lunedì 20 agosto 2012

Elsa Morante e La Storia, l'Odissea del popolo delle borgate



Elsa Morante


Nel 1974 uscì La Storia, vera “Magnum Opus” di Elsa Morante, che racconta la vita, la passione e la morte di una madre e dei suoi due figli e che la lanciò alla fama internazionale, pur nel mezzo di polemiche, pregiudizi, critiche e fraintendimenti (denunciava «la falsa rappresentazione, che la società ordinata si dà nella storia»). A questo romanzo, che richiese tre anni di duro lavoro (dal 1971 al 1974), Elsa Morante «consegnò la massima esperienza della sua vita “dentro la Storia” quasi a spiegamento totale di tutte le sue precedenti esperienze narrative» (descrizione volume Einaudi, Torino 1974). Il romanzo vendette oltre seicentomila copie ma è oggi forse purtroppo alquanto dimenticato.

L'autrice Elsa Morante aveva voluto che il testo fosse scritto volutamente in un linguaggio apparentemente comune e accessibile a tutti, proprio per sottolineare la quotidianità e l'universalità delle vicende narrate (in effetti la lingua è raffinatissima); volle anche che fosse dato alle stampe in edizione tascabile, perché più facilmente fruibile alle masse. Ambientato in una Roma devastata, durante la seconda guerra mondiale e nell'immediato dopoguerra (tra il 1941 e il 1947), è un affresco corale sugli episodi della guerra, visti soggettivamente da ciascuno dei protagonisti, costretti a barcamenarsi tra vecchi problemi e altre angosce derivate da quei nuovi e tragici avvenimenti, e descritti con un disincantato realismo filtrato da un lirismo poetico e visionario.

Il romanzo inizia così: «Un giorno di gennaio dell'anno 1941, un soldato tedesco di passaggio, godendo di un pomeriggio di libertà, si trovava, solo, a girovagare nel quartiere di San Lorenzo, a Roma. Erano circa le due del dopopranzo, e a quell'ora, come d'uso, poca gente circolava per le strade.». Durante la sua ricerca di un bordello, quel soldato tedesco di nome Gunther incontra Ida Ramundo vedova Mancuso (detta Iduzza) – maestra trentasettenne di origini ebraiche e madre del quindicenne Nino (detto anche Ninnuzzo o Ninnarieddu) – e la violenta. Da quella violenza nascerà Giuseppe, soprannominato “Useppe” («I capelli del neonato, tutti a ciuffetti, che parevano piume, erano neri. Ma come lasciò vedere un poco degli occhi, Ida riconobbe quel colore turchino del suo scandalo. Il loro colore assolutamente riproduceva quell'altro turchino che non pareva nato dalla terra ma dal mare.»). Il fratellino è molto amato da Nino, che è un ragazzino ardimentoso e spavaldo, esuberante e sfrontato, di fervida fede fascista (ma diverrà poi partigiano comunista col soprannome di Assodicuori e infine contrabbandiere). Tra i due fratelli si stabilisce una stupenda relazione fraterna e Useppe, creatura gioiosa e allegra, porta gioia e allegria nella misera vita di Ida e Nino. Un bombardamento lascia la famiglia senza casa e costretta a vagabondare per domicili estranei, pieni di sfollati e d'interessanti personaggi (si ritrovano inizialmente a Pietralata in un rifugio per i senza tetto). Dopo un periodo di assenza, Nino ritorna all'improvviso con un partigiano non violento di nome Carlo Vivaldi (che altri non è, che l'ebreo Davide Segre), un giovane bolognese, stanco e scostante, affaticato e scortese, amante della vita solitaria e per nulla interessato ai suoi coinquilini. L'epilessia di Useppe e la morte di Nino per un incidente stradale, dopo un inseguimento con la polizia, minano sempre di più la salute psichica di Ida. Intanto David Segre è ritornato a Roma, malato e tossicodipendente, e vive nella baracca di una vecchia prostituta e cartomante uccisa dal suo giovane magnaccia; diviene grande amico di Useppe ma un giorno verrà trovato morto ucciso da una «iperdose» di morfina. Ida crollerà definitivamente a causa della morte di Useppe, durante l'ultimo fatale attacco epilettico, e resterà a vegliare il suo corpo, immobile per ore. Ricoverata in un ospedale psichiatrico, Iduzza morirà nove anni dopo.

