domenica 16 dicembre 2012

Hermann Hesse e l'amore adolescenziale


Locandine di Steppenwolf e Francesco


Continuando a scrivere di Hermann Hesse, nel racconto Sul ghiaccio (1901) – tratto da un tascabile Newton intitolato “Amore” che contiene diversi piccoli racconti giovanili e poesie dedicate all’amore, scritti da Hermann Hesse nel periodo compreso tra il 1901 e il 1918 – il grande autore tedesco narra dell’amore durante il periodo adolescenziale, con tutte le sue trepidazioni e attese.

Hesse vi descrive il bacio dato da un compagno di classe quattordicenne alla ragazza più graziosa della scuola mentre pattinavano: «Baciato! questo era certamente qualcosa di diverso dalle insipide conversazioni e dalle timide strette di mano, che di solito venivano celebrate come la più alta delizia del condurre le ragazze. Baciato! Era il suono di un mondo estraneo, chiuso, timidamente presagito, che aveva il profumo invitante dei frutti proibiti, che aveva qualcosa di celestiale, di poetico, di indicibile, che apparteneva a quel territorio oscuramente dolce, seducente e terribile, da noi non nominato, ma per presagi conosciuto ed era parzialmente illuminato dalle leggendarie avventure amorose di qualche dongiovanni cacciato dalla scuola. […] Ma dovevano passare anni prima che il mio sogno si realizzasse e la mia bocca si posasse su una bocca rossa di fanciulla.».

Nel racconto Ricordi (1906) (in “Amore”), Hermann Hesse ricorda i baci finalmente dati, scrivendo: «Cose passate! Ma la cosa migliore non furono quei baci e neppure le passeggiate serali, o i nostri segreti. La cosa migliore era la forza che quell’amore mi dava, la forza lieta di vivere e di lottare per lei, di camminare sull’acqua e sul fuoco. Potersi buttare, per un istante, poter sacrificare degli anni per il sorriso di una donna: questa sì che è felicità, e io non l’ho perduta.». Com’è saggio tutto questo! Negli adolescenti, l’amore – anche quando non è ricambiato – per se stesso riempie di felicità e crea quello stato di perenne esaltazione che rende possibile qualsiasi cosa, anche la più straordinaria. Ricordo, inoltre, alcuni versi della poesia Amo le donne (1902): «Amo le donne, che mille anni fa / da poeti erano amate e celebrate. / […] / Amo le donne – snelle e meravigliose, / che ancora non nate riposano nel grembo degli anni. / Assomiglieranno allora con le loro bellezze / pallide come le stelle alle bellezze dei miei sogni.».

Per Hermann: «La felicità è amore, nient’altro. Felice è chi sa amare […] Felice è dunque chi è capace di amare molto. Ma amare e desiderare non sono la stessa cosa: l’amore è desiderio fattosi saggio. L’amore non vuole avere, vuole soltanto dare.». Di lui ricordo anche il seguente noto aforisma quanto mai veritiero: «L’amore si può mendicare, comprare, regalare, si può trovare per strada, ma non si può estorcere».

