domenica 19 agosto 2012

Elsa Morante e L'isola di Arturo, romanzo incantato e dolente


Elsa Morante


L'isola di Arturo, pubblicato nel 1957 con notevole successo di pubblico e di critica, vinse il Premio Strega. Deve considerarsi il primo grande e indimenticabile capolavoro letterario di Elsa Morante.

è la storia di un ragazzo che vive segregato in un'isola immobile e solitaria (sembra al di fuori del mondo e sospesa nel sogno), all'ombra di un inquietante penitenziario, tra incanto magico e mito che diviene esistenza viva, e della sua difficile maturazione con le prime scoperte della sessualità (con qualche punta di ambiguità omosessuale). Egli è orgoglioso del suo nome: «Uno dei miei primi vanti era stato il mio nome. Avevo presto imparato (fu lui, mi sembra, il primo ad informarmene), che Arturo è una stella: la luce più rapida e radiosa della figura di Boote, nel cielo boreale! E che inoltre questo nome fu portato da un re dell'antichità, comandante a una schiera di fedeli: i quali erano tutti eroi, come il loro re stesso, e dal loro re trattati alla pari, come fratelli.» (è questo l'incipit del libro).

è il 1938, e Arturo Gerace ha quindici anni ed è un ragazzo pieno di vitalità che vive un'esistenza solitaria mitizzando entrambi i genitori in una confusione d'istinti e sentimenti. è
nato nell'isola di Procida e ha vissuto lì la sua infanzia e la sua adolescenza, sognando il resto del mondo come una leggenda e passando il tempo a leggere di «eccellenti condottieri» e progettando viaggi futuri alla ricerca del padre Wilhelm, che vive lontano facendo soltanto rare visite e che Arturo immagina come il «più grande eroe della storia». Gli amici del padre sono per lui anch'essi dei protagonisti mitici, degni di amicizia e figure al di fuori dell'ordinario: «A uno non basta la contentezza di essere un valoroso, se tutti quanti gli altri non sono uguali a lui, e non si può fare amicizia. Il giorno che ogni uomo avrà il cuore valoroso e pieno d'onore, come un vero re, tutte le antipatie saranno buttate a mare. E la gente non saprà più che farsene, allora, dei re. Perché ogni uomo, sarà re di se stesso!». L'unica persona che ha cura di Arturo è Silvestro e – soltanto grazie a lui – Arturo riceve qualche briciola d'amore.

Orfano della madre, in assenza del padre, Arturo vive in compagnia dell'amatissima cagna Immacolatella sulla quale così si esprimeva: «Si dirà: parlare tanto di una cagna! Ma io, quand'ero un ragazzino, non avevo altri compagni che lei, e non si può negare che era straordinaria. Per conversare con me, aveva inventato una specie di linguaggio dei muti: con la coda, con gli occhi, con le sue pose, e molte note diverse della sua voce, sapeva dirmi ogni suo pensiero; e io la capivo. Pur essendo una femmina, amava l'audacia e l'avventura: nuotava con me, e in barca mi faceva da timoniere, abbaiando quando c'erano ostacoli in vista. Mi seguiva sempre, quand'io giravo per l'isola, e ogni giorno, ritornando con me sui viottoli e nelle campagne già percorsi mille volte, s'infervorava, come se fossimo due pionieri in terre inesplorate.»; e con i conigli si comportava come fosse un cane da caccia col suo cacciatore: «E lei li inseguiva un poco, per il gusto di correre, e poi tornava indietro da me, contenta di essere una pastora. Aveva molti innamorati, ma fino all'età di otto anni non fu mai incinta.». Immacolatella è per Arturo quel che è un cane per un ragazzino solitario: colmava il vuoto abissale creato dalle assenze della madre morta e del padre indifferente, era solidale e vigile come una custode, era un'entusiasta compagna e un'amica piena di obbediente devozione che sapeva stargli accanto, sempre e nonostante tutto.