Ha scritto Francesco Troiano: «Quest'ultimo argomento – il rifiuto della “storia ufficiale”, l'aperto parteggiare per gli umiliati e offesi – caratterizza pure “La Storia”, l'opera sua di maggior successo, in virtù d'un linguaggio piano e semplice e di una trama – le vicende d'una famigliola romana durante la tragedia del secondo conflitto mondiale – coinvolgente, con qualche concessione al populismo.». (http://www.italica.rai.it/argomenti/grandi_narratori_900/morante/bibliografia.htm):

In una lettera scritta il 16 maggio del 1975 da Anna Maria Ortese a Elsa Morante, per congratularsi del suo libro, la scrittrice scriveva così: «Cara Elsa Morante, un mese fa ho letto La Storia. Ho esitato a scriverLe, non sapendo se Lei ha di me stima umana. Penso che una lode possa valere solo in questo caso. […] Alla fine ho letto La Storia, e sono andata avanti tutta la notte, e poi il giorno dopo, e poi un altro giorno. Ero sbalordita. Si aprivano dovunque i cieli della più grande tradizione italiana. Con un dolore più vicino. Dopo il primo giorno mi è accaduto questo: non avevo più memoria di tutte le cose – anche immense – finora lette. Ancor meno mi ricordavo di me. Pensavo – seguendo la disperazione senza luce di soccorso della madre di Ida: qui siamo tutti – è detto tutto. È resa giustizia a tutti noi che fuggiamo. – Quando dico noi, dico un'umanità, semplicemente. La grazia e purezza del bambino! Ma Nino, poi, quando torna – morto nel pensiero della madre – e non vuole morire, è immenso. Qui tornava quella prima sensazione “è stata resa giustizia”.Voglio ricordare qua e là, di questo VIVENTE libro, la luce in cui si muove – colorando le strade, la gioia di Useppe. I piccoli interni familiari. La polvere povera, tutta voci. I rossi orrori che accadono all’uomo, di epoca in epoca. Quando il libro è finito, resta il senso dell'epoca. Siamo un po' cambiati. Della letteratura non ci ricordiamo, e questo è bene. Ma sì del dolore umano. E questo dolore, che è intramontabile, diviene l'ombra che va avanti, la musica funebre della gioia che finì, ma in eterno porrà quesiti alla ragione. Non so di strutture e di altro. So di emozioni. Queste sole dicono che in un racconto, o in una letteratura, è passata la vita. E solo la vita – a umiliazione dei critici – è forma.».