James Joyce, grande autore nordico, nell’autobiografico Dedalus (scritto nel 1904 quando aveva ventidue anni, ma rielaborato per più di dieci anni per essere pubblicato nel 1916 a New York col titolo Ritratto dell’artista da giovane, che divenne una delle opere fondamentali della letteratura del nostro secolo, la cui ricchezza sta appunto nell’originale mescolanza tra persona reale e personaggio ideale e la cui grandezza sta nella capacità di entrambi di «uscire da quel labirinto i cui meandri si chiamano infanzia, famiglia, collegio, città, religione e patria» e di scegliere per sé «quelle armi odisseiche che furono l’insegna di Joyce durante tutta la sua vita: silenzio – esilio – astuzia»), esprime con parole altrettanto calde il sentimento ineffabile di estasi che nasce nell’anima desolata e solitaria di un avvilito e confuso adolescente. Stephen Dedalus, vede una ragazza che «gli stava davanti in mezzo alla corrente: sola e immobile, guardando verso il mare. Pareva una creatura trasformata per incanto nell’aspetto di un bizzarro e bell’uccello marino.». Parlando di una specie di miracolo, scrive Joyce: «Gran Dio! – gridò l’anima di Stephen in uno scoppio di gioia profonda. Bruscamente le volse le spalle, incamminandosi attraverso la spiaggia. Aveva le guance infuocate, il corpo bruciante, le membra in un tremito. Si allontanò sempre avanti, avanti, a gran passi, sulle sabbie, cantando selvaggio verso il mare, salutando ad alta voce l’avvento della vita che lo aveva chiamato ad alte grida. L’immagine della ragazza gli era entrata nell’anima per sempre e nessuna parola avrebbe rotto il sacro silenzio della sua estasi. Quegli occhi lo avevano chiamato e la sua anima era balzata al richiamo. Vivere, errare, cadere, trionfare, ricreare la vita dalla vita! Un angelo selvaggio gli era apparso, l’angelo della giovinezza e della bellezza mortale, un messaggero dalle giuste corti della vita, per spalancargli innanzi in un attimo d’estasi le porte di tutte le strade dell’errore e della gloria. Avanti! Avanti! Avanti! S’arrestò d’improvviso e udì il suo cuore nel silenzio. Fin dov’era arrivato? Che ora era?». Accanto al cuore selvaggio della vita con la sua anima rinata dalla tomba dell’adolescenza, finalmente felice, Stephen grida: «Avanti! Avanti! Avanti!» [James Joyce Dedalus - Ritratto dell’artista da giovane, traduzione di Cesare Pavese, Aldelphi, 1970]. A Joyce, che ha saputo essere così lirico, dobbiamo tuttavia un paragone molto prosaico del rapporto tra i sessi: «L’uomo e la donna, e l’amore, cos’è mai tutto questo? Un tappo e una bottiglia.». Potrebbe anche essere vero, ma il contenuto della bottiglia è spesso un materiale esplosivo!

In Lettera di un giovane del 1906 (in “Amore”), Hermann Hesse enuncia il concetto dell’«amare per amare». Scrive il grande autore tedesco: «Mentre il dolore di un primo amore infelice mi tormentava e mentre un incompreso bisogno, una quotidiana malinconia, speranze e delusioni si agitavano in me, nonostante la depressione e le pene d’amore, ero in ogni momento felice nel profondo del cuore. Tutto ciò che mi circondava mi era caro e aveva qualcosa da dirmi, non c’era nulla di morto, nessun vuoto nel mondo. […] Da quel giorno fino a oggi non mi sono mai più realmente innamorato. Fra tutte le cose che conoscevo, nessuna mi appariva così nobile, ardente e lacerante come è l’amore verso le donne. Non sempre intessevo relazioni con donne o ragazze, né ne amavo sempre in tutta coscienza una in particolare, ma i miei pensieri erano sempre occupati in qualche modo dall’amore, e la mia adorazione del bello era in realtà una costante devozione verso le donne.». Com’è vero tutto questo! Negli anni giovanili, il sentimento dell’amore vive a prescindere dalla corrispondenza amorosa o dalla presenza di un essere amato.

Un amore di questo tipo, che s’innesca come nato da se stesso ma che si evolve in modo fatale, risalta in un altro racconto di Hesse, Sacrificio d’amore (1906) (sempre in “Amore”), ove un anziano aiuto–libraio narra all’autore un amore devastante che lo ha distrutto moralmente ed economicamente: «E se le dico che la mia vita è stata fiamma e vento di tempesta, rida pure, per carità! […] Ma volevamo parlare dell’amore, no? Dunque, che cos’è amore? A morire per una donna amata oggi si arriva di rado. Certo sarebbe la cosa più bella. – Non m’interrompa, lei! Non parlo dell’amore a due, del baciarsi, dormire insieme, sposarsi. Parlo dell’amore divenuto l’unico sentimento di una vita. Esso resta solitario, anche se, come si dice viene “ricambiato”. Consiste in questo, che ogni volontà e capacità di una persona tendono con passione a un unico scopo, e che ogni sacrificio diventa un godimento. Questa specie di amore non vuole essere felice, vuole bruciare e soffrire e distruggere, è fiamma e non può morire prima di aver divorato sin l’ultima cosa che possa raggiungere. Sulla donna che amavo non occorre lei sappia nulla. Forse era meravigliosamente bella, forse soltanto graziosa. Forse era un genio, forse no. Che importa, santo Dio! Essa era l’abisso in cui dovevo sprofondare, era la mano di Dio che un giorno penetrò nella mia vita futile. E da quel momento questa futile vita fu grande e principesca, capisce, d’improvviso non fu più la vita di un uomo di rango, bensì quella di un Dio e di un fanciullo, delirante e sconsiderata, bruciava e risplendeva. […] Per lei io fui tutto ciò che potesse allietarla, per lei fui allegro e serio, loquace e silenzioso, savio e pazzo, ricco e povero.». [Da “Amore”, a cura di Mirella Ulivieri, Newton Compton Editori, Roma 1993]

