sabato 29 settembre 2012

Michelangelo Antonioni: la crisi dell'uomo e la “malattia dei sentimenti”



Michelangelo Antonioni



Il 29 settembre del 1912, cento anni addietro, nasceva a Ferrara il grande maestro Michelangelo Antonioni, un gigante della moderna cinematografia mondiale, Leone d'Oro alla carriera nel 1983 e Oscar alla carriera nel 1995, regista ma non solo, anche sceneggiatore e montatore, oltre che scrittore di “asciutta densità” e sensibile pittore negli ultimi anni della sua vita (i suoi quadri, le sue Montagne incantate sono attualmente esposte al Museo “Michelangelo Antonioni” di Ferrara).

Appartenente alla media borghesia, conseguì la laurea in Economia e commercio presso l'Università di Bologna, maturando alcune giovanili esperienze teatrali universitarie che gli fecero conoscere i testi ambigui e controversi di Pirandello, Ibsen e Cechov. Interessato al cinema, negli anni Trenta e Quaranta, iniziò a scrivere articoli di cinematografia sul «Corriere Padano» e sulla rivista «Cinema». Frequentò soltanto per un semestre il “Centro Sperimentale di Cinematografia”, venendo richiamato alle armi, e curò alcune sceneggiature come quella di Un pilota ritorna (1942) di Roberto Rossellini, di Caccia tragica (1945) di Giuseppe De Santis, e di Sceicco bianco (1952) di Fellini. Nel 1942 ottenne un contratto con la Scalera Film che lo prese come sceneggiatore e aiuto regista di Enrico Fulchignoni per il film I due Foscari. Fu aiuto-regista del grande regista francese Marcel Carné nel film italo-francese Les visiteurs du soir e girò il lungometraggio Gente del Po (filmato nel 1943 con uno stile neorealista, su «un’umanità fluviale», quella della sua terra) – «L'ambiente è quello che conosce meglio e che ama, ma la sua attenzione più che su luoghi e cose si accentra sugli uomini, la loro vita e i loro sentimenti. Il lavoro finale non sarà però quello voluto: la guerra costringe Antonioni a lasciare incompiute le riprese, e ad abbandonare le pellicole girate, parte delle quali si deteriora; solo nel '47 il materiale rimasto verrà montato.» 
(http://www.michelangeloantonioni.it/biografia.htm). Del 1948 è N. U. - Nettezza urbana che vinse il Nastro d'Argento, «semplicemente un capolavoro, solo un grande visionario in grado di scoprire significati nascosti della realtà poteva rendere poetica la Nettezza Urbana»
(http://lorenzocostanzini.wordpress.com/2007/07/31/63/).

Antonioni esordì nel cinema vero e proprio nel 1950 con Cronaca di un amore, che vinse il Nastro d'argento e che segnò la fine del Neorealismo, aprendo a un cinema italiano più moderno e più profondamente introspettivo, volto a rappresentare il dramma del disagio esistenziale e il tormento dell'alienazione dell'uomo moderno, coinvolto essenzialmente dai risvolti psicologici dei personaggi. «Negli anni in cui il cinema neorealista è interessato prevalentemente a temi come dopoguerra e povertà, Antonioni ha il coraggio di uscire dagli schemi e dalle tendenze ricorrenti: il suo film è un dramma d'amore nell'ambiente dell'alta borghesia e mostra la profonda trasformazione che l'Italia subisce in quegli anni.» (http://www.michelangeloantonioni.it/biografia.htm). Storia di un adulterio maturato nel mondo dell'alta borghesia industriale lombarda falso ed egoista  e nell'ambito di una coppia in crisi; nonostante la morte accidentale del marito, del quale la moglie aveva programmato l'assassinio insieme all'amante giovane, bello ma povero, il senso di colpa separerà per sempre i due innamorati. Alain Resnais lo definì «un romanzo noir americano… pavesiano». «È un giallo freddo ed elegante che scava impietosamente nell'alta borghesia di una metropoli industriale come Milano e che integra in un'unica entità ambiente e personaggi, come Gente del Po aveva lasciato presagire. […] Il rapporto fra uomo e ambiente e il rapporto fra caso e destino aprono invece una meditazione più universale sull'esistenza. Antonioni ricerca inoltre uno stile “totale” (figurativo, recitativo, musicale, narrativo) per caricare al massimo le immagini e, di conseguenza, le atmosfere.» (http://www.scaruffi.com/director/antonion.html.)

