sabato 1 settembre 2012

L’istituzione del matrimonio, Charlotte Brontë e Jane Eyre



Charlotte Brontë                                   Ilaria Occhini interpreta Jane Eyre

Desidero condurre un discorso su come il matrimonio si sia evoluto nel corso dei secoli, e su come ciò sia descritto in modo straordinario nella letteratura dell'Ottocento e del Novecento, iniziando con Charlotte Brontë e il suo “Jane Eyre”.

In Orgoglio e pregiudizio (Pride and Prejudice) (1813), la scrittrice inglese Jane Austen (1775-1817), un'antesignana di Charlotte Brontë, a proposito del matrimonio – coronamento d’amore tra l’eroina e l’affascinante protagonista maschile ma anche soluzione sociale per la donna di fine Settecento – così scriveva: «l’unica onorevole risorsa per una ragazza ben educata con scarse possibilità economiche; forse, non proprio fonte di felicità ma certamente la protezione più piacevole dalla povertà» (traduzione di F. Fantaccini, Newton Compton Editori, Roma 2002).

Con Jane Eyre, Charlotte Brontë ha composto un romanzo che è un’intensa celebrazione di sentimenti e, a mio parere, la quintessenza del fascino e delle schermaglie dell’amor romantico, pur non mancando di una certa punta di risentimento femminile (tutti i giusti ingredienti – romanticismo, sensualità e desiderio represso – vi sono sapientemente dosati e usati). Sul solco dell’autobiografia, ma superando i confini angusti della casa paterna, Charlotte scrisse il suo capolavoro in rottura con gli usi e i costumi della chiusa e moralista Inghilterra vittoriana che volevano la donna asservita prima ai comandamenti di Dio, poi a quelli del padre, quindi a quelli dell’ordine coniugale. Il romanzo di Jane Eyre, piccola e oscura istitutrice (non dotata né di vistosa bellezza né di prorompente femminilità), incapace di giochi di seduzione ma capace di affascinare con la conversazione, il carattere e la forza morale mister Rochester, uomo non bello ma forte e appassionato («duro di lineamenti e di aspetto malinconico» ma dagli «sguardi penetranti e dolci»). Rochester offre a Jane, prima un matrimonio improponibile dal momento che è già sposato con una donna pazza e perversa, poi – una volta scoperto l’infelice matrimonio – una convivenza inaudita per la morale del tempo. Jane reprime il suo amore e rinuncia a Rochester ma dopo mille peripezie (compresa la cecità di Edward a causa dell’incendio del suo maniero provocato dalla moglie che resta uccisa) gli innamorati riusciranno infine a coronare il loro sogno d’amore.

Molto significative sono le parole che Jane si dice, quando si accorge che Blanche Ingram (un’aristocratica non realmente innamorata ma desiderosa di un ricco matrimonio) tenta di suscitare l’amore di Rochester senza successo: «Quanto sbagliava, capivo come avrebbe potuto riuscire. Gli strali che continuamente fallivano il segno, e cadevano senza effetto ai piedi del signor Rochester, avrebbero potuto, se lanciati da una mano più sicura, trafiggere il suo cuore orgoglioso, richiamare l’amore nei suoi occhi severi, e la dolcezza nel suo volto amaro; o meglio ancora, si poteva, senza armi, compiere una silenziosa conquista. “Come mai”, mi chiedevo, “avendo la fortuna di stargli così vicino, non riesce a conquistarlo? Certo non lo ama con sincerità, o con vero affetto. Non avrebbe allora bisogno di sciupare sorrisi, di lanciare occhiate, di studiare grazie e atteggiamenti. Se parlasse e guardasse meno, e stesse quietamente a sedere al suo posto, potrebbe giungere più vicina al suo animo. Ho visto sul volto di lui un’espressione ben diversa da quella che ora l’indurisce. Ma allora sorgeva spontanea. Non era sollecitata da arti da cortigiana, e da manovre calcolate. Eppure occorrerebbe solo rispondere con semplicità alle sue domande, rivolgersi a lui senza smorfie…, e così egli diventerebbe sempre più caro e riscalderebbe come un benefico raggio di sole. Sarà capace di piacergli quando saranno sposati? Non credo che andranno d’accordo, ma, se andranno d’accordo, sua moglie sarà, a mio giudizio, la donna più fortunata che c’è al mondo.”» (Capitolo diciottesimo, traduzione di Lia Spaventa Filippi, Newton Compton Editori, Roma 1995).

