sabato 6 ottobre 2012

Il romanzo popolare ha una sua dignità: Sibilla Aleramo e Luciano Zùccoli


Sibilla Aleramo                               Giuliana De Sio


Il romanzo popolare e quello d’appendice – nei quali è soprattutto protagonista l'amore –  costituiscono due generi letterari interessanti e da non sottovalutare; tra l’altro, per alcune pagine di questi libri, il confine con la letteratura alta è veramente labile e incerto.

Il grande pensatore e politico sardo Antonio Gramsci (1891-1937), tra i fondatori del Partito Comunista, nei suoi Quaderni dal carcere ha fatto una valutazione positiva del romanzo “social–popolare” e dei suoi eroi, che «quando sono entrati nella sfera della vita intellettuale popolare, si staccano dalla loro origine letteraria per acquistare la validità del personaggio storico».

Nella raccolta di saggi Tre donne intorno al cor… Invernizio, Serao, Liala (La Nuova Italia, Firenze, 1979), che prende il titolo dalla nota canzone allegorica di Dante “Tre donne intorno al cor mi son venute”, Umberto Eco ha coordinato diverse voci autorevoli in favore di questa forma di letteratura popolare.

Nell’ambito di questa letteratura popolare degna di attenzione, desidero citare Una donna, il romanzo autobiografico scritto nel 1906 da Sibilla Aleramo, pseudonimo di Rina Faccio (1876-1960), ricco di amore negato e passione, e animato da una femminilità tanto audace da rasentare un femminismo ante–litteram (ebbe un gran successo venendo tradotto in varie lingue). Di Sibilla e della sua vita inquieta si ricorda la relazione tormentata con Dino Campana (1885-1932), sensibile poeta tormentato dal “male oscuro” della psicopatia, e il suo impegno accanto a Giovanni Cena (1870-1917), col quale ebbe un rapporto sentimentale e con il quale si dedicò a una intensa opera di assistenza e promozione culturale delle donne umili dell'Agro pontino ciociaro. Il romanzo – che svela già tutte le componenti della personalità della scrittrice, una individualista con una forte sensibilità sociale – racconta in prima persona la vita di una donna anticonformista sin dalla fanciullezza che tale rimane sino alla maturità. Mentre il padre è un uomo forte, un industriale capitalista che sa trasmettere alla figlia degli ideali d’indipendenza, la madre le offre un modello di carattere assolutamente antiquato (troppo mite e sottomessa, andrà inevitabilmente verso la nevrosi e la demenza progressiva, finendo la sua esistenza in manicomio). La relazione extraconiugale del padre e una violenza sessuale subita da un suo impiegato mutano lo sguardo di Sibilla nei confronti del mondo maschile e maschilista. Costretta dal pregiudizio imperante a un matrimonio infelice con il suo violentatore, il marito si rivelerà un uomo gretto e brutale, e neanche la nascita di un figlio riuscirà a migliore un rapporto malato, portando la donna alla depressione e a un tentativo di suicidio. Trasferitasi con la famiglia a Roma, Sibilla collabora con una rivista femminile e quel lavoro intellettuale la rende più consapevole della sua identità femminile. Sarà in grado, infine, di lasciare il marito–padrone, pur sacrificando il figlio e il suo amore per lui, per riaffermare la sua dignità di donna. Nel 1977 ne è stato tratto uno sceneggiato televisivo in sei puntate per la regia di Gianni Bongioanni (sceneggiatura di Bongioanni e Carlotta Wittig) con Giuliana De Sio, Ileana Ghione, Biagio Pelligra, Ivo Garrani, Giovanni Pallavicino ed Emilio Cigoli. Aldo Grasso nella sua Enciclopedia della televisione (Televisione, le garzantine, Garzanti editore, Milano 2008) osserva come romanzo e sceneggiato raccontino «il desiderio di emancipazione femminile agli inizi del secolo attraverso la vicenda della protagonista Lina (De Sio), drammaticamente divisa tra costrizioni sociali e aspirazioni personali».

