domenica 28 ottobre 2012

Don Siegel: il regista dell'anti–eroe “duro e puro” in lotta contro la società


Don Siegel


Il 26 Ottobre avrebbe compiuto cento anni Don Siegel (nato nel 1912 a Chicago, Illinois, USA, col nome di Donald), regista e attore ma non solo fu anche un ottimo montatore: aveva montato mirabilmente il mitico “Casablanca”. Indiscusso grande maestro seppe fornire al poliziesco d'azione e al cinema di fantascienza un'appassionante suspense, un ritmo frenetico e la giusta sintesi. Dal carattere schietto e al limite dell'anticonformismo, Siegel amò cantare l'antieroe e il protagonista antisociale, rappresentandolo nei suoi 35 film girati con forza e vigore, tensione e dinamismo.

Di origini ebraiche, si diplomò presso il Jesus College a Cambridge in Inghilterra (ove frequentò anche la Royal Academy of Dramatic Art) e per un breve periodo studiò Beaux Arts a Parigi. Questi prestigiosi studi europei gli meritarono la definizione d'“intellettuale d'azione” da parte di Peter Bogdanovich. Più tardi, intorno ai venti anni, si recò a Los Angeles e come attore calcò il palcoscenico con il Contemporary Theatre Group of Hollywood.

Siegel forgiò il suo talento in una lunga gavetta e in un continuo apprendistato: dal 1934 al 1942 lavorò in un centinaio di film per la Warner Brothers come direttore del montaggio; dal 1939 al 1943, sempre per la Warner Brothers, fu assistente alla regia e regista di seconda unità, facendosi le ossa (e che ossa!) in almeno una quarantina di film. Esplose, quindi, con due cortometraggi girati nel 1945: Star in the night (moderna e metaforica parabola sulla nascita di Cristo) e Hitler lives?, che vinsero l'Oscar per il miglior corto e il miglior documentario.

Era pronto, anzi prontissimo, per girare con piena maturità il suo primo film: La morte viene da Scotland Yard (The Verdict) (1946), tratto da un romanzo dello scrittore inglese Israel Zangwill (1864-1926) –  distintosi non soltanto per l'attività letteraria ma anche per l'impegno sionista –, basato sul meccanismo narrativo del “giallo in una camera chiusa” (un delitto viene compiuto in una stanza chiusa e inaccessibile), in epoca vittoriana e in una Londra rievocata in un modo evocativo mirabile. Iniziò così una carriera che per grande parte svolse “maltratto” dai produttori che lo costrinsero a budget modestissimi, ad attori di serie B e a tempi di riprese brevissimi e logoranti. Siegel era, tra l'altro, deciso a difendere con le mani e con i denti la propria indipendenza di regista.

La critica ha diviso i film di Siegel in due periodi: «il primo si situa tra il 1954 e il 1958, quando impresse al film d'azione a basso costo un vigore e un'intelligenza inconfondibile; il secondo tra il 1967 e il 1973, quando le maggiori risorse offertegli dai produttori gli consentirono un più ampio respiro» (“Don Siegel”, ne Il Cinema – Grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara, 1981, vol. 7, pag. 190-192). La critica ha fatto osservare come nei suoi film manchino spesso gli intrecci complicati e le psicologie complesse mentre il suo mondo narrativo appare talora povero ma rappresentato con un realismo crudo e serrato.

Al primo film seguì tutta una serie di film dignitosi e interessanti, tra i quali Il tesoro di Vera Cruz (The Big Seal) (1949), Fuga dall'Ovest (No time for flowers) (1952), Duello al Rio d'argento (Duel at silver creek) (1952), Le ore sono contate (Count the hours) (1953), Avventura in Cina (China venture) (1953), e Rivolta al blocco 11 (Riot in cell block 11) (1954), il suo primo film carcerario, un cinema verità nel quale usò come comparse detenuti veri, che «ruota esclusivamente attorno allo scontro tra detenuti e autorità, quasi mai uscendo dai limiti della prigione né cercando di approfondire il retroterra umano dei protagonisti» (“Don Siegel”, ne Il Cinema – Grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara, 1981, vol. 7, pag. 190-192); il film racconta la rivolta dei detenuti che desiderano soltanto un trattamento più umano (il direttore sembrerebbe dalla loro parte ma un politicante provoca un duro scontro), e fu visto come un sentito e vigoroso atto d'accusa contro il sistema carcerario (nel 1979 culminò in Fuga da Alcatraz, classico dei classici del cinema carcerario).

