domenica 26 agosto 2012

Anniversario del blog: Riflessione sulla lettura e sulla critica letteraria


Virginia Woolf                            Jean Starobinski


Nel primo anniversario del mio blog desidero abbandonarmi a una riflessione. Per anni ho espletato un mestiere duro che esigeva un animo duro (sono stata un medico universitario con attività sul campo, in ospedale), ma ho saputo mantenere sempre un nucleo tenero e vulnerabile. è accaduto, poi, che – in un momento di crisi – è prevalso il desiderio di un cambiamento, di uno strappo improvviso. Al di fuori della polvere delle biblioteche e dei paludamenti eruditi dell’accademia, mi sono lasciata guidare – da lettrice entusiasta – dal piacere di condividere con altri lettori il gusto di leggere e di commentare quelle che sono parole eterne, dense di significato nascosto e di valenza universale. Avendo sviluppato di più il talento della sensibilità rispetto a quello della tecnica dell’analisi critica, credo che la mancanza di una rigida sovrastruttura culturale mi abbia aiutato – e mi aiuti – a evitare gli eccessi del critico di professione, che spesso liquida impietosamente tutto ciò che non ama o che non gli piace, e che mi consenta di esprimere in modo più semplice e diretto un giudizio individuale indipendente, entrando nel cuore delle sensazioni e dei sentimenti.

Nel suo saggio Come dobbiamo leggere un libro (traduzione di Livio Bacchi Wilcock e J. Rodolfo Wilcock, I Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1998), la grande scrittrice e critica inglese Virginia Woolf (1882-1941) – un mio mito – rivendica lo spirito di libertà e l’indipendenza, quali importanti qualità del lettore, che non deve riconoscere alcuna autorità che possa imporgli come leggere o cosa leggere. La Woolf così scrive: «il solo consiglio che si può dare sulla lettura è quello di non seguire nessun consiglio, bensì il proprio istinto; fare uso della propria ragione, trarre le proprie conclusioni. […] Non date ordini al vostro scrittore; cercate di diventare lui stesso. Siate il suo compagno di lavoro e il suo complice. […] la letteratura è un’arte molto complessa […] Dobbiamo restare lettori; non saremo mai investiti dall’addizionale gloria spettante a quegli esseri eletti che oltre a essere lettori sono critici.».

Sempre Virginia Woolf, nel saggio Una stanza tutta per sé (traduzione di Maria Antonietta Saracino, I Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1998), ha scritto: «un libro dobbiamo leggerlo come se fosse l’ultimo volume di una serie molto lunga […] perché i libri sono la continuazione l’uno dell’altro, nonostante la nostra abitudine a giudicarli separatamente». Accennando a «quei poeti dimenticati i quali aprirono la strada e domarono la naturale primitività della lingua», la grande scrittrice aggiungeva: «i capolavori non sono nascite isolate e solitarie; essi sono il risultato di molti anni di un pensare comune, di pensare avendo accanto a sé la gran parte del popolo, sì che l’esperienza della massa si nasconde dietro quella singola voce». Contemporaneamente, la Woolf convinta che il carattere umano fosse mutato e che il tradizionale romanzo realista dell’Ottocento non fosse più adeguato a rappresentare la mutata umanità del Novecento si rivolgeva, con senso di ribellione, all’innovazione del «monologo interiore» e del «flusso di coscienza», ai quali seppe conferire una specificità tutta femminile.

Il poeta anglo–americano Wystan Hugh Auden (1907-1973), uno dei più grandi poeti del 20° secolo, in un suo saggio sosteneva che «la critica dovrebbe essere una conversazione informale» e per godere di una lettura «il piacere è ben lungi dall’essere una guida critica infallibile: è però la cosa meno ingannevole». Sono anch’io convinta che esista un’oggettività della bellezza di un testo e della grandezza di un autore senza tempo che prescinda da qualsiasi valutazione personale.

Provo sempre un vero piacere nel segnalare le più belle pagine della letteratura antica e moderna, ricordandole agli altri e tentando la massima semplificazione possibile, allo scopo di far sì che la citazione antologica rappresenti, oltre che un evento culturale, anche un possibile motivo di svago intellettuale. E mi piace guidare l’attenzione sulla biografia di un autore, andando alla ricerca del come ciascun artista si è ritagliata la sua fetta di vita e avendo cura di raccontare soprattutto gli aspetti più familiari e intimi (fornendo notizie, ove possibile, sulla sua vita sentimentale). Credo che ciò valga anche per gli scrittori o i poeti più antichi – le lontane voci degli antenati ancora vive e attuali – per quelli che possiamo considerare emblematici del tempo in cui hanno vissuto (i veri e propri “classici”, in senso etimologico).

E mi piace anche andare alla ricerca di un dipinto o di un’immagine fotografica per avvicinare ancor di più l’autore al lettore, rendendo familiari visi ed espressioni dei protagonisti della cultura, che così diventano come amici amati e conosciuti. Con le immagini – molte delle quali sono spesso primordiali fotografie – spero di riuscire a evocare ambienti e atmosfere, contestualizzando gli autori (produttori di storia e cultura) nella società in cui vivevano. Sono certa, così, di accontentare anche la bramosa curiosità di quei lettori che spesso non conoscono aspetto e lineamenti dei grandi di cui amano le parole.