Riporto anche le parole della parte conclusiva, che rappresentano una piccola “summa” di quel che è il segreto per un matrimonio felice: «Sono ormai sposata da dieci anni. So che cosa vuol dire vivere per la persona che più si ama al mondo. Mi ritengo supremamente felice… felice come le parole non possono esprimere, perché sono tutta la vita di mio marito, com’egli è la mia. Nessuna donna è più vicina di me al suo compagno, e più di me è carne della sua carne. Non sono mai stanca della compagnia del mio Edward, ed egli della mia, come se fossimo un sol cuore che batte in due petti. Stiamo sempre insieme. Lo stare insieme è nello stesso tempo per noi essere liberi come nella solitudine, essere contenti come in compagnia. Chiacchieriamo tutto il giorno; chiacchierare fra noi è un modo più vivace di pensare a voce alta. Tutta la mia fiducia è riposta in lui, tutta la sua in me. Siamo fatti l’uno per l’altro per carattere; ne risulta un perfetto accordo.» (Capitolo trentottesimo, traduzione di Lia Spaventa Filippi, Newton Compton Editori, Roma 1995). E le somiglianze del carattere sono forse la chiave del successo per questa coppia straordinaria. In un altro punto del romanzo Jane osserva: «Dicendo che sono della sua razza, non intendo dire che ho qualche potere sul suo fascino; ma solo che ho in comune con lui certi gusti e sentimenti.».

Nell’amore infelice di Jane Eyre e Mr. Rochester, c’era certamente qualcosa di realmente vissuto: nel 1842, le sorelle Charlotte ed Emily decisero di migliorare la loro cultura personale per aprire una scuola privata e andarono a Bruxelles per studiare lingue nella scuola diretta dal professor Héger, del quale Charlotte s’innamorò perdutamente e senza ritegno, suscitando la gelosia risentita della moglie. Morta la zia che reggeva le fila dell’economia famigliare, le due giovani dovettero ritornare precipitosamente a casa ma Charlotte ripartì di nuovo per Bruxelles, ritornando frettolosamente e definitivamente nel 1844, respinta dall’avversione della moglie del professore. Nel 1848 morirono il fratello Branwell (per delirium tremens) ed Emily e Anne (per tisi), e Charlotte rimase a vivere da sola nella solitaria parrocchia paterna in Haworth, malandata in salute e malata di malinconica, ma riscaldata da un animo caldo e appassionato. Charlotte era una donna molto volitiva e dalla fortissima personalità, femminista ante–litteram nel suo sostenere l’importanza dell’emancipazione intellettuale e nell’inneggiare all’indipendenza economica e all’autorealizzazione lavorativa della donna. Credeva fortemente nella possibilità di un affrancamento della “zitella” dalla soggezione della famiglia e del matrimonio. E mister Rochester altro non era che l’esatta trasposizione del vero grande amore di Charlotte: il professore belga piuttosto in età, marito onesto e padre felice, destinatario di missive d’amore fanatiche con le quali la scrittrice (tormentata dalla passione) lo perseguitava nel vano tentativo di farlo innamorare di sé. Nel suo romanzo, però, Charlotte offre a Jane Eyre (personaggio certamente autobiografico) quel finale felice che la vita non le aveva concesso. A proposito di Jane – sua “alter ego” – Charlotte, donna molto moderna in pectore, fa pronunciare a Rochester le seguenti parole: «Non vedo nemici nell’esito felice del suo avvenire se non sulla fronte; e quella fronte sembra dire: “Posso vivere sola, se il rispetto di me stessa e le circostanze me lo chiederanno. Non ho bisogno di vendere l’anima per comperare la felicità. Ho un tesoro interiore che mi manterrà viva anche se tutti i piaceri esterni mi saranno negati, o offerti a un prezzo che non potrò accettare”. La ragione su quella fronte è solida e tiene le redini e non si lascerà trascinare dai sentimenti. Anche se la passione divamperà come fuoco nell’inferno, come infatti fa, e il desiderio può immaginare ogni genere di vanità, sarà il giudizio a dire sempre l’ultima parola, e a dare il voto decisivo. Potrà scatenarsi la tempesta, tremare la terra, infuriare l’incendio, seguirà sempre la sottile voce della coscienza.» (Capitolo diciannovesimo, traduzione di Lia Spaventa Filippi, Newton Compton Editori, Roma 1995).

