martedì 12 marzo 2013

Shakespeare, l'amore e la poesia


Henry Wriothesley, conte di Southampton   Mary Fitton

William Shakespeare ha visitato tutti i generi, traendo spunti dai miti classici, dalle narrazioni medievali, dalla cronaca contemporanea, dalla storia d’Inghilterra e dalle favole nordiche. Scrisse, infatti, drammi romani, storie d’orrori, poemi storici, commedie di corte, vicende di argomento romantico–cortese, comiche, farse plautine, tragedie romantiche, poemetti e sonetti, in cui ha trattato l’amore in tutta la sua lirica drammaticità, con verità e alto senso umano.


Shakespeare scrisse (probabilmente prima del 1600) 154 sonetti, in una forma metrica inglese, che è stata quella usata nei secoli successivi (tre quartine e un distico). Questi versi furono pubblicati senza il permesso dell’autore nel 1609 e rappresentano senz’altro il più importante “Canzoniere” inglese, vicino ai nostri gusti e alla nostra sensibilità, i cui temi sono quelli eterni di ogni età e ogni tempo.

Molti di questi sonetti d’amore di Shakespeare (le parti citate sono una mia traduzione letterale dal testo stabilito da W.J. Craig nel 1911) sono dedicati in parte a un “biondo amico” (fair friend), giovane e bello: probabilmente l’amico e mecenate conte di Southampton, al quale aveva già dedicato i due poemetti amorosi giovanili Venere e Adone e Il ratto di Lucrezia, che furono pubblicati direttamente dal drammaturgo inglese (in realtà, i curatori dell’opera shakespeariana del Settecento crearono una vera e propria mistificazione per mascherare l’evidente omosessualità di alcune poesie). Questo intimo amico di Shakespeare era Henry Wriothesley (1573–1624, terzo conte di Southampton; gli studiosi lo hanno identificato proprio nel misterioso “fair friend”, cui Shakespeare si rivolgeva nella prima parte dei suoi sonetti (e la prima edizione portava la sigla “Mr. W.H.”, che si riferiva evidentemente al conte di Southampton).

Un’altra parte dei sonetti è dedicata invece a un’amica misteriosa e volubile, la “dama bruna” (dark lady), scura fisicamente e moralmente. Era una donna certamente non bella ma molto seducente e desiderabile, cattiva e infedele, un «paradiso che guida a questo inferno» (s. 129), un’amante «nera come l’inferno, fosca come la notte» (s. 147) dagli «occhi neri come corvi» quasi vestiti a lutto (s. 127). Si trattava probabilmente di Mary Fitton (1578–1647), bellissima dama di corte della Regina Elizabeth: per lei Shakespeare, in un sonetto, conclude che «la vera bellezza è nera» (s. 132). Queste poesie mi hanno fatto pensare alla poesia Bruna sei tu ma bella (s. 372), dalle “Rime” di Torquato Tasso, che così recita: «Bruna sei tu ma bella / ed ogni bel candore, / perde col bruno tuo, giudice Amore. / Bella sei tu, ma bruna; / pur se ne cade incolto / bianco ligustro e negro fiore è colto. / Chi coglie ad una ad una / le tue lodi più elette? / chi te ne tesse in rime ghirlandette?». L’amore del poeta inglese per la “dark lady” è però un sentimento che porta il poeta all’abiezione: «Per questo io mento con lei e lei con me, / e nei nostri errori ci aduliamo mentendo» (s. 138).

Scrive Shakespeare che, pur tuttavia, l’Amore è eterno perché resiste impavido («Amore non è amore che muta quando scopre un mutamento») e non smette d’amare quando l’altro non ama più ma anzi è «un faro sempre fisso / che sovrasta la tempesta e non vacilla mai; / è la stella guida di ogni sperduta barca» (s. 116). L’Amore acceca con le lacrime, perché gli occhi non scoprano l’inganno (s. 148), e dona affanni non consentendo il riposo notturno, sì che «il giorno dalla notte, e la notte dal giorno, è oppresso» (s. 28). In queste liriche domina il senso della fragilità del vivere e della fugacità dell’esistenza, per cui «ogni cosa che germoglia / resta perfetta soltanto un breve istante» (s. 15). Si avverte il senso del tempo inesorabile «che cospira con la Morte», che evolve in modo furtivo verso l’eternità, che porta al disfacimento fisico «mutando il tuo giorno di giovinezza in fetida notte» (s. 15), e che «porta l’estate / verso l’orrido inverno e ivi la seppellisce» (s. 5).