Il 1956 fu l'anno della sua grande svolta con L'invasione degli Ultracorpi (The invasion of the body snatchers) (1956), un classico di fantascienza–horror, si è parlato di «film-incubo leggibile in chiave politica… che soprattutto scandisce la disgregazione di una comunità di provincia ritratta attraverso il punto di vista soggettivo di un suo membro» – 
http://www.treccani.it/enciclopedia/don-siegel_(Enciclopedia-del-Cinema)/.
Scarno e “cattivo”, maturo e simbolico, fu interpretato anche come una metafora della Guerra Fredda e del Maccartismo, una parabola della paranoia anticomunista, un'allegoria del trionfo dell'individualismo e della paura del diverso e dello straniero ma anche come l'esemplificazione dell'incapacità di distinguere tra Bene e Male, tra essere umano e alieno. Tratto dall'omonimo romanzo di fantascienza di Jack Finney del 1955 e sceneggiato tra gli altri da S. Peckinpah (il quale comparve anche in un piccolo cameo d'attore), racconta che, nella piccola e perbenista cittadina di provincia californiana Santa Mira, alcune persone si accorgono che i loro parenti non sono più quelli che conoscono, e un medico, il dottor Miles J. Bennell (il bravissimo Kevin McCarthy) scopre prima un essere senza vita che sta per assumere le sembianze di un amico, poi un grosso baccello che sta germogliando dei duplicati e infine un camion che ha avuto un incidente e che porta degli enormi baccelli. Il terrore diviene palpabile perché molti uomini e donne durante il sonno potrebbero essere diventati dei duplicati a opera degli alieni, ma finalmente l'inascoltato e angosciato medico riuscirà a provocare, nella cittadina diabolicamente posseduta da alieni privi di sentimenti, in un crescendo ansiogeno, la messa in allarme generale. Don avrebbe voluto un finale più disperato ma il produttore Walter Wanger, che aveva partecipato in qualche modo alla sceneggiatura, lo convinse a una fine più consolatoria che lasciava un margine di speranza. Girato in un bianco e nero cupo e tagliente, a costi ridottissimi, con effetti speciali minimi (i misteriosi baccelli oggi appaiono abbastanza puerili), ebbe incassi non rilevanti ma col tempo è divenuto un leggendario film di culto. Più tardi disse del film lo stesso Siegel: «Né lo sceneggiatore, né io pensavamo a un qualunque simbolismo politico. Nostra intenzione era attaccare un'abulica concezione della vita.» (citato da Andrea Bosco in Ciak, anno VI, n° 5, maggio 1990). Nel 1978 il regista Philip Kaufman ne ha realizzato un remake a colori con notevoli effetti speciali, dal titolo Terrore dallo spazio profondo (Invasion of the Body Snatchers), con Donald Sutherland e Don Siegel in un cameo. Nel 1993 Abel Ferrara ha realizzato un secondo remake dal titolo Ultracorpi - L'invasione continua (Body Snatchers).

Beniamino Biondi ha scritto: «L'invasione degli ultracorpi fu un fiasco. Stati Uniti, 1956. Sono gli anni della Guerra Fredda […]. La verosimile fantascienza del film di Don Siegel, con la sua morale squisitamente ambigua tra perversione anticomunista e disubbidienza anticapitalista, era inevitabile si traducesse in un fallimento; gli americani non poterono comprendere, e laddove poterono non vollero farlo, la complessa ragnatela dei sottotesti simbolici del film e il sostanziale principio di ipostatizzazione compiuto attraverso la figura anfibia dell'alieno come (non) Totalmente Altro. […] Sono gli anni del realismo sociale; un realismo che non aggredisce e sfuma talvolta nell'oleografia, ma ad ogni modo un tentativo sincero di comprensione delle dinamiche sociali e della relazione tra miseria e delinquenza. Sono gli anni del cinema dell’inquietudine giovanile: Nicholas Ray con Gioventù bruciata, Laszlo Benedek con Il selvaggio. […] In fondo è lo scontro fra una visione umanistica e classica della cultura contro una visione antropologica e moderna, quasi che sia una lotta fra destino e storia. […] L’uomo di Siegel, nel corpus della sua restante opera, possiede un'umanità tale per cui egli stesso è il punto di fuga e di contestazione dalle sue proprie necessità e dalle sue conseguenze logiche d'azione, l'uomo fallibile nel suo stesso destino.»
(http://www.taxidrivers.it/28376/rubriche/delitto-nella-strada-di-don-siegel.html)