Quando il padre ritorna portando a casa la dolce Nunziatella, la sua nuova sposa, Arturo – che non ha mai conosciuto una donna – ne è fortemente attratto ma le è anche ostile: inizia così tutta una serie di ambigui inganni sentimentali, Arturo considera Nunziatella un essere selvatico e inferiore (non è capace a chiamarla per nome ritenendola inadatta a sostituire la madre morta) ed è geloso delle attenzioni del padre ma è anche affascinato da quella giovanissima donna, provando un sentimento che dalla stessa scrittrice non sembra essere preso sul serio. Nunziatella ha poi un bambino, Carmine, e durante il parto tremendo, sentendo la ragazza urlare e disperarsi, Arturo teme per la sua vita (la sua mamma è morta dandolo alla luce) e capisce che non le è più indifferente. Si sente tradito dalle esclusive attenzioni che la mamma dedica al suo bambino e tenta il suicidio con dei sonniferi del padre per attirare l'attenzione di lei. Molti giorni trascorrono mentre Arturo si trova a letto in uno stato stuporoso durante il quale Nunziatella si preoccupa per lui e lo assiste von devozione. Ormai completamente preso da Nunziatella, con fare fanciullesco, tenta di rubarle un bacio, rovinando così completamente il suo rapporto con lei, che prende a ignorarlo volutamente. Conosce Assunta, un'amica di Nunziatella, ne diviene l'amante ma tutta una serie di delusioni (altri amanti di Assunta, la dimenticanza del padre per il suo sedicesimo compleanno e la scoperta – parlando con un amico del padre – che nulla erano i suoi immaginifici viaggi e le sue “epiche avventure”, andando in effetti Wilhelm non oltre Napoli). Avviene così “crollo del mito del padre”: Wilhelm, tra l'altro, sembra legato da una strana relazione con Tonino Stella, detenuto nel penitenziario procidano, che dopo la scarcerazione viene ospitato da Wilhelm ma lo picchia e lo deruba provocando la loro separazione definitiva. La giovane matrigna coglie l'occasione per mostrare la sua innata forza nel rimettere in sesto la sgangherata famiglia, Reso uomo da queste esperienze così mortificanti che hanno sia tradito i suoi gelosi sentimenti e l'assoluta dedizione affettiva dell'adolescenza, sia distrutto il fantastico mondo mitico nel quale si era rifugiato per anni, Arturo capisce che non ha più nessun motivo di rimanere nell'isola. Si arruola come volontario nella seconda guerra mondiale insieme all'amico Silvestro (che era partito qualche anno prima intraprendendo la carriera militare) e, sulla nave che lo allontana dall'isola di Procida, Arturo si convince della necessità del distacco decidendo di non voltarsi più indietro verso quel triste passato da dimenticare e giurando che non rimetterà mai più piede a Procida.

A proposito di questa storia, scrisse la Morante: «La sola ragione che ho avuta (di cui fossi consapevole) nel mettermi a raccontare la vita di Arturo, è stata (non rida) il mio antico e inguaribile desiderio di essere un ragazzo.» (citato in Corriere della sera, 7 febbraio 2010). Il romanzo guarda alle sorgenti non inquinate della vita, e la chiusa isola natale è metafora sia della felice reclusione originaria sia del desiderio di terre nuove e  ignote da visitare da parte di Arturo, un «eroe ragazzo». Si può uscire, turravia dall'isola soltanto superando la «traversata del proibitivo mare materno», soltanto uscendo dallo stadio infantile verso la coscienza dell'adolescente.

Antonio Debenedetti ha così commentato: «L'isola di Arturo ha ormai cinquantatre anni e nemmeno una ruga: il tempo, quello che invecchia i libri alla moda, sembra non aver sfiorato questo romanzo nutrito di fantasie, sogni e misteri tali da far pensare a un racconto avventuroso d'altra epoca» (prefazione, Suppl. a Corriere della sera, 2003). Trovando delle affinità con “Menzogna e sortilegio”, Francesco Troiano ha osservato: «Il medesimo tema è al centro del successivo “L'isola di Arturo”, ove lancinante è lo scarto fra l'infanzia serenamente immersa nella natura del protagonista ed il dolore figliato dalla fine della mitizzazione della figura paterna: in questa dimensione edenica che inevitabilmente si dissolve nel contatto con la consapevolezza, risiede il nucleo dolente della poetica dell’autrice.»
(http://www.italica.rai.it/argomenti/grandi_narratori_900/morante/bibliografia.htm).

Con quest'opera, scritta nel pieno della corrente del Realismo, nata dal desiderio di ricostruire un'esperienza infantile che si esaurisce nel sorgere del primo sentimento d'amore, l'autrice crea una narrazione ironica, illusionistica, allusiva e ambivalente, sospesa tra fantasticheria di nuove avventure eccitanti e disincanto. E ritornano i temi amati della disgregazione della famiglia e dei suoi oscuri segreti, delle ombre maligne e delle minacce che la mettono in pericolo scardinandone l'ordine.

Nel 1962 Damiano Damiani trasse da L'isola di Arturo il film omonimo, sceneggiato da Ugo Liberatore, Enrico Ribulsi e lo stesso Damiani (con la collaborazione di Cesare Zavattini), interpretato da Vanni De Maigret (Arturo), Key Meersman (Nunziatella) e Reginald Kernan (Wilhelm). Fu premiato al Festival di San Sebastian del 1962 con la Concha de Oro per il miglior film. Hanno commentato i Morandini: «Tratto dal secondo romanzo (1957) di Elsa Morante, il 3° film di Damiani, sceneggiato anche da Cesare Zavattini, è ambizioso, non privo di passaggi felici, ma soltanto parzialmente risolto anche per l'inadeguatezza degli interpreti.» (il Morandini – Zanichelli editore, a cura di Laura, Luisa e Morando Morandini).

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