Si è osservato che La Storia racconta: «l'odissea bellica dell'Italia e del mondo riflessa nell'umile microcosmo d'una famigliola romana, composta da una donna spaurita e immatura, da un ragazzotto, da un bambino e da un paio di cani» (La nuova Enciclopedia della Letteratura, Garzanti, 1985). A proposito di cani, come dimenticare Blitz, cane di nessuno, bastardino con il magico disegno di una stella sulla rosea pancia, che è la metà dell’anima di Nino il ragazzetto che lo ha raccolto, il figlio di Iduzza, che vedova e senza un nuovo marito ha partorito colpevolmente in secondo figlio, Useppe che resta in casa quasi recluso, a eccezione delle visite che riceve da parte dei numerosi ragazzini che Nino porta a casa per far conoscere loro il suo fratellino bastardo (del quale non si vergogna per nulla). è Nino che porta a casa il cane Blitz e Useppe «Nella sua precocità, aveva presto imparato a camminare per la casa sulle ginocchia e sulle mani, a imitazione di Blitz, che forse fu il suo maestro.». Amato da Nino e Giuseppe, Blitz riama pazzamente entrambi, ballando per salutare, leccando per baciare e ridendo con il muso e con la coda. E Blitz deve dividersi tra questi due suoi amori, rimbalzando insensatamente da casa a scuola, e viceversa, a seconda dell'acuta nostalgia di Giuseppe o Nino, e viceversa. Blitz morirà nel tremendo bombardamento che distruggerà, oltre a tutto quanto il resto, la misera casa di Iduzza a San Lorenzo. Quasi alla fine del romanzo, nell'agosto del 1946, Nino si trasferisce per qualche giorno nell'appartamento della madre, preso recentemente in affitto, e porta con sé un altro straordinario animale, la cagna da pastore Bella «Pelozozzo», che ha ritrovato la strada di casa dopo la morte del padrone; a lei Ida affida Useppe durante le sue ore di lavoro. Svolgendo un ottimo ruolo protettivo, la cagna Bella diviene quasi una seconda madre e l'amica degli ultimi giorni di Useppe (resterà con lui sino alla fine della narrazione). Durante tutta la primavera e l'estate del 1947, Useppe e Bella passano al tempo a “pazziare” per le vie di Roma e lungo il Tevere, ove in un rifugio segreto trasformato in una sorta di dimora fantastica, la «tenda d'alberi», conoscono e incontrano il giovanissimo Pietro Scimò scappato dal riformatorio, che diverrà il grande amico di Useppe e col quale il piccolo vivrà le sue ultime avventure. Nel romanzo Elsa scriveva: «Gli animali, come tutti i paria, sono talora ispirati da un genio quasi divino…».

è stato scritto ancora: «Accusato di ripristinare anacronisticamente messaggi poetico– consolatori, il romanzo esplicita invece uno “scandaloso” rifiuto della storia, opponendo problematicamente il mondo “fanciullo e “povero” a un mondo fittizio generatore di morte e di scempi.» (La nuova Enciclopedia della Letteratura, Garzanti, 1985). Nel romanzo la scrittrice osservava: «La Storia, si capisce, è tutta un'oscenità fino dal principio.».

Si è anche scritto: «La rivolta anarchica e populistica contro le trame della Storia di cui gli umili sono inconsapevoli vittime ispira l'ambizioso progetto del romanzo La Storia (1974), con cui la Morante spinge la ormai obsoleta poetica del neorealismo ai suoi forse prevedibili effetti melodrammatici, suscitando, oltre a vivaci polemiche, un enorme interesse di pubblico.» 
(http://www.treccani.it/enciclopedia/elsa-morante/).

Ha scritto Silvia Avallone – che in occasione del centenario della nascita di Elsa Morante ha partecipato alla giornata d'incontri e di proiezioni dedicata alla grande scrittrice romana (in particolare sulle versioni cinematografiche dei suoi romanzi più celebri), promossa dal Gruppo toscano del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani insieme alla Regione Toscana e a Odeon Firenze – ha scritto che La Storia è stato un «romanzo incandescente» che non ha  potuto rimanere chiuso nella carta, per raggiungere migliaia di famiglie, centinaia di librerie, e mille e mille «ragazzetti freschi di Sessantotto», un pubblico veramente enorme. «E poi, dopo tutto quel clamore del '74, è stato abrogato. È sceso il silenzio, come se fosse un romanzo proibito.» Osserva l'Avallone che La Storia è stato il libro più frainteso di Elsa Morante ma quello di cui la gente ha più bisogno; per Silvia, La Storia è «la testimonianza più coraggiosa di fiducia nel potere della parola letteraria» di tutto il Novecento italiano da lei conosciuto. Ha aggiunto di non poter nascondere di essere orgogliosa che sia stata una donna a scrivere un tale romanzo. «La Storia è una cronaca che ribalta la cronaca»; essa vuol rinnegare il linguaggio dei mass–media (che sta al di fuori della realtà), restituendo alle vite – «quelle più insignificanti» – dignità e mistero. Il romanzo provocò arroventate polemiche del 1974, ma nel 2012: «la Storia assassina ci appare sconfitta dalla bellezza di queste vite che hanno attraversato il tempo. Sono le nostre vite, è la nostra piccola, indifesa, quotidianità.». Rileva la giovane scrittrice che, per un lettore della sua età, La Storia è anche «una testimonianza senza retorica di cosa hanno dovuto affrontare i nostri nonni», che ci fa esser invidiosi di quell'umanità che di fronte alla minaccia e alla tragedia collettiva seppe divenire operosa e solidale, sfoderando risorse inaspettate: «Elsa Morante lo aveva già capito: il vero orrore non si nasconde nell'eccezionalità del tempo di guerra, ma nella normalità del tempo di pace.». Annota l'Avallone che il romanzo ci restituisce non tanto la cronaca, quanto la verità degli orrori tremendi della guerra, ma soprattutto «l'irriducibile vittoria della vita» in quanto nel romanzo la vita la vince pur nella morte di tutti i suoi protagonisti: «Chiudiamo il libro e ci sentiamo invasi di tenerezza e d'indignazione. E vorremmo fare qualcosa, offrire il nostro contributo.». In questo modo, La Storia riesce ad andare al di là delle pagine stampate per muoversi fuori nel mondo: «Questo è il genere di miracoli o stregonerie che Elsa Morante è stata capace di fare.» (http://lettura.corriere.it/la-mia-elsa-morante-incendiaria/).