Non posso dimenticare, inoltre, i libri sentimentalmente tormentati di Luciano Zùccoli (1869-1929), specie La freccia nel fianco, che a partire dagli anni venti ha avuto numerose ristampe e un grande successo di pubblico. Mi piace raccontarvi qualcosa della trama del romanzo che narra l’amore fatale tra Bruno Traldi di San Pietro, detto Brunello, e Nicoletta Dossena, detta Nicla, conosciutisi quando lui era ancora soltanto un bambino. Brunello è «un piccolo uomo» precoce e seduttivo, conteso tra i genitori separati, e Nicla è «una ragazza» già delusa dalla vita. Insieme con il papà Fabiano, un gaudente scapestrato e un giocatore sfrenato, Bruno conduce una vita da piccolo adulto insieme alle giovani e corrotte compagne di lui. Accanto alla mamma, Clara Dolores, egli invece diventa un altro: «il bambino tornava bambino». Il libro consta di due parti. La “Prima parte” narra l’idillio giovanile tra Brunello e Nicla, casto e puro, pieno di tenerezza anche se venato di sensualità. Come tutte le donne dei primi del Novecento, Nicoletta è costretta a subire il volere dei genitori gretti e meschini, che conculcano le sue aspirazioni artistiche e che – per il desiderio di un titolo nobiliare – auspicano un suo matrimonio con Duccio Massenti, un conte ricco e vacuo, un uomo indegno di lei, che «conduceva nello stesso tempo due intrighi»: l’«avventura piacevole» con la mamma di Brunello «e il matrimonio solido» con Nicla. La ragazza respinge Duccio con «un rifiuto definitivo e senza discussione». Le anime di Brunello e di Nicla si somigliano, e i due diventano inseparabili e indispensabili l’uno all’altra, in una comunanza di vita e di sentimenti, sorprendente a causa della gran differenza d’età. Nicla è convinta che Brunello è venuto a cercarla come un piccolo Amoretto, e gli recita e canta gli amati romantici versi che il fanciullino ascolta con beatitudine mentre riceve le sue carezze quasi materne. Inseguito dai creditori, purtroppo, il padre fugge di notte all’improvviso portando con sé il bambino, senza che Brunello e Nicla possano salutarsi un’ultima volta. Attraverso il vetturale Brunello le promette che ritornerà e la prega di aspettarlo. E Nicla decide di aspettarlo per sempre, anche se forse invano! Nella “Seconda parte”, è raccontato il matrimonio di Nicla con Gigi Barbano, un onesto industriale del sapone, buono e sensibile, che ama la moglie e che per amor suo accoglie con fraternità e affetto il suo protetto; egli assiste poi impotente al trascolorare dell’idillio casto e tenero in una passione amorosa travolgente, che porta all’inevitabile adulterio e al tragico suicidio di Nicla. La lunga parte finale del libro è tutta dedicata a questo amore svelato ma fatale. Entrambi gli innamorati sperano di potersi accontentare di un affetto da fratello e sorella, ma ciò è impossibile, perché Nicla «spasimava per quella freccia di cui doveva portare il peso e il segno nel fianco tutta la vita». Nella campagna, ove si erano incontrati ragazzi e si erano donati reciprocamente l’anima e i pensieri (là dove i loro destini si erano fusi per sempre), in preda all’appassionata ondata dei ricordi, Nicla e Bruno si amano appassionatamente. Nicla, il mattino dopo, durante una tempesta, si lascia inabissare nelle onde paurose del lago con la sua piccola lancia, mentre Bruno (che è stato richiamato a Milano dalla madre), quando sa della morte dell’amata, crolla di schianto restando malato a lungo. Si strugge per mesi in «una invincibile malinconia», che gli ispira un libro che è «un poema di sconfinata angoscia» e che ne rivela il genio dandogli la gloria. Sulla candida tomba di Nicla: «Chiedeva a quella memoria la forza di vivere, come aveva giurato. Dandosi a lui per sempre, Nicla gli aveva gettato ai piedi l’aulente corona della vita. Ed egli gettava ai piedi della cara ombra la corona intossicata della gloria.».

Spero di essere riuscita nella difficile impresa di rendere in queste poche righe il succo del racconto e l’atmosfera così intensamente romantica (qualcuno forse parlerebbe di “romanticume”), oltre al profumo retrò di questo strano romanzo sentimentale, tipica esemplificazione della letteratura di gusto dannunziano del primo Novecento. Prima della pubblicazione in volume nel 1913, il testo uscì a puntate nello stesso anno sulla rivista “La Lettura”. Pur non essendo di altissima qualità, la scrittura sembra a me non priva di fascino e nobiltà (a me è capitato di leggerne una vecchia copia conservata nella vetusta biblioteca di casa). Nella trama, inoltre, si nota un certo approfondimento della psicologia infantile (col suo primo risveglio dei sensi e del sentimento amoroso) e una discreta analisi dell’inquieto sentimentalismo femminile d’inizio Novecento. La critica non attribuisce un gran ruolo a questo artista, il quale apparteneva a una larga schiera d’autori (comprendente Guido da Verona, Lucio D’ambra e Pittigrilli) che, nell’ambito di un realismo sentimentale e di un lieve gusto liberty, strizzavano l’occhio soprattutto alle vendite e al mercato. Essi fornivano al pubblico del tempo ciò che esso desiderava, vale a dire, trame ricche di colpi di scena (talora piuttosto ripetitive) e intrise di sensualità ed erotismo decadente. Non bisogna dimenticare però che, durante il fascismo, questi autori furono molto noti e più popolari di altri grandi letterati che allora si affacciavano sulla scena letteraria, quali Aldo Palazzeschi, Carlo Emilio Gadda, Alberto Moravia ed Elio Vittorini. Per esempio, il successo di questo romanzo fu tale che sino alla morte di Zùccoli il libro fu ristampato ogni anno.