Nello stesso 1971 seguì Delitto nella strada (Crime in the streets) (1956), parabola del disagio giovanile di una classe sociale senza mezzi e senza valori, in una periferia urbana degradata, che fu un grande successo di pubblico e di critica sia negli Stati Uniti sia in Europa. Tratto dal teledramma del drammaturgo Reginald Rose (1920-2002), scritto nel 1955 per la trasmissione dell'ABC The Elgin Hour (12° episodio) diretto da Sidney Lumet, fu nel 1957 rielaborato da entrambi nel claustrofobico La parola ai giurati (Twelve Angry Men) (portato in scena recentemente in Italia da Alessandro Gasmann). Siegel ebbe il merito di chiamare alcuni bravi attori del teledramma di Lumet: John Cassavetes nel ruolo duro ed esaltato di Frankie (privato degli affetti e nichilista), e Sal Mineo nella parte di Angelo, che si meritò un Oscar per la sua interpretazione nervosa e di grande spessore psicologico. Questo film dipinge vita, imprese e amori di alcuni ragazzi ribelli nel quartiere italiano, che non hanno conosciuto altro che miseria e abbandono. Di notte le strade del quartiere newyorchese divengono terra di nessuno, alla mercé dei teppisti e della loro violenza. Il più duro di questi ragazzi disadattati, Frankie Dane, un ragazzo violento ma tormentato, è stato denunciato per una rissa e condannato a un anno di riformatorio; scontata la pena, Frankie medita la vendetta, seguito nel suo proposito omicida da due ragazzi della sua banda. Nella sua escalation di violenza arriva a picchiare la madre (che si sacrifica duramente per strappare i figli dalla miseria) e viene trattato da vigliacco dall'assistente sociale che lo segue senza successo ma che lui stima e nel quale vede forse l'assente figura paterna. Soltanto l'amore e la forza di un fratellino più piccolo, buono e affezionato, che lo ama e lo teme (del quale Frankie è geloso e che ha sempre umiliato), lo trattiene sull'orlo del delitto abbracciandolo e guardandolo con il suo sguardo innocente e puro. Frankie si costituirà insieme all'assistente sociale. «Ogni giorno si replica lo stesso disperato rituale: esasperato. L'odio feroce che il “duro” nutre per il mondo, chiuso nella solitudine più rocciosa, nel pessimismo più nero, nell'insensibilità più tenace. Infrante le speranze che i genitori avevano riposto in loro, per le quali si sono sacrificati tutta la vita e ora non possono far altro che piangere. Acuta la solitudine del ragazzo che ha coltivato soltanto rancore e soltanto rancore raccoglie.»
(http://www.scaruffi.com/director/siegel.html).