Ed è proprio così, quando si è ragazzi e si ama l’amore per l’amore! Questa calda sensazione si disperde purtroppo col passare degli anni: quando s’invecchia, i sentimenti si appannano e la furia delle passioni si smorza; ci si sente allora come rami rinsecchiti e si ha paura d’amare o di ammettere di essere innamorati.

Hermann Hesse è stato uno degli scrittori più prolifici (tra i più amati e letti nel mondo). Era nato in Germania a Calw (Württemberg) il 2 luglio del 1877 da Johannes, un pastore protestante estone dalla vita ascetica, e da Maria Gundert, una missionaria piena di fantasie e interessi letterari, conosciutisi in India. La madre era al suo secondo matrimonio: dalle prime nozze (sempre con un missionario) aveva avuto i due figli Theodor e Karl (i fratellastri di Hermann) mentre dalle seconde nozze erano nati sei figli (due dei quali morti subito dopo il parto). Maria era figlia di un coltissimo e importante linguista e studioso tedesco di sanscrito, anch’egli missionario calvinista. La ricca biblioteca del nonno fu utile per la formazione della grandissima cultura del giovane Hermann, che ben presto cominciò a mostrare intolleranza per la severità dell’educazione familiare impartitagli e per qualsiasi autorità precostituita: in modo particolare odiava la rigida e conformista scuola teutonica del tempo. I genitori erano religiosissimi cristiani di matrice pietista (molto impegnati nella dura difesa dei loro valori spirituali) e avrebbero voluto fare di Hermann un pastore protestante; lo obbligarono, pertanto, a frequentare il seminario di Maulbronn. Dopo un tentativo di fuga ritenuto una banale scappatella, il sensibile e ostinato Hermann fu riportato in seminario e lì cominciarono a manifestarsi i primi segni di una depressione nervosa che durò per tutta la vita e che lo portò a un tentativo di suicidio e al ricovero in una clinica per malati mentali. Dopo la minaccia di un secondo suicidio, i genitori si convinsero finalmente a fargli frequentare un ginnasio pubblico. Hermann non concluse però gli studi e tentò i diversi lavori di meccanico orologiaio, apprendista libraio, libraio e antiquario. Si trasferì quindi a Basilea (in Svizzera), conquistando una completa autonomia. Iniziava, intanto, a scrivere poesie e racconti.

Nel 1904 il suo primo romanzo autobiografico Peter Camenzind ebbe un discreto successo letterario: vi sosteneva con malinconia il tema romantico dell’autorealizzazione, possibile soltanto nell’isolamento e nell’emarginazione dalla comunità. Nel 1906 seguì il libro Sotto la ruota (Unterm Rad), d’ispirazione romantica, nel quale Hesse rappresentava in modo quasi tragico la crisi di uno studente stroncato dalla rigida disciplina della scuola prussiana. A 27 anni sposò Maria Bernoulli (più grande di lui), dalla quale tra il 1905 e il 1911 ebbe tre figli; la famiglia andò a vivere in campagna nella regione del Baden, a contatto di quella natura che Hermann tanto amava. Frattanto collaborava con riviste e giornali. Ben presto il matrimonio entrò in crisi per le difficoltà dello scrittore di conciliare i gravosi impegni familiari di una vita borghese con la sua attività artistico–letteraria. Nel 1910 scrisse una storia d’amore dal titolo Gertrud e nel 1914 pubblicò il romanzo Rosshalde, che narrava l’infelice storia di un adolescente conteso tra i genitori.