In età matura, a 40 anni, superati finalmente i postumi dell’infelice amore per il professore belga, Charlotte Brontë sposò felicemente il reverendo Nicholls, il vicario del padre, che l’aveva amata (non riamato) per molti anni. In effetti, il reverendo Brontë reagì malissimo all’idea del matrimonio di Charlotte e procurò «un dolore acuto» alla donna già avanti negli anni, la quale scrisse a proposito della richiesta di matrimonio di Nicholls: «Quali furono le sue parole, te lo puoi figurare, il suo tono non lo puoi immaginare, e io non riesco a dimenticarlo […] Gli chiesi se aveva parlato con il Babbo. Rispose che non ne aveva il coraggio.». Questo avveniva, perché l’anziano Ministro della Chiesa anglicana disapprovava il matrimonio in genere e sparlava sempre di quelli che si sposavano; inoltre, a causa dell’attaccamento per la figlia, l’interesse amoroso del suo vicario gli era odioso. Intimorita, Charlotte promise al padre di respingere il corteggiatore. Così avvenne: amava Arthur Nicholl, eppure lo respinse e non reagì né con le parole né con i gesti, e il reverendo Nicholls abbandonò Haworth lasciando l’amata sola col padre. Virginia Woolf, estimatrice della scrittrice, ha scritto così nel suo saggio Le tre ghinee: «La sua vita matrimoniale – che doveva essere breve – fu resa ancor più breve dal desiderio di suo padre.». Più tardi, poiché il tempo tutto vince avendo la meglio sui pregiudizi e sull’ostinazione, il padre concesse il suo permesso e i due innamorati si sposarono. Purtroppo, Charlotte sopravvisse al matrimonio soltanto un anno, morendo a Haworth il 31 marzo del 1855 nel corso della prima e tardiva gravidanza.

Giuseppe Lombardo, professore di Letteratura anglo–americana presso l’Università di Messina, nell’introduzione alla versione del libro utilizzata per le mie citazioni (traduzione di Lia Spaventa Filippi, Newton Compton Editori, Roma 1995), entra nel dettaglio del “mito dei Brontë”, che ebbe inizio nel 1857 dopo la pubblicazione del libro Life of Charlotte Brontë da parte di Elizabeth Gaskell (intima amica di Charlotte). Lombardo così scrive: «[…] il tema della seduzione, della proposta d’amore inaccettabile sul piano morale o sociale è però destinata a innescare il tormento della passione e della conseguente repressione», e la passione repressa fa parte dell’esistenza e di diversi scritti di Charlotte. Lombardo racconta particolari inediti e interessanti della vita di Charlotte, evidenziando il contrapporsi della scrittrice al «conformismo della famiglia e della società patriarcale» e al «vieto moralismo sotto cui si dissimulano i rapporti di forza che opprimono le donne». Inoltre annota acutamente: «Jane torna accanto a un Rochester ormai sceso dal piedistallo del rango e del sesso: la distanza fra i due si è ridotta enormemente e il rapporto che li unisce non è più di forza ma di vicendevole integrazione; ella vede e si muove per lui e nessuno domina.». Lombardo individua, infine, come questo avvenga in campagna, a contatto della Natura, «lontano da una società a cui è invece connaturato il germe della discriminazione e dell’ingiustizia».