Con Michey Rooney, Siegel girò il film gangsteristico Faccia d'angelo (Baby Face Nebon) (1957) dedicato a un gangster psicopatico rivisitando temi e ritmi delle pellicole di gangster degli anni Trenta, filmato in 19 giorni e costato pochissimo; con Audie Murphy, Agguato nei Caraibi (The gun runners) (1958), tratto dal romanzo di Ernest Hemingway Avere o non avere (To Have and Have Not); con Elvis Presley e Dolores del Río, Stella di fuoco (Flaming Star) (1960); con Steve McQueen, L'inferno è per gli eroi (Hell is for heroes) (1962), film di guerra scarno e rigoroso, protagonista un suo primo antieroe – si è parlato di «ulteriore riflessione sull'asocialità e la solitudine dell'eroe, provocatoriamente disincantato, ma estraneo alla retorica patriottica come a quella antimilitarista», http://www.treccani.it/enciclopedia/don-siegel_(Enciclopedia-del-Cinema) – ; con Lee Marvin e James Coburn, Contratto per uccidere (The Killers) (1964) – remake del film di Siodmak I gangsters del 1964, tratto da un testo di Hemingway, del quale Siegel fu anche produttore – avrebbe dovuto essere un film Tv ma la NBC non lo mise in onda, giudicandolo troppo violento, e fu distribuito nel circuito cinematografico dalla Universal (si racconta che Ronald Reagan, che era tra i protagonisti, era il boss, lo odiasse perché temeva che potesse nuocere alla sua carriera politica per la sua spregiudicatezza e crudeltà); con Richard Widmark (nel ruolo del detective Daniel Madigan che ha soltanto tre giorni di tempo per acciuffare un bandito), Squadra omicidi, sparate a vista! (Madigan) (1968) sceneggiato da R. Polanski (nel 1972 dal film fu tratta una serie televisiva di successo in sei episodi della NBC, dal titolo Madigan, interpretata dallo stesso Richard Widmark); e con Walter Matthau, Chi ucciderà Charley Varrick? (Charley Varrick) (1973) (il regista si ritagliò un cameo come giocatore di ping–pong e fu anche il produttore del film), film pieno di azione e suspense, non privo di un certo umorismo che narra una rapina in banca, ove la mafia ricicla il suo denaro sporco, da parte di un vero acrobata che riesce a fregare tutti (vedere anche “10 capolavori di Don Siegel”, http://www.ifellini.com/10-capolavori-di-don-siegel/). è stato commentato: «Se Callaghan sembra incarnare uno smarrimento reazionario, Varrick impersona un moto libertario, ma entrambi i film raccontano la lotta di un personaggio solitario, in conflitto con quanti lo circondano, proteso alla ricerca di una soluzione personale che esclude quelle offerte dalla società.» –
http://www.treccani.it/enciclopedia/don-siegel_(Enciclopedia-del-Cinema)/. Si è scritto anche: «Dopo un giallo, Hanged Man (1964), iniziò infatti la serie dei grandi polizieschi, in cui l'eroe è un comune agente impegnato nella quotidiana lotta contro la malavita. Lo stile è quasi documentario: concisi, tesi, polemici. Sono anche squarci realisti della vita nelle metropoli americane. E sono impeccabili film d'azione. La metropoli è un labirinto popolato da criminali e il poliziotto è l'eroe che rischia la vita per mantenere l'ordine. […] è l'apologia di tutti i metodi duri e sbrigativi, non lascia nessuno spiraglio per discorsi sociologici o umanitari. […] è un altro trascinante film d'azione, ma sul versante più ironico della commedia degli equivoci. Al tempo stesso è venato di nostalgia per un'era d'individualismo che non potrà mai più tornare. […] I personaggi di Siegel tendono ad essere automi in un mondo in cui amore, pietà, amicizia, non esistono più. Ogni personaggio appartiene a una organizzazione (polizia, gang, etc.) non si riconosce più in essa ma ne accetta meccanicamente le regole. Non agiscono per difendere i loro valori morali o se stessi, come in Hawks, né per rapacità, come in Huston. Agiscono perché sono programmati per distruggere il loro nemico.»
(http://www.scaruffi.com/director/siegel.html).

Negli anni Settanta il destino di Don Siegel s'incrociò con quello di Clint Eastwood ed entrambi videro un rilancio della loro carriera. Eastwood era allora noto soltanto come il “cowboy di ghiaccio” della trilogia dei film di Sergio Leone ed era alla ricerca di nuove esperienze d'attore. D'altra parte, collaborando con una delle star maschili più popolari del periodo, Siegel ebbe maggiore libertà di scelta, budget discreti e tempi di lavorazione meno ansiogeni, ed ebbe la possibilità di divenire un “vero autore” distruggendo la nomea di “regista commerciale” che lo aveva sin lì sminuito. Con Clint Eastwood, Siegel girò cinque film, facendo di Clint il grande attore e l'indimenticabile maschera che è, e il grandissimo regista che è diventato (vincitore di quattro premi Oscar); si può dire senz'altro, infatti, che Eastwood ha raccolto il testimone da Siegel nel cinema di questi ultimi decenni. Clint gli ha in parte dedicato l'Oscar vinto nel 1992 per Gli Spietati di Sergio Leone. Nel 1969 Eastwood interpretò L'uomo dalla cravatta di cuoio (Coogan's bluff) (1969) – del film Siegel fu anche il produttore – che racconta di un ambiguo poliziotto anticonformista che dà la caccia a un ricercato a New York (a quell' uomo di legge, senza legge, Clint prestò la sua bella faccia maschia deformata da “un ghigno brutale” e la sua capacità di tenerezza ma anche d'inaudita violenza) ; disse Clint che Siegel aveva detto: «Se l'idea funziona me ne prenderò il merito. Se non funziona, sarà colpa tua» (citazione riportata in Richard Schickel, Clint Eastwood - L'uomo dalla cravatta di cuoio, prefazione a cura di Gianni Canova, Sperling & Kupfer Editori, 1999). Dello stesso anno è Gli avvoltoi hanno fame (Two mules for Sister Sara), una sorta di western–commedia con il solito antilirismo combinato a violenza esplicita e a humour graffiante tipici del regista: Clint è un mercenario che salva una falsa suora (Shirley McLaine) e infine fugge con i soldi rubati al governo e con la ragazza che lo ama. Iniziò così un modo di filmare più violento e rapido, e nacque un rapporto di amicizia così solido che – proprio grazie a Siegel – Eastwood poté iscriversi al sindacato americano dei registi ed esordire con il suo primo lungometraggio Brivido nella notte (Play Misty for Me), film sullo stalking, nel quale Don Siegel gli fece il dono di una sua piccola interpretazione come attore.