Girati spesso tra le difficoltà con la produzione e la incomprensione del pubblico, seguirono: I vinti (1953) che, rappresentando la violenza di un mondo giovanile in crisi di valori, raccontava tre delitti compiuti da tre giovani in tre episodi ambientati in diverse nazioni, Francia, Inghilterra e Italia (fu tagliato e censurato perché l'episodio italiano coinvolgeva due omosessuali); Amore in città (1953), film a episodi girato da Marco Ferreri con il segmento “Tentato suicido”, molto originale nel precorrere il film-inchiesta; La signora senza camelie (1953) con Lucia Bosè (ma pensato per Gina Lollobrigida), un altro ritratto di donna che tenta una inutile ascesa nel cinema allargato al divismo cinematografico (la critica al mondo del cinema e ai suoi assurdi meccanismi è forte): «Il disagio creato dal passaggio dall'ambiente naturale della piccola borghesia a quello artificiale del cinema è il primo sintomo della perdita di personalità e della progressiva assuefazione al cinismo e alla mediocrità. Questa Signora è l'archetipo di tutte le eroine di Antonioni: disponibile, vulnerabile, cosciente della propria crisi, alla ricerca di un'identità.» (http://www.scaruffi.com/director/antonion.html.); e Le amiche (1955), tratto dal romanzo Tra donne sole di Cesare Pavese (Leone d'Argento alla Mostra di Venezia), riflessione sulla condizione e sulle inquietudini della donna moderna: «Il lavoro e la vita sentimentale di quattro donne sole mettono a nudo la futilità dei rapporti fra le persone e consentono di indagare ancora sul tema del suicidio (oltre alla più fragile delle quattro anche l'autore del racconto si era suicidato). […] chi non si adatta all'ambiente (al cinismo, alla mediocrità, alla solitudine, al vuoto) è destinato ad estinguersi.»
(http://www.scaruffi.com/director/antonion.html.)

Il grido (1957) è un film capolavoro concentrato sul tormento esistenziale dell'individuo ed esemplificato da un proletario in crisi, costretto a un viaggio senza meta e sperso in una società che gli è divenuta estranea, la cui unica possibile soluzione finale è salire in cima a una torre della fabbrica e buttarsi giù. Non compreso del tutto, il film fu un insuccesso al botteghino e fu giudicato dalla critica come «un film frammentario, freddo e formalista» ma in Francia si gridò al capolavoro (http://www.michelangeloantonioni.it/biografia.htm). «Il pessimismo è più duro rispetto a quello dei film precedenti in quanto l'operaio, a differenza delle eroine che lo hanno preceduto, non si limita a subire passivamente l'alienazione, cerca in ogni modo di salvarsi, di resistere, di non adattarsi e non estinguersi; ciononostante soccombe, la vita finisce senza pietà. […] Le tre grandi crisi “private” di Antonioni [la crisi di incomunicabilità, la crisi di identità e la crisi di estinzione] sono ormai parte integrante di ogni uomo.» (http://www.scaruffi.com/director/antonion.html.). In effetti, il film pose Antonioni su di un “piedistallo prestigioso” (Franco Nebbia).

Restano superbi e indimenticabili i tre film girati tra il 1960 e il 1962, appartenenti alla “trilogia dell'incomunicabilità”, con una giovane e sensibile Monica Vitti (parte di un sodalizio con Antonioni nel cinema e nella vita), e accolti in modo contrastante dal pubblico e dalla critica. Con questa trilogia l'autore esprimeva «una difficoltà più generale, storica ed esistenziale, provocata dal dissidio tra un “vecchio” che crolla e che non serve e un “nuovo” che impaurisce.» (http://www.treccani.it/enciclopedia/michelangelo-antonioni/). «La trilogia segna il punto più schematico dell'intellettualismo e del didascalismo di Antonioni e il punto più accademico della sua analisi psicologica e sociologica. Più che trame da raccontare o da spiegare sono romanzi di costume e di comportamento…»
(http://www.scaruffi.com/director/antonion.html.).