William accenna spesso alla «furia… razzia… tirannia… lama del Tempo» e «al suo lesto e rovinoso passo» (s. 126). Nei suoi sonetti, vive l’orrore della vecchiaia che scolpisce la bella fronte del suo amore, tracciando brutte linee con la sua arcaica penna (s. 19) e che fa perdere la bellezza e tutto il tesoro dei suoi giorni splendenti nel fondo di due occhi incavati e spenti (s. 2). Sono inevitabili sia la triste separazione dall’amante, «anche se i nostri amori indivisibili sono uno e uno solo» (s. 36), sia la sensazione angosciosa di sentirsi divenire un estraneo con «amor mutato da quel ch’era un tempo» (s. 49). Vivendo lontano da lei e dalla sua ombra, la vita del poeta è divenuta ormai l’«inverno dell’assenza… la desolazione di un vecchio dicembre» (s. 97). Divengono palpabili, infine, il triste presentimento della morte e l’orribile consapevolezza del suo potere spietato; il poeta dice all’amata: «dopo la mia morte, amore caro, scordami completamente / […] / il mio nome sia sepolto ove sarà il mio corpo» (s. 72). Ma su tutto prevale sempre la certezza dell’artista che «in nero inchiostro l’amore mio splenda ancora luminoso» (s. 65) e che le «rime eterne resisteranno per sempre» (s. 38). Shakespeare è convinto che l’essere amato vivrà sempre «contro la Morte e le forze ostili dell’Oblio» (s. 55) e che «occhi non ancora nati attentamente leggeranno / e lingue future ripeteranno la tua esistenza» (s. 81).

Il poeta Shakespeare sa che – nonostante la clessidra del Tempo distruttore e la falce della Morte divoratrice – i suoi versi vivranno per sempre: «il mio amore nei miei versi vivrà giovane in eterno» (s. 19). E realmente i suoi versi e il suo amore, i suoi drammi e i suoi personaggi, sono vissuti in eterno, rappresentando un’immensa eredità per il genere umano e rivivendo nelle opere dei poeti e degli scrittori che lo hanno seguito e che a lui si sono ispirati! Milioni di persone ogni anno visitano Stratford–upon–Avon, e migliaia sono le nuove traduzioni delle sue opere, e centinaia i saggi su di lui pubblicati ogni anno in tutto il mondo, senza tener conto delle innumerevoli rappresentazioni teatrali e dei tanti film o documentari a lui dedicati.

Virginia Woolf, nel saggio Una stanza tutta per sé (cap. iii, traduzione di Maria Antonietta Saracino, I Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1998), con acume squisitamente femminile, a proposito delle reali possibilità di una donna di talento nel sedicesimo secolo, ha parlato ampiamente di Shakespeare: «[…] sarebbe stato impossibile completamente e interamente impossibile, che una donna scrivesse le opere di Shakespeare all’epoca di Shakespeare. […] era impensabile che una donna ai tempi di Shakespeare potesse avere il genio di Shakespeare. Perché un genio come quello di Shakespeare non nasce tra gente ignorante, asservita, costretta a fare lavori pesanti. […] E a questo punto aprii il volume che conteneva le tragedie di Shakespeare. Qual era lo stato d’animo di Shakespeare, ad esempio, mentre scriveva “Lear” e “Antonio e Cleopatra”? Era certo lo stato d’animo più favorevole alla poesia che mai sia esistito. Ma Shakespeare, personalmente, di questo non ha mai fatto cenno. Sappiamo solo, del tutto casualmente, che egli “non cancellava mai una riga”. […] la mente dell’artista, per poter realizzare l’impresa prodigiosa di liberare nella sua assoluta totalità l’opera d’arte che è in lui, deve essere incandescente, come doveva esserlo la mente di Shakespeare […] In essa non devono esservi ostacoli, né alcuna materia estranea che non sia stata consumata […] Ogni desiderio di protestare, di predicare, di proclamare un’ingiuria, di regolare un conto in sospeso, di rendere il mondo testimone di qualche difficoltà o patimento, tutto questo era stato bruciato dal fuoco che era in lui, e consumato. Pertanto la sua poesia sgorga fuori di lui libera e priva di impedimenti. Se mai essere umano giunse a esprimere completamente il proprio lavoro, questi fu Shakespeare. Se mai mente fu incandescente, libera da impedimenti, pensavo, volgendomi di nuovo verso lo scaffale, quella fu certo la mente di Shakespeare.». Virginia accenna anche al fatto che le donne non potessero essere attrici al tempo di Shakespeare (i ruoli femminili venivano ricoperti da giovani maschi dai tratti femminei) e riporta il pregiudizio di un critico e poeta elisabettiano che diceva che una donna che recitava gli richiamava alla mente un cane ballerino.

P.S. I film su Shakespeare e sulle sue opere sono stati innumerevoli, mi limito a ricordare soltanto il bel film Shakespeare in Love (1998), diretto da John Madden, soggetto e sceneggiatura di Marc Norman e Tom Stoppard, che racconta l’amore dello scrittore William Shakespeare (Joseph Fiennes) per la nobildonna Lady Viola De Lesseps (Gwyneth Paltrow) – promessa sposa di Lord Wessex (Colin Firth) – , la quale si finge uomo per recitare con lui durante la preparazione di “Romeo e Giulietta”, la cui rappresentazione alla presenza della regina Elisabetta (Judi Dench) sarà un trionfo. Il matrimonio di Viola però non può essere ritardato e Viola dovrà partire per la Virginia con Wessex; il suo amore con William (soltanto “una stagione rubata”), tuttavia, sarà per il poeta–drammaturgo una fonte di eterna ispirazione. Il film è stato un successo di pubblico e di critica: fu premiato con tre BAFTA, tre Golden Globe e ben sette Oscar su tredici nomination.

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