Nel 1971, sempre con Don, Eastwood fu il protagonista del film gotico e claustrofobico, quasi un'“agrodolce ghost-story”, La notte brava del soldato Jonathan (The Beguiled), che fu prodotto dallo stesso Siegel (melodramma cinico sulla guerra civile americana ma anche impietoso e acuto documento d'introspezione psicologica: un soldato nordista ferito giunge in un convento e «Pensa di essere arrivato in Paradiso ma è l'anticamere dell'Inferno»). «Film minore, ma vero capolavoro di Siegel. Un soldato ferito giunge, durante la guerra di secessione, in un collegio abitato esclusivamente da donne. In breve tempo diventa l'oggetto sessuale di tutte e, per questo motivo, andrà incontro a una sorte terribile. La macchina da presa ci conduce nel sottile gioco psicologico che s'instaura tra i protagonisti, disvelando angosce, tabù e perversioni nascoste nelle pieghe della società borghese» (da “10 capolavori di Don Siegel”, http://www.ifellini.com/10-capolavori-di-don-siegel/).

Seguì nello stesso 1971 il primo film della serie dell'ispettore Callaghan (Dirty Harry Callahan nella versione originale), Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo (Dirty Harry) (Siegel ne fu anche il produttore). In quel ruolo di poliziotto che diviene un “puro e duro giustiziere” travestito da carogna, con poca fiducia nella legge e con poca volontà di farla rispettare, Clint inizia una sua guerra privata contro un odioso assassino (da lui catturato ma rimesso in libertà per cavilli legali); lo ucciderà per poi buttare nel fiume il suo distintivo di poliziotto. L'attore provocò l'entusiasmo del pubblico e divenne una star indiscussa di Hollywood ma ebbe alcune puntualizzazioni della critica che non amò quel poliziotto “reazionario e fascistoide”, dai metodi troppo spicci e brutali, e dalla pistola troppo facile, sempre in lotta contro il sistema. Il film sorprese tutti perché Siegel aveva fama di progressista e fu visto come un attacco alle procedure garantiste e come «un'apologia di quel movimento conservatore “per la legge e l'ordine” sorto agli inizi degli anni Settanta»: «Ad alcuni parve che il film incoraggiasse atteggiamenti fascisti e liberticidi e che caldeggiasse una gestione meno garantista dei problemi della legge e dell'ordine» anche se in effetti si trattava dell'«estrinsecarsi di una moralità individualistica e romantica» (“Clin Eastwood”, ne Il Cinema – Grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara, 1981, vol. 7, pag. 196). Ritenuto una pietra miliare del poliziesco metropolitano (che da allora dilagò), la pellicola era ispirata a un fatto vero di cronaca che aveva terrorizzato San Francisco negli anni Sessanta e Settanta. «Eastwood, che viene dal western, è un glaciale esecutore della giustizia primitiva, brutale e sbrigativa. Il criminale è una sua ossessione, e in ciò il poliziotto non è meno psicopatico del delinquente. Il quale è a sua volta un fenomeno di degenerazione, viltà, spregevolezza, cinismo etc., un concentrato di mostruosità, di una malvagità senza limiti. Il film rimane comunque un capolavoro di thriller d'azione.»
(http://www.scaruffi.com/director/siegel.html). Da lì è nato quel genere di film d'azione divenuto un classico e ancora tanto imitato. Gli altri film della saga dell'ispettore Callaghan, diretti da altri, furono Una 44 Magnum per l'ispettore Callaghan (Magnum Force) del 1973 di Ted Post, Cielo di piombo ispettore Callaghan (The Enforcer) del 1976 di James Fargo, Coraggio... fatti ammazzare (Sudden Impact) del 1983 diretto dallo stesso Eastwood, e Scommessa con la morte (The Dead Pool) del 1988 di Buddy Van Horn.