Il primo film, L'avventura (1960), presentato al festival di Cannes si aggiudicò il premio speciale della giuria e fu fischiato dal pubblico ma osannato dalla critica, «per molti è la rivelazione di un autore raffinato e poetico che avrà sempre più consensi nella critica che fra il grande pubblico» (http://www.michelangeloantonioni.it/biografia.htm). Alain Resnais ha parlato di un «film mitico», di una «padronanza straordinaria della disposizione degli attori in rapporto alla scenografia» e di una «utilizzazione della profondità di campo che c'imprigiona come mosche in una tela di ragno». è stato osservato che «La precarietà dei sentimenti determina l'itinerario dei due protagonisti; la rassegnazione davanti all'incostanza umana e la pietà per le sue disastrose conseguenze morali (soprattutto il rimorso di vivere) costituiscono la meta del viaggio; gli ambienti ([…]) si dilatano e si svuotano, le atmosfere si sfaldano e si rarefanno, i personaggi si tradiscono l'un l'altro e restano soli. La dialettica del distacco dalla loro emotività li lascia a penzolare senza appiglio sui loro abissi.» 
(http://www.scaruffi.com/director/antonion.html.).

Nel secondo film, La notte (1961), Orso d'oro e premio speciale della giuria a Cannes, con Marcello Mastroianni e Jeanne Moreau, «si parla della crisi di una coppia per parlare in realtà di una profonda crisi sociale» (http://www.michelangeloantonioni.it/biografia.htm). Un intellettuale (metafora dello stesso Antonioni) e la sua compagna vanno a trovare un amico ricoverato in ospedale per un male incurabile (innamorato silenzioso della donna), e dopo una giornata di futili occupazioni all'insegna di diversi stimoli sessuali, la sera, mentre tornano a casa, la donna informa il compagno della morte dell'amico. Si abbracciano e si coricano sull'erba ed è già l'alba: «Ancora una volta il rimorso della vita, i tradimenti, l'ennesimo triangolo in cui due si amano abbandonando un terzo al suo tragico destino, anzi quasi contenti che la morte lo elimini.» (http://www.scaruffi.com/director/antonion.html.).

 Il terzo film, L'eclisse (1962), Premio speciale della Giuria al Festival di Cannes, narra di una ricca ragazza romana (Monica Vitti) che, lasciato un vecchio amante (un intellettuale come lei), crede di trovare amore e calore umano in un giovane agente di cambio, che altro non è che un cinico e impenitente donnaiolo: «La scena finale è il capolavoro di tutto il cinema antonionano: oltre la fine del rapporto fra due persone la camera scorre verso la fine di tutto in un misto apocalittico di mistero, suspense, depressione, solitudine esistenziale.»
(http://www.scaruffi.com/director/antonion.html.). è stato scritto che «L'opera, a tratti esageratamente intellettualistica, lenta e poco comprensibile nel messaggio, si snoda lungo un intenso rapporto tra spazio e personaggi.» (http://www.1aait.com/larovere/antonion.htm).

A proposito di questa trilogia, ha commentato Gianni Canova: «Sono film che rappresentano il vuoto assoluto di esistenze perdute nella quotidianità, di personaggi borghesi annoiati e/o immobilizzati in una crisi la cui prima spia è la fine di una storia d'amore, ma sono, soprattutto, opere che rinnovano la drammaturgia filmica. Comunicazione rarefatta, lunghi e dilatati piani-sequenza, tempi morti, finali aperti; Antonioni trasforma le sue storie in una sorta di autopsia dei rapporti umani, una lenta e inesorabile dissezione del disagio di essere (Cinema, le garzantine, Garzanti, Milano 2009). è stato osservato che «L'avventura, La notte, L'eclisse, e Deserto rosso, tutti interpretati dall'allora sua compagna Monica Vitti, costituiscono la tetralogia dei sentimenti, o meglio del viaggio analitico attraverso la malattia dei sentimenti, secondo le parole dello stesso regista. Questi film consacrano Antonioni tra i dieci registi più importanti del mondo, e gli fanno ottenere un contratto per tre film con la Metro Goldwin Mayer.» (http://www.michelangeloantonioni.it/biografia.htm).