Nel 1986, sotto la sapiente regia di Luigi Comencini, dal romanzo fu tratto l'omonima miniserie TV, sceneggiata da Cristina Comencini e da Suso Cecchi D'Amico, che raccontò di lei: «A un certo punto Moravia cominciò a portare a casa di mio padre Elsa Morante. Non era bella, ma curiosa, intrigante. Aveva una singolare voce acuta, i denti davanti molto aperti; ricordava non saprei quale animale. […] fu la guerra a dividerci.». Interpretato da una sensibile e matura Claudia Cardinale nel ruolo di Ida, vi recitavano anche Lambert Wilson, Francisco Rabal, Fiorenzo Fiorentini e il piccolo Andrea Spada. Una versione più breve è stata preparata per la rappresentazione cinematografica. La critica si è abbastanza divisa sulle qualità del film: gli è stato riconosciuto l'impegno civile che non ha sempre compensato, però, l'ineguale aderenza al tema narrativo e la sua incapacità di rendere al meglio la quotidianità e l'universalità delle storie narrate nella pagina scritta.

Nel 2009 è uscito il film pasoliniano di Gioberto Pignatelli, Santina, girato in colore e bianco/nero con inserti di animazione bidimensionale che lo rendono particolarmente onirico e visionario, e interpretato da Monica Perozzi (Santina), Diego Guerra (Nello) e Iaia Forte (in una breve apparizione nel ruolo della madre del ragazzo). Gioberto Pignatelli – un trentaduenne romano, autodidatta, che è stato in concorso al Torino Film Festival con Soap –, ha tratto liberamente la sceneggiatura del suo film ultraindipendente da quel capitolo del romanzo La Storia che racconta la tragica relazione tra la matura puttana e cartomante Santina (una donna sui quarant'anni, brutta e menomata per un'amputazione chirurgica di un seno, con un corpo vecchio e sgraziato) e il suo giovane e violento sfruttatore Nello, che finisce per assassinarla nella lurida baracca del Portuense ove si prostituisce per poche lire, in mezzo ai quadri del Sacro Cuore di Gesù (Nello sgozza Santina, senza pietà, con un paio di forbici). Qualche mese dopo, Davide Segre (Matteo Lolli), un ebreo ritornato a Roma che aveva conosciuto la prostituta, prende in affitto il misero stanzone di Santina che porta ancora le impronte tremende del delitto e che mostra le tracce della squallida vita della «puttana». L'ambizioso ma scarno film è costato appena cinquantamila euro ma non ha trovato ancora un distributore. Il progetto del giovane autore sarebbe di proseguire ulteriormente con le versioni cinematografiche di altre vicende tratte da La Storia: questa serie di piccoli film dovrebbe essere intitolata «cristomangiaeva»
(vedere:http://news.cinecitta.com/dossier/articolo.asp?id=7434 e http://www.doppioschermo.it/recensioni/item/4678-santina.html).

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