Siegel è stato anche molto importante per la carriera di regista del grande Sam Peckinpah (1925-1984), convinto della «natura animale dell'uomo», schiavo di alcol e droga, soprannominato per la violenza dei suoi film “Bloody Sam”, spesso perseguitato ed emarginato dai produttori; lo coinvolse come “dialog coach” in diversi suoi film.

Nel 1976 Don girò un western non privo d'interesse, Il pistolero (The shootits), ultima dolente apparizione cinematografica di John Wayne, «un western crepuscolare, il cui eroe uccide più dei suoi nemici: uccide sé stesso e la sua epoca intera. Marcia funebre straziante del western»
(http://www.scaruffi.com/director/siegel.html). Racconta di un celebre pistolero, anziano e deluso, ma con la mira e la velocità di un tempo, con soltanto poche settimane di vita per un cancro, del quale tutti hanno paura, tranne un ragazzo che lo ritiene un eroe. Prima di morire il pistolero morente vuol saldare il conto con un vecchio nemico in un ultimo duello: riesce a ucciderlo ma il barista gli spara alle spalle proditoriamente ma arriva il ragazzo che lo vendica, uccidendo il barista. Rappresentò un vero e proprio “testamento spirituale” di John Wayne, malato anche nella realtà, e una “revisione” del mito dell'invincibile pistolero immortalato da un “eroe” del western americano. All'inizio scorrono scene tratte dai film del Duca in uno straordinario montaggio; si sovrappongono in modo magico l'attore John Wayne e il suo mitico personaggio: «Il film diventa così un'elegia verso lo stesso Wayne, che riveste la sua parte con grandissima dignità.» (“Il western degli Anni Settanta”, ne Il Cinema – Grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara, 1981, vol. 7, pag. 210).

Nel 1979 si ricostituì la mirabile coppia Siegel–Eastwood per Fuga da Alcatraz (Escape from Alcatraz), il capolavoro della maturità del regista – Siegel ne fu anche il produttore, selezionato alla Mostra internazionale del cinema di Venezia, tratto da una storia vera (un'evasione avvenuta nel giugno del 1962) e dal libro di Campbell Bruce, girato nella vera prigione sull'isola di Alcatraz di fronte a San Francisco. Film teso e realistico sin quasi a sembrare un documentario, Clint Eastwood v'interpretava in modo sobrio il galeotto laconico ma ansioso di libertà Frank Morris, l'unico detenuto che sia mai riuscito a evadere insieme con altri due uomini – i fratelli John (Fred Ward) e Clarence (Jack Thibeau) Anglin – da quel carcere di massima sicurezza ove i detenuti erano sottoposti a un regime durissimo. Clint consacrò finalmente il suo immenso talento con i suoi lunghi silenzi e i suoi sguardi memorabili, senza più discussioni di tipo ideologico. «Drammaturgicamente più vario del solito (i diversi personaggi hanno una psicologia umana che genera drammi teatrali), il film fa blocco attorno a Eastwood, che invece non ha personalità al di là di quella dell'evaso, un nobile e intelligente agente della sovversione contro la tirannide cieca e bieca.»
(http://www.scaruffi.com/director/siegel.html). Clint primeggiava finalmente da grande attore, confermando l'armonico feeling con Siegel che era riuscito a guidarlo in un ruolo veramente diverso e psicologicamente sfaccettato.

Seguirono gli ultimi due film di Don Siegel. La commedia giallo-rosa Taglio di diamanti (Rough cut) (1980): «Un film d'azione con lo spirito della “sophisticated comedy”, un “caper movie” con accenti alla Hitchcock. Reynolds è un ladro gentiluomo, ladro per vocazione, perché è già ricco; sulle sue tracce c'è Niven, ispettore flemmatico che adopera una bella cleptomane come esca. Il montaggio complesso e millimetrico trascina il film lungo le tappe di questa caccia al ladro; tutto alla fine si rivela falso.»
(http://www.scaruffi.com/director/siegel.html). E l'ironico film Un giocatore troppo fortunato (Jindex!) (1982), che racconta la vendetta di un croupier che seduce l'amante di un giocatore troppo fortunato, nel quale Siegel coinvolse come regista della seconda unità Sam Peckinpah, rilanciandone la carriera, e si ritagliò un cameo da attore per sé.

Don Siegel curò sempre molto le musiche dei suoi film: ebbe una lunga collaborazione con il compositore argentino Lalo Schifrin (plurinominato agli Oscar), capace di mixare elementi di jazz con risonanze rock ma usando anche elementi classici come i violini.