Seguì poi Il deserto rosso (1964), il primo film a colori (pregevole la fotografia di Carlo Di Palma) e il primo in cui venivano trattati temi profondamente legati all'ecologia, Leone d'oro come miglior film al Festival di Venezia, in cui il tema dell'alienazione e dell'incomunicabilità veniva affrontato con perfezione stilistica e tecnica matura. Il film racconta la grave crisi di Giuliana (Monica Vitti), moglie di un ingegnere, che vive in una cittadina padana stravolta dal moderno processo d'industrializzazione; ha tentato il suicidio ma è stata dimessa più depressa e angosciata di prima, in preda a un'invincibile nevrosi. è stato commentato: «L'alienazione causata dall'industrializzazione si manifesta più che dalle maschere ormai schematiche soprattutto attraverso il paesaggio deprimente, grigio e fumoso, sommerso da ciminiere e serbatoi; per la prima volta Antonioni fa uso del colore e si comporta come un pittore astratto; […] Antonioni afferma la funzione psicologica del colore e tenta di definire un'estetica pittorica della fabbrica.» (http://www.scaruffi.com/director/antonion.html.). L'uso del colore non naturalistico riesce infatti a trasmettere in modo sorprendente tutte le sensazioni soggettive.

Questi tre film americani, sempre più innovativi, fecero di Antonioni un regista d'élite a livello internazionale. Deputati all'analisi approfondita della crisi della modernità e del consumismo, furono girati in inglese e all'estero, con attori internazionali, produttore Carlo Ponti.

Blow-Up (1966), il suo successo commerciale più grande, Gran premio internazionale a Cannes, tratto da un soggetto di Julio Cortázar e interpretato da David Hemmings, è ambientato in Inghilterra e narra di un fotografo di moda che crede di avere immortalato nei suoi scatti fotografici un omicidio che forse non esiste. Dominato da un pessimismo angoscioso, il film esita in un totale rifiuto della realtà e in una totale incomunicabilità: «La conclusione è pirandelliana: alla fine l'individuo si rende conto che solo fingendo si può continuare a vivere. […] Blow-up è anche la suprema metafora sull'illusione: dalla foto che mostra ciò che era sfuggito all'occhio alla partita di tennis finale, tutto il film è giocato sui limiti e sulle distorsioni della percezione.» (http://www.scaruffi.com/director/antonion.html.). Il film vinse la Palma d'oro al Festival di Cannes e fu nominato all'Oscar come Miglior regista e Migliore sceneggiatura originale (a Tonino Guerra).

Zabriskie Point (1970), purtroppo un disastro finanziario, ambientato nell’America della contestazione giovanile e del rock, ruota attorno alla contestazione giovanile e racconta di una giovane segretaria di Los Angeles che compie un viaggio solitario in auto, la quale incontra a Zabriskie Point, in un luogo deserto, uno studente deluso dai moti universitari che ha rubato un aereo; i due ragazzi si amano in solitudine ma la conclusione tragica è in agguato (quando il giovane torna per restituire l'aereo, viene ucciso da un poliziotto). Fu «considerato un film contro l'America, e come tale boicottato, pur contenendo alcune tra le sequenze più belle e particolari girate dal regista; solo anni dopo se ne apprezzerà la poesia.»
(http://www.michelangeloantonioni.it/biografia.htm). è un film di grande spessore poetico: «Pur non riuscendo ad eludere il destino di morte e solitudine a cui Antonioni condanna i suoi eroi, questi due ragazzi, generati dall'utopia dei figli dei fiori, rappresentano una generazione positiva, che tenta di riscattare il mondo dalla schiavitù del consumismo, anche se non possiede ancora la forza per sopravvivere alla feroce repressione messa in atto dal Sistema.» (http://www.scaruffi.com/director/antonion.html.).