Durante il primo conflitto mondiale, Hermann (che non condivideva i sentimenti nazionalistici dei suoi compatrioti) si sentì travolto da un inappropriato senso di colpevolezza; e l’orribile catastrofe della guerra mise a dura prova il suo già precario equilibrio psichico, turbato ancor più da una malattia psichiatrica della moglie e dagli esiti di una grave meningite che aveva colpito il figlio minore. Questo infausto periodo produsse in lui un capovolgimento esistenziale straordinario. Per motivi politici si spostò nel Canton Ticino, ove rimase per tutto il periodo della guerra scrivendo alcuni libri sotto pseudonimo, sempre tormentato da continue crisi depressive, per le quali fece ricorso anche alla neonata psicanalisi. Nel 1919 pubblicò l’importante romanzo Demian, la storia della giovinezza di Emil Sinclair (Demian, die Geschichte von Emil Sinclair Jugend), che narrava lo sconvolgimento prodotto dalla guerra sulla vita di alcuni giovani universitari (costituì uno dei primi libri europei scritti sotto l’evidente influenza della psicanalisi). In quegli anni scrisse anche numerosi libri di versi, raffinati e pieni di tormento.

Nel 1921 prese la cittadinanza svizzera e iniziò a preparare il poema indiano Siddharta, uno dei suoi capolavori, pieno di grande spiritualità e frutto di un intenso studio delle religioni orientali e del Buddismo, iniziato dopo un viaggio in India compiuto nel 1911. Con questo testo riuscì a conciliare con successo il misticismo d’Oriente con la morale e la cultura d’Occidente (per la sua profonda sete d’assoluto e per l’esasperata ricerca dell’Io il libro è stato molto amato dai giovani di tutte le latitudini, e lo è tuttora).

Nel 1924 Hesse sposò Ruth Wenger, una cantante più giovane di lui, ma già dopo pochi mesi il matrimonio entrava in crisi. Nel 1927 divorziò e sposò Ninon Auslander, un’archeologa austriaca di origine ebraica che diventò la compagna affettuosa di tutta la sua vita. Nello stesso anno pubblicò il controverso romanzo autobiografico Il lupo della steppa (Der Steppenwolf), che in un ambito di amaro romanticismo narra la storia, i sogni e gli incubi di Harry, un solitario cinquantenne cupo e ombroso con un “Io” diviso in due metà, con due nature intrecciate (quella divina e quella diabolica) e due anime confuse che convivono in una continua e mortale inimicizia (quella dell’uomo col suo mondo immortale di pensieri, sentimenti spirituali ed elevata gentilezza, e quella del lupo col suo mondo caotico d’istinti selvaggi, libertà e forza indomita).

Durante il nazismo, del quale fu strenuo avversario, Hesse si legò di amicizia con molti letterati e artisti tedeschi e austriaci (tra i quali Thomas Mann), con i quali intrattenne un ricco epistolario e che cercò di aiutare durante il loro esilio politico.

Nel 1930 comparve Narciso e Boccadoro (Narziss und Goldmund), testo di alta letteratura, artisticamente perfetto, che fu un grosso successo letterario. Questo romanzo è ambientato in un vago e affascinante Medioevo e pone in contrapposizione due diversi protagonisti che nella loro diversità si attraggono e si completano: Narciso (spirituale e ascetico, vissuto lontano dal fango e dalle tentazioni del mondo nell’asfissiante atmosfera di un convento) e Boccadoro (artista bello e istintivo, dal cuore pieno di contrasti e di miserie, amante di una vita vagabonda senza patria, senza legami e senza fede). Molto sensibile ai materni «istinti originari», Boccadoro è straordinariamente capace di amare e donarsi: si sente attratto irrimediabilmente da tutte le donne, nel ricordo della mamma bella e selvaggia («la Perduta… l’ineffabile Amata») che lo aveva abbandonato quando era bambino.

Seguirono opere minori, di carattere autobiografico.