Negli anni Cinquanta Don Siegel lavorò anche in TV come regista e sceneggiatore, intensificando quest'attività televisiva negli anni Sessanta, in coincidenza del declino di Hollywood. Da ricordare: tre episodi di The Doctor (1952-1953); un episodio di Frontier (1955) dal titolo Paper Gunman; un episodio di Adventure Showcase (1959) dal titolo Brock Callahan; un episodio di Alcoa Theatre (1960) dal titolo The Silent Kill; un episodio di Bus Stop (1961) dal titolo Cherie; un episodio di Breaking Point (1963) dal titolo There Are the Hip, and There Are the Square; due episodi di Ai confini della realtà (The Twilight Zone) (1963-1964) dal titolo Uncle Simon e The Self-Improvement of Salvadore Ross; un episodio di Convoy (1965) dal titolo Passage to Liverpool; e un episodio de La leggenda di Jesse James (The Legend of Jesse James) (1965) dal titolo Manhunt.

Siegel fu sposato con l'attrice Viveca Lindfors (1948-1953) dalla quale ebbe il figlio Kristoffer; sposò in seguito, nel 1957, Doe Avedon (ex attrice e moglie del noto fotografo Richard Avedon) adottandone i quattro figli. Dopo un nuovo divorzio, si unì a Carol Rydall (ex assistente di Clint Eastwood) che gli rimase accanto sino alla morte. Morì di cancro a Nipomo (San Diego, California) il 20 aprile del 1991: aveva 78 anni.

Il regista ebbe modo di dire: «Di solito giro i miei film non tanto per trasmettere un messaggio quanto per divertire, ma non per questo mi sento un superficiale, poiché cerco di far sì che ogni mio film sia il più interessante e realistico possibile» (“Don Siegel”, ne Il Cinema – Grande storia illustrata, Ist. Geografico De Agostini, Novara, 1981, vol. 7, pag. 190-192).

Nel 1993 è stata pubblicato postumo A Siegel film: an autobiography (Faber & Faber, October 1996). Roberto Vaccino ha dedicato a Siegel una monografia (Donald Siegel, Il Castoro Cinema, Milano 1984).

Su “L'Osservatore Romano” del 25-10-2012 Emilio Ranzato ha ricordato il regista nell'articolo «Don Siegel, impressionista e metafisico come un gangster movie».

Si è scritto che Siegel ha mostrato «soprattutto nel genere poliziesco, grande capacità di rileggere schemi, intrecci e figure codificate per rappresentare la società americana senza pregiudizi e conformismi»
(http://www.treccani.it/enciclopedia/don-siegel/).

Nella sua presentazione del volume Il cinema di Don Siegel (a cura di Fabio Zanello, Associazione Culturale Il Foglio, Piombino 2011), Viviana Tarantino, parla di «personalità eclettica e stravagante, regista dalle mille sfaccettature, abile direttore di attori affermati e scopritore di talenti» e di «impiego della macchina da presa come endoscopio introdotto nelle pieghe del magma sociale, la sua capacità di modificare il corpo testuale dei polizieschi, della fantascienza e del western giustificano l'elevato interesse attorno alla sua produzione»; scrive ancora la Tarantino che il curatore del volume parla di un regista che «ha cambiato le regole del gioco, ha stravolto l'eloquenza del prodotto filmico, azionando la cinepresa come strumento di indagine e di anamnesi collettiva», osservando il tessuto sociale contemporaneo e comprendendone «le inquietudini e i fermenti, le tendenze, le agitazioni e le dinamiche tra le classi», per dar luogo a «un linguaggio polifonico» attraverso «un approccio cronachistico». Scrive la Tarantino: «Questa mirabile interpretazione del reale ancor oggi ha il pregio di risultare del tutto innovativa nel suo genere. […] Pur trattando materie scottanti, quali ad esempio la corruzione della polizia, le incongruenze giudiziarie, le rifrazioni e i tanti riverberi della vita nelle carceri, Siegel decide di non etichettare i suoi film come lavori di impegno politico, come al contrario fanno registi appartenenti alla stessa generazione (basti pensare a Elia Kazan e Sidney Lumet). Eppure la sua presa di posizione sulle tante questioni elaborate sono cogenti, rigorose, spietate. È anche per questo che Friedkin e Mann gli sono debitori.» 
(http://www.uzak.it/component/content/article/26/207-il-cinema-di-don-siegel.html).