Spesso mi perdo beatamente nel citare i brani dei quei grandi autori che, quando parlano di sé o dei loro amori, in fondo non hanno fatto che parlare di quel che siamo noi, di raccontare i nostri amori, di esprimere i nostri sentimenti e le nostre identità, di narrare le nostre vite! Leggere i classici – oggi colpevolmente trascurati – significa intraprendere una lunga stupenda passeggiata per i sentieri della cultura, un indimenticabile viaggio della memoria e dei sentimenti. Naturalmente nella scelta dei brani di un grande capolavoro ci sono dei grossi limiti. A proposito della selezione antologica, nel suo Dizionario dei personaggi di romanzo (Oscar Saggi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1989), Gesualdo Bufalino (1920-1996), con feroce ironia, scriveva: «Come ogni appassionato di squartamenti – tigre ircana o critico strutturalista il compilatore di antologie è un individuo nocivo, da fidarsene poco. Di lingua subdola, di mano spiccia, di smisurata superbia, egli meriterebbe il bando dalle pubbliche biblioteche, se la sua opera non si rivelasse provvidenziale nelle emergenze di apocalisse prossima ventura […]». Aggiunge anche: «Toccherà infine al lettore, se Dio vuole, giustificare manomissioni così disinvolte […]». Spero, pertanto, che anche il mio amato lettore sia abbastanza indulgente nei miei confronti per gli involontari stravolgimenti e le possibili manomissioni che nascono da un approccio molto individuale e dal fatto che – sfogliando i tanti libri della mia biblioteca talora logorati dalla lettura, più spesso impolverati dall’oblio (secoli e secoli di gran letteratura) – scelgo sempre e soltanto i brani che più mi piacciono, i quali potrebbero non essere necessariamente né i migliori da un punto di vista letterario, né i più significativi da un punto di vista della critica letteraria, né tanto meno i più amati dagli autori. è questo il motivo, serio e comprensibilissimo, per il quale alcuni autori odiano le antologie e i loro preparatori, e non cedono mai i diritti d’autore per parti tratte dai loro libri da pubblicare in antologie.

Nell’incipit del suo Blade Runner intitolato “Libertà [di] critica” e dedicato al grande critico triestino Callisto Cosulich, per il compimento dei suoi novant’anni (TV Film, 20, n. 27, 2012), ha scritto Ilaria Feole: «Cosa fa un critico? Analizza, scompone, decifra, confronta, trova chiavi di lettura. Per chi lo fa? La domanda è più spinosa e meno scontata: il sospetto che lo faccia per una ristretta cerchia di addetti ai lavori, a volte così stretta da comprendere esclusivamente se stesso, coglie forse troppo spesso il lettore di critica cinematografica. Non sorge quel dubbio, sfogliando le pagine della carriera sconfinata del nostro Callisto Cosulich, un critico che fa il critico per gli spettatori.». Spero caldamente che un giorno, questo possa dirsi anche per me e per i miei articoli!

Concludendo, con questi miei testi di critica (che quasi sempre guardano alla grande letteratura – che col suo retaggio culturale ha il potere di formare gli uomini mettendoli a contatto col mondo degli altri e che è vita e nutrimento delle anime – e ai suoi riflessi nel cinema e nello spettacolo in genere), ho tentato – e tento – di affrontare in maniera lieve degli argomenti difficili, usando quello sguardo scientifico al quale sono abituata. D’altra parte, tra la ricerca scientifica e la critica letteraria esistono certamente molti punti in comune, perché in entrambe si ricercano e si riportano alla superficie delle verità nascoste. Sotto questo profilo, non posso fare a meno di ricordare Jean Starobinski (1920-), grande filosofo e critico letterario ginevrino, uno degli ultimi umanisti e un padre della “nouvelle critique”, conosciuto per Jean Jacques Rousseau: La transparence et l’obstacle (Gallimard, Parigi 1957), che – guarda caso – ha una laurea in Lettere e una in Medicina (ha insegnato presso la Johns Hopkins University di Baltimora e le Università di Basilea e Ginevra). Nel metodo critico, Starobinski unisce gli strumenti dell’arte a quelli della scienza, della musica e della linguistica, applicando un originale procedimento che consiste nel creare un rapporto relazionale dialettico tra l’esperienza soggettiva e la spontaneità del soggetto, da una parte, e lo spazio letterario e la resistenza dell’opera d’arte, dall’altra. Pur provando emozioni e pur subendo il fascino dell’opera letteraria, il soggetto – nella sua piena consapevolezza critica e nell’uso esperto e sapiente di tutti i suoi strumenti critici – deve rimanere equilibrato e distante tanto da poter cogliere la struttura dell’opera e la sua profondità. è come un pendolo in continua oscillazione, che deve sapere allontanarsi ma anche avvicinarsi per cogliere sia i dettagli sia l’intreccio di simboli e d’idee con i quali s’esprime il pensiero di un autore.

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