Professione: reporter (1975) con Maria Schneider e Jack Nicholson, tratto da un soggetto di Mark Peploe, filmato a Barcellona e in Africa, è un film bello e misterioso per l'impenetrabilità della realtà che si fa sempre più complessa mettendosi in conflitto con l'individuo e che è rappresentata dal rapido cambio d'identità del protagonista (è stato definito da Mereghetti: «assolato, vitreo, impareggiabile nell'usare scenari tanto diversi»). Racconta di un giornalista televisivo inglese in crisi, un esponente di una generazione fallita, stanco della moglie che lo tradisce, che va in Africa per un reportage su un movimento di liberazione ma che è in realtà tanto privo di entusiasmo e nauseato dal suo mestiere che decide di assumere l'identità di un suo vicino morto, cacciandosi nei guai e finendo ucciso (anzi, meglio, si lascerà uccidere): «La vita è un tentativo impossibile, la morte è l'unica possibile fuga dall'identità del vivo. Per Antonioni il suicidio è l'unico atto eroico.» (http://www.scaruffi.com/director/antonion.html.). «Il film è divenuto famoso per la spettacolare sequenza finale girata con una macchina da presa particolare.»(http://www.michelangeloantonioni.it/biografia.htm). 
«Di pari passo con lo svolgimento tematico, un continuo processo di sperimentazione formale portò il regista a cercare con maggiore chiarezza di intenti la via della metafora, che permetteva da una storia particolare di arrivare alla descrizione allusiva delle ambiguità di fondo della nostra esistenza.» (http://www.treccani.it/enciclopedia/michelangelo-antonioni/).

Dopo cinque anni di mutismo creativo, Antonioni girò per la televisione il film sperimentale Il mistero di Oberwald (1980), con Moniva Vitti, un mèlo a tinte noir, tratto da L'aigle à deux têtes di J. Cocteau e realizzato in alta definizione con mezzi innovativi; viene considerato come il primo esempio di cinema elettronico della storia: «grazie ad uno strumento chiamato correttore di colori per Antonioni è possibile dipingere i fotogrammi, cambiando o togliendo colori in base all'effetto psicologico che vuole ottenere.»
(http://www.michelangeloantonioni.it/biografia.htm). 
«Ma non è arida sperimentazione: Antonioni tenta di cavar poesia dall'elettrocromatica televisiva, di far storia, sentimenti e dialoghi solo attraverso i colori che illuminano e rabbuiano lo schermo. Il colore come forma, apparenza, del pathos; ectoplasma ipnotico che riveste le immagini di significato.» (http://www.scaruffi.com/director/antonion.html.). Gianni Canova ha definito il film: «interessante ma verboso» (Cinema, le garzantine, Garzanti, Milano 2009).

Dopo un lungo periodo di silenzio, ritornò al cinema nel 1982 con Identificazione di una donna, interpretato da Tomas Milian, un'analisi piena di erotismo di una crisi sentimentale e comportamentale che si contorce attorno ai temi tipici del regista (il vuoto, la solitudine e la morte), «nervoso e spregiudicato» grazie al montaggio dello stesso Antonioni. Storia di un regista intellettuale in crisi d'identità, alla ricerca della protagonista di un suo film (prova una giovane aristocratica, intellettuale ed emancipata, vivace e disponibile, e una modesta attrice teatrale dai gusti piccolo-borghesi): «Il linguaggio cinematografico di atmosfere nevrotiche e scene metaforiche è fluente ed elegante; i paesaggi sono ormai tutto (non a caso Antonioni si serve di attori minori e spesso fuori ruolo) e l'intellettuale tiene salotto cinematografico con il suo virtuosismo.» (http://www.scaruffi.com/director/antonion.html.).

Dopo la lavorazione di questo film, Antonioni fu colpito da un ictus che lo paralizzò all'emilato destro e che lo rese afasico, costringendolo alla sedia a rotelle. Assistito dalla seconda moglie Enrica Fico, sposata nel 1985, continuò a lavorare tra grandi difficoltà (Enrica divenne la mano destra e la lingua di un intellettuale ancora vigile e attento che aveva detto: «Fare un film è per me vivere»). In quel periodo si diede soprattutto alla scrittura e alla pittura: «Per il regista dipingere e scrivere non sono operazioni estranee al cinema, ma anzi un “approfondimento dello sguardo”» (http://www.michelangeloantonioni.it/biografia.htm).

Appartengono a questo periodo: Ritorno a Lisca Bianca (1983) per Raitre – un breve documentario a colori sui luoghi del film L'Avventura –, Kumbha Mela (1989) – presentato a Cannes che utilizzava del materiale girato nel 1977 in India in occasione di una suggestiva festa religiosa –, 12 registi per 12 città (1989) con il segmento “Roma”, e diversi altri documentari.