Luciano Zùccoli è lo pseudonimo del conte Luciano von Ingenheim, uno scrittore svizzero naturalizzato italiano (Zùccoli era il nome della madre), discendente da un’aristocratica famiglia d’origine tedesca, che è stato molto letto e conosciuto all’inizio del Novecento ma che oggi è alquanto dimenticato. Nacque a Calprino nel Canton Ticino nel 1868; fu dapprima un ufficiale di cavalleria, poi giornalista e romanziere. Dal 1898 al 1900 fu direttore de “La provincia di Modena” (giornale da lui fondato), quindi dal 1903 al 1912 condirettrore e poi direttore de “La Gazzetta di Venezia” (che dovette lasciare per contrasti con la proprietà del giornale a causa del suo feroce antisemitismo). Fu poi collaboratore letterario del “Corriere della Sera” e “Illustrazione italiana”, e infine passò definitivamente dal giornalismo alla letteratura. In modo snobistico e autocelebrativo si definiva: «Riottoso e prepotente, bevitore e libertino, beffardo e cinico». Dopo aver perso la moglie, che pose fine alla sua vita col suicidio, si risposò con una giovane donna e si trasferì a Parigi.

Dal 1893 alla sua morte (avvenuta a Parigi il 26 novembre del 1929 per una polmonite), ispirandosi al romanzo francese contemporaneo, Zùccoli scrisse tutta una lunga serie di estese narrazioni e di brevi racconti di argomento “mondano”, nei quali con raffinata sensibilità e lieve superficialità ha rappresentato soprattutto i vizi e le virtù dell’alta borghesia (libera da impegni di lavoro e da problemi di denaro), che ben conosceva e cui apparteneva. Tra gli altri suoi romanzi, ricordo I lussuriosi (1893) – il primo romanzo pubblicato all’età di 25 anni – , Il designato (1894), Roberta (1895), Il  maleficio occulto (1901), Ufficiali, sottufficiali, caporali e soldati... (1902), L’amore di Loredana (1908), Farfui (1909) – un altro buon romanzo – , I piaceri e i dispiaceri di Trottapiano (scritto per i ragazzi nel 1914), Baruffa (1917), La divina fanciulla (1920), Le cose più grandi di lui (1922) vero bestseller degli anni venti e Persiana, pubblicato postumo nel 1930. Zùccoli nel 1924 scrisse la sua autobiografia dal titolo Luciano Zuccoli raccontato da Luciano Zuccoli.

Per la costruzione teatrale perfetta e per la presenza di situazioni fortemente drammatiche, diversi suoi romanzi, adatti a divenire delle sceneggiature, sono stati trasposti con buon successo per il cinema. Alberto Lattuada nel 1943 iniziò a lavorare al film “La freccia nel fianco” (per la sceneggiatura di Ennio Flaiano, Cesare Zavattini e Alberto Moravia) ma ne abbandonò la lavorazione dopo l’8 Settembre; il film (prodotto da Carlo Ponti) fu poi completato da Mario Costa nel 1945 con Leonardo Cortese, Mariella Lotti, Roldano Lupi e Paola Borboni (il film non ebbe grande successo ma è stato rivalutato in quest'ultimo decennio). Nel 1975 Ugo Gregoretti ha girato una parodia de La freccia nel fianco nel film dal titolo omonimo. Nel 1976 Giuseppe Patroni Griffi ha tratto il film “Divina creatura” dal romanzo di Zuccoli La divina fanciulla (1920), con Laura Antonelli, Terence Stamp e Marcello Mastroianni. Il film – che si aggiudicò due Nastri d'argento per la migliore scenografia e i migliori costumi – è stato definito da Il Dizionario Mereghetti «una rivisitazione calligrafica e ridondante del romanzo» (cui vengono meno l’ironia e la valenza femminista del racconto letterario); il Dizionario Morandini ha parlato di «cinema di grande sartoria» ma anche di «stolida e tragicomica burattinata, sontuosamente arredata, che si prende terribilmente sul serio» e ha giudicato l’Antonelli «inascoltabile» nel suo personaggio «senza spessore» (l'attrice è divenuta, tuttavia, una icona sexy del cinema italiano per il suo superbo nudo integrale).