Nel 1935 Hermann fu lacerato dal suicidio del fratello Hans, che si sentiva uno spostato non avendo potuto realizzare le sue tendenze artistiche ed essendo stato costretto a un’attività di tipo commerciale; questo tragico lutto familiare gli provocò una nuova grave crisi esistenziale. Nel 1943 uscì Il gioco delle perle di vetro (Das Glasperlenspiel), strano romanzo di alto contenuto ideale e dal forte messaggio umano, scritto nell’ambito di una urgenza mistico–religiosa, forse il compendio più completo di tutti i suoi temi esistenziali più amati.

Nel 1946 ricevette il premio Nobel, conquistando sì la fama internazionale ma non la piena certezza della sua riuscita letteraria; diceva di sé «per metà leggenda, per metà ridicola figura». Si ammalò di leucemia, e morì per emorragia cerebrale a Montagnola (Lugano) il 9 agosto del 1962 all’età di 85 anni.        

Hesse ha sempre amato e ricercato soprattutto il tema del paese natio, inteso come focolare del cuore e luogo nostalgico della memoria, l’unico in grado di assicurare serenità e certezza nei duri affanni della vita («un pezzetto di patria… appena una parvenza di patria, ma pur cara per lunga consuetudine»). Definiva la vita come «l’inferno che arde sotto i nostri piedi»: quella vita che gli aveva procurato spesso grandi tristezze, perché vissuta attraverso il filtro grigio del “male oscuro” della depressione, la terribile malattia che tentò di contrastare – sempre e strenuamente – durante tutta la sua lunga esistenza.

P.S. Molti film sono stati tratti dai testi di Hermann Hesse

- Ricordo il film Steppenwolf del 1974, adattato dal libro di Hermann Hesse Il lupo della steppa (Der Steppenwolf) (scritto nel 1928), molto ricco di effetti visivi speciali. Il film vide sette anni di complicata pre–produzione da parte dei due produttori Melvin Abner Fishman (che era stato uno studente di Jung) e Richard Herland. Fishman ebbe il merito di stabilire le giuste relazioni con la famiglia di Hesse per avere i diritti per fare il film (sostenne più tardi di aver fatto “il primo film junghiano” della storia del cinema) mentre Herland raccolse i finanziamenti. Anche la regia fu problematica, divisa tra Michelangelo Antonioni, John Frankenheimer, l'attore James Coburn e alla fine anche Fred Haines (lo sceneggiatore). Gli interpreti furono Max von Sydow (Harry Haller), Pierre Clementi (Pablo) e Dominique Sanda (Hermine). Tutte queste difficoltà più altri errori, inclusa la stampa del colore, fecero sì che il film fosse poco visto.

- Liliana Cavani nel 1989 diresse Francesco con Mickey Rourke (Francesco) e Helena Bonham Carter (Chiara), Andréa Ferréol (madre di Francesco), Mario Adorf (cardinale Ugolino), Paolo Bonacelli (padre di Francesco) e il bravo Fabio Bussotti (Leone), un docu–dramma che nella forma del flashback racconta la vicenda di San Francesco d'Assisi, che da uomo ricco e cinico si trasforma in un uomo religioso e pieno di umanità, addirittura degno della santità (il film era basato sul Francesco d'Assisi di Hermann Hesse, che Liliana Cavani aveva filmato precedentemente nel 1966 per la televisione con Lou Castel come protagonista). Il film vinse un David di Donatello e due Nastri d’Argento, e ricevette una nomination a un altro David e una candidatura alla Palma d’Oro. La musica suggestiva era del compositore greco Vangelis. Hanno commentato i Morandini: «Nel 1226, morto Francesco, le sue vicende sono raccontate a turno da alcuni suoi compagni tra cui c'è Chiara. È violento e duro già nella cornice ambientale (un'Umbria umida, fosca, ventosa) cui hanno contribuito scene e costumi di D. Donati e la fotografia di G. Lanci e E. Guarnieri. Violento nella rappresentazione di guerra, prigionia, miseria, malattia, nella rievocazione della santità di Francesco, specialmente quando s'interroga, con uno strazio che sfiora la disperazione, sul silenzio di Dio. I suoi difetti sono quasi tutti per eccesso: ridondanza misticheggiante nelle musiche di Vangelis, una certa prolissità, spia di debolezza drammaturgica. Girato in inglese.» (il Morandini di Laura, Luisa e Morando Morandin, Zanichelli editore).

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