Virginia Woolf, nel cap. IV del saggio Una stanza tutta per sé, scriveva di Charlotte Brontë: «Ma vi erano molti altri influssi, oltre la collera, ad agire sulla sua immaginazione e a distoglierla dal proprio cammino. Come l’ignoranza, ad esempio. Il ritratto di Rochester è tracciato al buio. In esso percepiamo l’influenza della paura; così come di continuo sentiamo un’acrimonia che deriva dall’oppressione, una sofferenza soffocata che arde sotto la passione, un rancore che fa contrarre quei libri, per quanto splendidi, in uno spasimo di dolore.» (Traduzione di Maria Antonietta Saracino, I Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1998). Nell’altro suo saggio Jane Eyre, scritto tra il 1916 e il 1917, la Woolf scrive altre cose di notevole interesse su Charlotte: «Quando pensiamo a lei dobbiamo immaginare qualcuno che non ebbe fortuna nel nostro mondo moderno, dobbiamo tornare col pensiero agli anni Cinquanta del secolo scorso, a una canonica remota tra le selvagge brughiere dello Yorkshire. In quella canonica, tra quelle brughiere, infelice e solitaria, nella sua povertà ed esaltazione, rimarrà sempre. Queste circostanze, se certamente influenzarono il suo carattere, debbono aver lasciato tracce anche nella sua opera […] Né di breve durata l’intensità. Prorompe da tutto il volume, senza darci il tempo di pensare, senza farci alzare gli occhi dalla pagina. […] La scrittrice ci tiene per mano, ci forza al suo percorso, ci fa vedere ciò che vede lei, non ci lascia neppure un momento, non ci permette di dimenticarci di lei. Alla fine ci ritroviamo totalmente imbevuti del suo genio, della veemenza, dell’indignazione di Charlotte Brontë. Nel frattempo facce notevoli, figure dal forte profilo e dal tratto aspro ci sono balenate davanti, ma è coi suoi occhi che le abbiamo viste. Una volta scomparsa lei, le cerchiamo invano. Pensate a Rochester e sarà attraverso Jane Eyre. Pensate alla brughiera ed ecco di nuovo Jane Eyre. […] Lei non si prova nemmeno a risolvere i problemi della vita umana, è perfino ignara che esistano tali problemi, tutta la forza che ha, tanto più tremenda per essere costretta, va nell’affermazione “io amo, io odio, io soffro”. […] è la luce rossa e intermittente della fiamma del cuore che illumina la sua pagina. In altre parole, leggiamo Charlotte Brontë […] per la sua poesia.» (Traduzione di Nadia Fusini, I Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1998).

Nel suo Dizionario dei personaggi di romanzo, Gesualdo Bufalino, – che presenta «i simulacri dei personaggi più memorandi, così come ci vengono incontro sulla soglia, mentre provano i gesti dell’esordio e fanno amicizia col lettore, col caldo della vita, con la voce che li battezza» – scrive, nella presentazione dedicata a Jane Eyre, parole di rara bellezza sulle tre sorelle Brontë: «Nelle brughiere dello Yorkshire, a metà del secolo, tre zitelle vittoriane, quale più quale meno consumate dalla tisi ed esaltate dalla solitudine, si buttano a inventare romanzi, a vivere in essi le inaccadute nozze, le scherme d’amore con gli inesistiti uomini della propria vita. Charlotte crea così Jane Eyre, una figura di magre bellezze, ma appassionata e guerriera nel riconoscere i propri diritti di donna e nel volerne lo sboccio fuori del busto di gesso della moralità puritana. Tutt’altro che una rivoltosa, beninteso, e anzi incline alla dedizione, alla devozione. A patto però – e sembra di sentire Nora [la protagonista di “Casa di bambola” di Henrik Ibsen] che nessuno s’arroghi d’imporre, per legge di sesso, quei sacrifici di sé che lei così lietamente accetta per opzione d’amore.» (Oscar Saggi, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1989). Ne approfitto per ricordare lo stupendo documentario–sceneggiato della televisione inglese (canale BBC One) del 2003 sulla vita della famiglia Brontë, dal titolo In search of the Brontës, basato sulle lettere e sulle ricerche dei loro numerosi biografi.