Nel 1995, dopo più di un decennio, ritornò a girare, con l'assistenza dell'amico Wim Wenders, Al di là delle nuvole, tratto da alcuni racconti del suo volume Quel bowling sul Tevere (Einaudi, Torino 1983); ha scritto del film Gianni Canova: «irrisolto e didascalico, soffre di un eccesso d'ostentata “poeticità” nella sceneggiatura firmata da T. Guerra» (Cinema, le garzantine, Garzanti, Milano 2009). Nel 2004, il cortometraggio “Il filo pericoloso delle cose (The Dangerous Thread of Things)” (tratto da un altro racconto di Quel bowling sul Tevere e scritto da Tonino Guerra) fu inserito nel film Eros, insieme ai due cortometraggi girati da Wong Kar Wai e da Steven Soderbergh. Del 2004 è pure il documentario Lo sguardo di Michelangelo, che vede protagonisti i due “Michelangelo”: Antonioni e Buonarroti col suo Mosè.

Antonioni morì a Roma il 30 luglio del 2007 nella sua casa romana, all'età di 94 anni, spirando serenamente su una poltrona accanto alla moglie Enrica, per una coincidenza del destino proprio lo stesso giorno in cui scompariva il regista svedese Ingmar Bergman (altro intellettuale e cineasta che aveva fatto della crisi dell'uomo la materia viva dei suoi film, il più vicino ad Antonioni sia per lo stile asciutto e scarno, severo e intransigente – usato come elemento determinante d'indagine e rinnovamento –, sia per la tematica della solitudine dell'uomo e dell'incomunicabilità degli esseri umani soffocati dall'ipocrisia della società). Entrambi avevano creato una sorta di “neorealismo interiore” (espressione creata dai francesi per Antonioni) (http://www.michelangeloantonioni.it/biografia.htm). Michelangelo Antonioni fu sepolto nel Cimitero Monumentale della Certosa di Ferrara.

Di Antonioni ha scritto Gian Piero Brunetta (Storia del cinema italiano: dal 1945 agli anni ottanta, Editori riuniti, Roma 1982 e Cent'anni di cinema italiano, Laterza, Bari 1991): «[...] già nel 1961 Antonioni è assunto a forza nell'empireo dei massimi maestri del cinema mondiale e per merito dell'“Avventura” e della “Notte”, oltre che della “Dolce vita” [di Federico Fellini], il cinema italiano riguadagna quel prestigio che alla fine degli anni cinquanta appariva un po' appannato [...] alla misurazioni degli spazi reali Antonioni ha cercato di sostituire le misurazioni degli spazi interiori».

Aldo Tassone (I film di Michelangelo Antonioni: un poeta della visione, 3. ed., Gremese, Roma 2002) ha riportato molti commenti di colleghi di Antonioni: ha commentato Andrej Tarkovskij: «Antonioni fa parte della ristrettissima schiera di cineasti-poeti che si creano il proprio mondo, i suoi grandi film non solo non invecchiano ma col tempo si riscaldano»; ha scritto Alain Robbe-Grillet: «Per me Antonioni è il più grande regista vivente al mondo. L'insieme della sua opera è qualcosa di assolutamente monumentale, è un'opera che implica una vera e propria metafisica, un'opera che può essere studiata nelle Università come Flaubert e Mallarmé.»; Alain Resnais ha detto: «Le sue immagini sono molto ricercate, ma sempre necessarie. Antonioni maestro dell'astrazione al cinema? Io lo vedo piuttosto come un artista figurativo, perché fa sempre sentire con molta precisione dove ci troviamo […] Si è detto a volte che Antonioni è di ghiaccio: trovo che non sia affatto freddo, al contrario quel “ghiaccio brucia”. […] Si direbbe che Antonioni ci intrappoli continuamente per ipnotizzarci.»; ha commentato Francis Ford Coppola: «Ha lasciato un'impronta su centinaia di registi contemporanei»; ha oservato Stanley Kubrick: «Antonioni è il grande artista del nostro tempo» e Akira Kurosawa, a sua volta, ha scritto: «Nell'indagine dei sentimenti è sceso a profondità insondabili»; Claude Sautet  ha annotato: «Antonioni è stato il primo a trattare della difficoltà di comunicare. Forse è il vero erede di Pavese. Nei suoi film l'uomo non agisce, non è attivo, è complessato di fronte all'attivismo sentimentale, sensuale, creativo delle donne».