I romanzi di Zùccoli possono considerarsi appartenenti alla “letteratura rosa”. Oggi, il romanzo rosa in Italia ha passato il testimone ai libri di Maria Venturi e Sveva Casati Modignani, mentre in Inghilterra si sono diffusi i romanzi di Barbara Cartland (scrittrice straordinariamente prolifica) e di Rosamunde Pilcher, con le loro protagoniste contemporanee ma sempre molto romantiche, oltre a Helen Fielding che – con quella simpatica pasticciona di Bridget Jones – ha donato al genere un po’ di pepe erotico e una ventata fresca di “verve”. In America, invece, il romanzo rosa moderno ha assunto tinte più ciniche e si è infarcito di forte erotismo: un nome per tutti, quello di Danielle Steel. Come non ricordare, ancora, la trilogia di Cinquanta sfumature di grigio, nero e rosso di E.L. James, grande successo di pubblico, o Diario di una sottomessa di Sophie Morgan, o Tutte le feste di domani di Veronica Raimo, o Cinquanta sfumature di estasi di Marisa Bennett, oppure 90 giorni di tentazione di Lucinda Carrington, rosa ma anche porno–soft.

Appare chiaro che questa letteratura popolare non mi dispiace! Nella mia predilezione per essa mi ritrovo in ottima compagnia: la grande Grazia Deledda, premio Nobel nel 1926, nel suo accolturamento da autodidatta, lesse con entusiasmo le storie d’appendice di Carolina Invernizio (1851-1916), autrice appassionata di romanzi truculenti e pieni di amori contrastati, rapimenti di dolci fanciulle, intricate vicende criminali e fosche avventure familiari grondanti sangue e raccapriccio (non mancavano, però, mai né il lieto fine né la redenzione dell’eroe pieno di coraggio o dell’eroina irresistibile). I romanzi Il bacio di una morta e La vendetta di una pazza della Invernizio (ristampati dalla Mursia), già dai soli titoli lasciano presagire sterminati panorami di avventure amorose e di pathos. Nella sua prima produzione letteraria, Deledda s’ispirò anche ai romanzi “feuilleton” di Ottavio Feuillet (1821-1890), soprattutto al notissimo Il romanzo di un giovane povero, e di George Ohnet (1848-1918), specialmente al suo Il padrone delle ferriere; da giovanissima, inoltre, scrisse racconti per un giornale di moda.

Naturalmente si tratta di letteratura femminile; infatti, l’approccio all’amore presenta differenze profonde nei diversi sessi, che naturalmente si rispecchiano nella letteratura. Karen Blixen (1885-1962), la grande scrittrice danese autrice di La mia Africa, a proposito delle differenze tra i due sessi, scriveva: «La donna si accontenta di essere; l’uomo ha bisogno di fare». Io aggiungerei che la donna si accontenta di essere, e soprattutto di essere amata e di amare; a differenza dell’uomo che presta grande attenzione alla razionalità e non si concede debolezze. La donna, infatti, si limita spesso a coltivare con cura soltanto l’orticello del suo mondo emozionale. Molte donne vivono nel mito di un amore appassionato e di due cuori straripanti, e coltivano la speranza di sperimentare nella loro vita l’amore–passione travolgente, sperando d’impadronirsi del cuore di un uomo perché possa divenire l’unico scopo della loro vita. è stato, forse, proprio questo atteggiamento che ha ostacolato quella liberazione della donna auspicata dalle femministe, e la piena realizzazione femminile nel lavoro, nella carriera e nella politica.


Concludendo, a mio parere, il romanzo popolare non appartiene a un genere inferiore ma rappresenta un tipo di letteratura minore e diversa ma certamente utile, avendo il merito di avvicinare al libro e alla lettura anche i lettori più semplici e più impreparati dal punto di vista culturale. Credo poi, che leggere sia pur sempre un bene per lo sviluppo dei sentimenti umani e se moltissimi lettori leggono questi romanzi ciò deve pur significare qualcosa. Purtroppo, nell’odierna cultura di massa, anche la lettura di tali libri (come di quelli letterari propriamente detti) è molto diminuita, sostituita dalla visione in TV dei “reality show”. 

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