava, come un profumo troppo forte. Ne era penetrato sin nel profondo, gli diveniva quasi un modo di sentire, un nuovo modo di vivere […] Tutte le strade conducevano alla casa di lei […] Parigi viveva di lei […] egli si aggirava nel suo desiderio come un prigioniero nella cella […]». Pur convinto che «le passioni straordinarie producono le opere sublimi», la vita di Federico rimane anch’essa mediocre e incompiuta, senza quella felicità che la sua anima agognava, trascinata in una passione inutile che coinvolgeva tutto ciò che aveva a che fare con Madame Arnoux («A forza di sogni l’aveva messa fuori dalla condizione umana»). Dopo molti anni, alla fine, quando Madame Arnoux va a trovare Federico ormai perduto nelle macerie dei suoi sogni (e forse vorrebbe cedergli), lei si toglie il cappello e la lampada illumina improvvisamente i suoi capelli bianchi: «Fu come un urto in pieno petto […] Si sentiva ripreso da un desiderio più forte che mai, furioso, rabbioso. Tuttavia provava qualcosa d’inesprimibile, una repulsione, come il terrore di un incesto. Un altro timore lo arrestò, quello di averne disgusto più tardi […] Per prudenza e per non avvilire il suo ideale si allontanò da lei […]». Quel che Federico aveva avuto di meglio dalla vita (ormai quasi finita) era stato soltanto un sogno evanescente! 

Il tema dell’amore come pena e sofferenza continua è stato affrontato mirabilmente dalla psicoterapeuta americana Robin Norwood nel suo conosciuto saggio – divenuto un best-seller – Donne che amano troppo (presentazione di Dacia Maraini, traduzione di E. Bertoni, Universale Economica Feltrinelli, Roma 1989), scritto per suggerire alcune ricette pratiche per uscire da una grave situazione morbosa. L’autrice, che è preparata nella cura delle tossicodipendenze e dell’alcolismo, partendo da un’esperienza personale di «troppo amore», nel capitolo introduttivo “Amore senza fine” inizia il suo libro con le seguenti parole: «Quando essere innamorate significa soffrire, stiamo amando troppo. […] Quando giustifichiamo i suoi malumori, il suo cattivo carattere, la sua indifferenza, o li consideriamo conseguenze di un’infanzia infelice e cerchiamo di diventare la sua terapista, stiamo amando troppo. […]  Quando non ci piacciono il suo carattere, il suo modo di pensare e il suo comportamento, ma ci adattiamo pensando che se noi saremo abbastanza attraenti e affettuose lui vorrà cambiare per amor nostro, stiamo amando troppo. […] Quando la relazione con lui mette a repentaglio il nostro benessere emotivo, e forse anche la nostra salute e la nostra sicurezza, stiamo decisamente amando troppo. […] Quasi tutte abbiamo amato troppo almeno una volta, e per molte di noi questo è stato un tema ricorrente di tutta la vita. Alcune si sono lasciate ossessionare tanto dal pensiero del loro partner e della loro relazione, da riuscire appena a sopravvivere.». Una donna che ama troppo, spesso, ama in realtà un uomo egoista e freddo, incapace di affetto e calore, che spesso non si cura di lei e che la tradisce di continuo, umiliandola. E lei non riesce a lasciarlo, ma anzi lo desidera sempre di più e gli si dedica sempre di più. Lui diviene per lei simile a una droga. Scrive Robin: «Quanto più il rapporto col nostro uomo ci fa soffrire, tanto più riesce a stordirci. Una relazione travagliata ha per noi semplicemente la stessa funzione di una droga molto forte. […] Troviamo eccitante l’uomo poco equilibrato, l’uomo infido è una sfida irresistibile, l’uomo imprevedibile è romantico, l’immaturo è incantevole, il lunatico è misterioso.». La donna che ama troppo, nel fondo dell’inconscio, diviene dipendente da un uomo di questo tipo e dai suoi contraddittori atteggiamenti; teme l’abbandono perché ha una gran paura di perdere il suo uomo e di restare sola; non ha molta stima di sé e ha la netta sensazione di non essere degna d’amore. Sotto questo profilo, l’«amare troppo» è una vera e propria sindrome psico–patologica (non molto diversa dall’alcolismo e dalla tossicodipendenza), che porta a rapporti tormentati e a comportamenti distruttivi, e come tale deve essere trattata e curata. Bisogna fare in modo che chi ama tanto da soffrire, divenga finalmente una persona che stima di più se stessa e decida di smettere di soffrire non insistendo in questi amori deliranti.

P.S. Il cinema ha amato il personaggio di Emma Bovary e diverse sono state le trasposizioni televisive e cinematografiche. Ricordo le più note e forse meglio riuscite.

Il film Madame Bovary di Vincente Minnelli con un’indimenticabile e bellissima Jennifer Jones e con James Mason, Van Heflin e Louis Jourdan. Hanno commentato Laura, Luisa e Morando Morandini (il Morandini, Zanichelli editore): «Scritto da Robert Andrey, quest’adattamento del famoso romanzo è incorniciato dal processo contro Gustave Flaubert (Mason), accusato di aver offeso la morale. È lui che racconta la storia. Minnelli lo diresse dopo aver letto saggi di Freud, Henry James, Somerset Maugham sul personaggio, concludendo che Emma è una donna che cerca la bellezza, ma la trova soltanto nella sua mente. Ebbe accoglienze contrastate dai critici che, comunque, ne apprezzarono il puntiglio nella rievocazione ambientale, l’eleganza della messinscena e la bella sequenza del ballo.».

L’altro film da ricordare è Madame Bovary di Claude Chabrol con una strepitosa e inquietante Isabelle Huppert e con Lucas Belvaux, Jean-François Balmer, Christophe Malavoy e Jean Janne. Hanno commentato sempre i Morandini: «Dopo il film TV del 1974 con la regia di Pierre Cardinal, è la 4ª versione del capolavoro di Gustave Flaubert, contraddistinta da una scrupolosa fedeltà illustrativa, realizzata con una esposizione spiccia, agile, ellittica che raramente si dispiega in sequenze larghe. Una volta accettata l’impostazione, non si può non ammirarne i modi espressivi, la coerenza, la fluidità e l’intensa interpretazione della Huppert. L’equilibrio tra la lucidità di sguardo di Chabrol (e di Flaubert) e l’affetto per il personaggio (del regista e della sua interprete) sembra impeccabile.».

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