è stato osservato: «I film di Antonioni più che puntare sull'azione puntano a descriverne le conseguenze; con la “non azione” si compie l'opera di questo straordinario film-maker. […] Autore di una regia moderna strutturata filmando i cosiddetti “tempi morti”, gira sequenze e inquadrature che un altro regista avrebbe tagliato in fase di montaggio. Dunque una cinematografia complessa, lenta e riflessiva: montaggio essenziale, lunghi e statici piani sequenza intrisi di ripetuti silenzi, limitati dialoghi esageratamente intellettualistici se non al limite del comprensibile. […] e alla narrazione tradizionale viene preferita una casualità degli accadimenti che si evolve su percorsi poco prevedibili. Per Tonino Guerra Antonioni è: “sempre a un metro sopra della realtà”. Cinema ermetico, mai d'intrattenimento, intellettuale, […] La decisa e coerente intransigenza di autore “puro” senza compromessi è entrata in continuo contrasto con i produttori, che ritenevano una pellicola di Antonioni un rischio commerciale. Non solo! Anche con la censura ha dovuto spesso fare i conti. Dunque un cineasta ardito dal nessun compromesso! […] È dunque la critica della borghesia, presa come terreno di riferimento e studio, senza dubbio il tema ricorrente e preferito della cinematografia di Michelangelo Antonioni, tutta interiore, capace di narrare in modo straordinario l'inquietudine umana e sociale. La sua regia raggiunge altissimi livelli figurativo-stilistici nel rendere il rapporto tra i personaggi e l'ambiente; un cinema dentro cui si vaga senza raggiungere mai una meta.» (http://www.1aait.com/larovere/antonion.htm).

Giorgio Gosetti, in Michelangelo Antonioni il poeta dell’immagine, ha scritto che in occasione del centenario della nascita di Antonioni, la moglie Enrica Fico lo ha così ricordato: «Michelangelo non amava guardare indietro, diceva che è un atteggiamento che ci invecchia. Così il modo migliore di festeggiarlo mi pare cercare di capire quanto di segreto c'è ancora nella sua visione, un occhio del Novecento che guarda oltre». Il critico ha riportato che il regista Carlo di Carlo, «compagno di molte avventure e studioso di riferimento per la sua opera», ha osservato: «Parliamo di un artista che è stato un grande sperimentatore, consapevole e profetico nello stesso tempo, con un approccio alla cultura, all'immagine, alla musica e al suono del suo tempo che oggi possiamo dire unici». Conclude così Gosetti: «E nella mente, augurandogli buon compleanno, resta il ricordo del suo ultimo giorno su un set, del suo passo lento e solenne mentre esce dalla Basilica di Santa Maria in Vincoli dopo l'assorta contemplazione, un muto dialogo di sguardi, del Mosé di Michelangelo Buonarroti. Là due artisti si guardano e ciascuno racconta il suo mondo in una sintesi folgorante oltre il tempo.» 
(http://corriere.com/2012/09/25/michelangelo-antonioni-il-poeta-dellimmagine/).

Il lungo articolo “Michelangelo Antonioni: centenary of a forgotten giant” (comparso su http://www.guardian.co.uk/film/filmblog/2012/sep/27/michelangelo-antonioni-centenary-forgotten-giant) lamenta una certa indifferenza nei confronti di questo grande regista, creatore del “modernismo cinematografico” e focalizza l'attenzione sui suoi film più importanti. Confronta, inoltre, l'isola misteriosa de L'avventura alla misteriosa e inquietante formazione rocciosa australiana del film Hanging Rock di Peter Weir o alle Marabar Caves del film A Passage to India di EM Forster, epicentri di una “occult metaphysical crisis”: «Anna has dematerialised. Her atoms have been blown away in the wind. (Anna si è dematerializzata. I suoi atomi sono stati soffiati via nel vento)».

Per ricordare il centesimo compleanno di Michelangelo Antonioni, suo massimo orgoglio, il 29 settembre, il Comune di Ferrara ha programmato una grande festa con omaggi, mostre, una retrospettiva completa dei suoi film, una targa commemorativa sul prospetto della casa ove il regista abitò dal 1918 al 1929 e l'intitolazione di “Largo Michelangelo Antonioni” del piazzale antistante il Conservatorio musicale G. Frescobaldi
(http://www.ferrara24ore.it/news/ferrara/009920-sguardo-michelangelo-antonioni).


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