è degno di nota che Jean Rhys (1890-1979), nata in una piccola isola delle Antille nel mar dei Caraibi da padre gallese e madre creola, scrittrice acclamata per avere saputo dare voce alla crisi esistenziale della donna, ha dedicato il suo romanzo Il grande mare dei Sargassi (Wide Sargasso Sea) (Adelphi, Milano 1980) a Bertha Mason, la moglie creola di mister Rochester, eroina di secondo piano, negativa e silenziosa, del romanzo “Jane Eyre”. Il libro fu scritto dall’autrice nel 1966 dopo il suo trasferimento in Cornovaglia, quando aveva 76 anni e dopo trenta anni di silenzio seguiti alla scrittura di diversi romanzi di successo editi tra il 1920 e il 1930. A proposito di Bertha, ne Le donne e la letteratura, Elisabetta Rasy annota acutamente: «In questo luogo misterioso come i castelli del romanzo gotico, Charlotte Brontë mette in scena un esemplare sdoppiamento del femminile: Jane ha un doppio, la moglie pazza di Rochester segregata in un’ala della casa, Bertha Mason. L’istitutrice e la folle non sono che due facce del femminile non riconciliato, in crisi con la famiglia e la società. Non a caso la figura della folle viene vista dagli studiosi odierni di “Jane Eyre” come simbolo della sessualità censurata e rimossa nell’austero periodo vittoriano […] il lavoro sottrae Jane al destino di dannazione di Bertha, che muore tra le fiamme […] Le sorelle Charlotte ed Emily Brontë rappresentano compiutamente la doppia anima della donna vittoriana: essa ci appare estraniata dal presente o faticosamente e dolorosamente partecipe di questo, e insieme la vediamo affacciata, come a mezza via tra il passato, la tradizione romantica, e il futuro, le vie della emancipazione.» (Editori Riuniti, Roma 1964).

Diversi film sono stati tratti da questo romanzo: il primo è del 1943, per la regia di Robert Stevenson con Orson Wells e Joan Fontaine, mentre da ricordare è quello del 2003 di Franco Zeffirelli con William Hurt e Charlotte Gainsbourg. Il film di Zeffirelli mi ha deluso: Rochester è algido e distante mentre Jane è spenta e musona; al contrario, sappiamo bene che l’uno era un essere caldo e appassionato e che l’altra era una personcina viva e palpitante. Nel 2011, infine, in Inghilterra è stata girata una nuova versione di “Jane Eyre” da Cary Fukunaga con Mia Wasikowska (Jane Eyre) e Michael Fassbender (Edward Rochester), in cui è stata data un'enfasi particolare agli aspetti gotici del romanzo. Ha detto Fukunaga: «Ho speso molto tempo rileggendo il libro e cercando di sentire quello che Charlotte Brontë sentiva mentre lo scriveva. C’è un qualcosa di sinistro che affligge l'intera storia… ci sono stati qualcosa come 24 adattamenti, ed è veramente raro che si veda questa sorta di lato più oscuro. Lo trattano come se fosse soltanto un romanzo d’epoca, e io penso che sia molto di più».[3]

Ricordo, invece, con tutta la nostalgia delle persone in età, lo sceneggiato televisivo degli anni cinquanta (visto da bambina) per la regia di Anton Giulio Majano col tenebroso Raf Vallone e l’angelica Ilaria Occhini, che nel fascino del bianco e nero mescolava con arte ineguagliabile sentimento e romanticismo in dosi perfette. Sarà forse il ricordo infantile a ingigantirne le qualità?!

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