Ha osservato Fabio Zanello nel capitolo introduttivo del volume da lui curato (che raccoglie numerosi contributi su Don Siegel): «L'identità dei film di Siegel è quella di aver dato vita a un'infinità di paratesti nel cinema americano del dopoguerra, capace di contestualizzare al meglio la realtà americana del tempo con tutti i suoi splendori e le sue contraddizioni, come avviene spesso nei film realizzati in periodi difficili centrati su anti–eroi come i detenuti Dunn e Morris, il mezzosangue Pacer, il medico Miles Bennel, il poliziotto Madigan, lo sceriffo metropolitano Coogan, il soldato nordista Jonathan, l'ispettore Harry Callagan e il rapinatore crepuscolare Charley Varrick» (Il cinema di Don Siegel, a cura di Fabio Zanello, Associazione Culturale Il Foglio, Piombino 2011).

Massimo Zanichelli ne “Il cinema poliedrico di Don Siegel”, parla di «cineasta poliedrico e tagliente che non si finisce mai di riscoprire e che si è cimentato con tutti i principali generi del cinema americano, diventandone uno dei narratori più vigorosi e disincantati»
(http://www.cinemarondinella.it/siegel.html).

Il Cinema – Grande storia illustrata (Ist. Geografico De Agostini, Novara 1981) ha dedicato un capitolo a Don Siegel (vol. 7, 190-192) in cui si scrive: «Pur essendo considerato da molti alla stregua di un esperto mestierante, Siegel ha trasceso il puro e semplice professionalismo, dirigendo asciutti thriller di forte tensione e film d'azione di grande spettacolarità»; si è osservato, inoltre, che Siegel fece parte di un gruppo di registi che negli anni Quaranta ebbero il «il gusto per l'aggressività e la violenza maschili, gli intrecci nervosi, il ritmo sostenuto e un certo pessimismo solo a tratti attenuato da un ottimismo progressista», suggestionati anche dalla “scuola dei duri” creata, per esempio, da Ernest Hemingway

A proposito di Siegel, Gianni Canova ha parlato di «precisione senza sbavature, quasi meccanica del suo stile» e di «vasta produzione caratterizzata nel complesso da uno splendido mestiere e da una saltuaria ispirazione»; ha scritto anche: «Dopo il 1950 la sua produzione sorretta da sceneggiature più valide, lo impone come uno dei narratori più vigorosi del cinema americano. […] A lungo sottovalutato dalla critica e dal pubblico perbenista, è stato rivalutato negli ultimi decenni come autore caratterizzato da crudezza stilistica e scetticismo morale, ma anche da un humour raffinato e sarcasticamente anticonformista» (Cinema, le garzantine, Garzanti, 2009).

Mauro Gervasini – nel suo recente Losthighway 3 (piccole storie di cinema) dal titolo Il caso Siegel è tuo” – scrive: «Ognuno ha i suoi modelli. Il nostro è Don Siegel.[…] Siegel incarna al 100% il nostro ideale di cinema. Pensiero e azione. Clint, diretto dall'amico e socio in cinque film, lo definisce un raro intellettuale hollywoodiano capace come nessun altro di “sentire” l'action. […] Le scene d'azione di Siegel, la costruzione della suspense, sono sempre esemplari e cristalline. […] Siegel è però eccelso soprattutto nel poliziesco. Come se tra guardie e ladri, macchine in corsa e asfalto che scotta trovasse una sua ideale dimensione»; Gervasini parla anche di «un proverbiale sguardo pronto a cogliere l'essenziale» (TV Film 2012, 20 - n. 43, pag. 13-15). 

Ha scritto Renato Venturelli: «In un periodo in cui il cinema americano stava attraversando una fase di forte trasformazione, spesso sulla base di superficiali rovesciamenti ideologici o stilistici, Siegel reinventò dall'interno la tradizione del cinema di genere, ignorando le tentazioni citazioniste e sviluppando uno stile personale, visivamente elaborato, dove i personaggi, i paesaggi e anche gli elementi apertamente simbolici si definiscono innervandosi in una logica serrata dell'azione. […] In tutti questi film, Siegel evita sia il giudizio morale sia l'esplicita polemica sociale: racconta i conflitti in modo asciutto e funzionale, trasmettendo la sua visione del mondo attraverso l'azione anziché il commento.» – http://www.treccani.it/enciclopedia/don-siegel_(Enciclopedia-del-Cinema)/.

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