lunedì 29 aprile 2013

Antigone, Sofocle e Valeria Parrella



    Sofocle                           Antigone di Valeria Parrella
                                                      (regia di Luca De Fusco)



L'Antigone è certamente il capolavoro di Sofocle e il dramma greco che ha visto il maggior numero di trasposizioni e di riletture e riscritture; questo perché, come ha fatto notare il filosofo e pedagogista austriaco Rudolf Steiner (1861 –1925), Antigone è l'eroina che «esplicita un discorso sulla vita, sul coraggio, sull'autodeterminazione, su cosa significhi essere partecipi del Diritto oggi».

Dal 23 aprile al 5 maggio 2013, presso lo Stabile di Catania, si recita un'originale e inedita Antigone di Valeria Parrella (Torre del Greco, 1974), che non è «un esame dell'opera o una modernizzazione o una nuova traduzione» ma intende «mettere le mani nelle nervature della classicità», per la regia di Luca De Fusco con Gaia Aprea (Antigone), il legislatore Creonte (Paolo Serra) e Fabrizio Nevola (Emone). La produzione è del Teatro Stabile di Napoli, Fondazione Campania dei Festival, in collaborazione con l'Accademia di Belle Arti. In questo testo tratto da un libro della scrittrice Valeria Parrella (Antigone, L'Arcipelago Einaudi, 2012) – che è una «riscrittura libera e alta, carica d'intensità e di poesia») con al centro del racconto «il diritto all'eutanasia» – c'è un'ardita interpretazione: Polinice non è insepolto, bensì in morte cerebrale, e lo zio legislatore si rifiuta di considerarlo morto e di seppellirlo, per cui Antigone “stacca la spina” perché il fratello possa essere sepolto. Scrive l'autrice: «Antigone muove dunque continuamente da un mondo dei vivi, il nostro, a quello dei morti: quello del suo fratello e quello dell'orrenda “sepoltura” in vita delle carceri. Antigone e Creonte si fronteggiano determinati, tragici e costanti, senza mai perder terreno l'uno verso l'altro: anche se uno comanda e l'altro dovrà obbedire, poi la storia invertirà le parti lasciando colui che comanda senza scampo. […] Creonte resterà così solo, artefice del su stesso infausto destino, a maledire la propria stoltezza.». 

Ha scritto del libro la grecista Eva Cantarella (Corriere della sera, 23 ottobre 2012): «Ѐ un bel libro, questa Antigone, che riesce a conciliare la modernità del tema con una scrittura che, pur essendo sciolta e duttile, evoca felicemente il tono alto della tradizione letteraria della quale la nostra lingua colta è erede. E dimostra ancora una volta che la tragedia antica non ha bisogno di essere “attualizzata”. Ѐ e sarà sempre attuale.». A proposito dell'originale regia teatrale di De Fusco, ha commentato Enrico Fiore (Il Mattino, 28 settembre 2012): «Mi pare che la regia di Luca De Fusco sottolinei con adeguata precisione tali pregi del testo. I personaggi, materializzandosi dal buio come soprassalti della coscienza, vengono sovrastati, in quanto corpi, dall'immagine dei loro volti proiettata in primo piano e, così, ricondotti alla propria natura d'idee. […]». Ha osservato, invece, Rodolfo Di Giammarco (La Repubblica, 30 settembre 2012): «Inizia e finisce con un eccesso, con Antigone sospesa nell'aria come per un “cielo sopra Tebe”, la messinscena di Luca De Fusco per l'Antigone sofoclea ben riscritta con linguaggio alto e temi odierni da Valeria Parrella. Ma la regia di De Fusco tutela poi con efficaci sottrazioni di enfasi, a rischio di minor spettacolarità, la disputa etica della tragedia […]». Angela Di Maso (Roma, 28 settembre 2012), infine, scrive: «L’Antigone, metafora dei diritti del singolo contro dittatura e totalitarismo, – o per dirla alla maniera dell’esistenzialista Emmanuel Lévinas, contro “totalità e infinito” – di Luca De Fusco è una pittura compatta: la sua costruzione meta teatrale, cinematografica e sinfonica, convince.». 

Tra le diverse rielaborazioni, ricordiamo la tragedia di Vittorio Alfieri, l'opera lirica di Arthur Honegger su libretto di Jean Cocteau e la fiera e “ribelle” Antigone di Jean Anouilh (cui ho dedicato un articolo di questo mio blog, silvia-iannello.blogspot.com/2011/12/jean-anouilh-e-la-fiera-ribelle.html).

Ma veniamo all'Antigone di Sofocle, il cui antico mito è stato rielaborato dalla Parrella spostando il problema critico della sepoltura di Polinice su quello – attualissimo – dell’eutanasia. L’opera, che appartiene al ciclo dei drammi tebani, fu rappresentata per la prima volta ad Atene, alle Grandi Dionisie del 442 a.C.

La trama è nota: Antigone decide di dare sepoltura al cadavere del fratello Polinice, contro la volontà dello zio Creonte, nuovo re di Tebe e zio (è il fratello di Giocasta, madre di Antigone). Catturata, Antigone è condannata dal Creonte a passare il resto della vita imprigionata in una grotta. Per le profezie dell’indovino Tiresia e per le suppliche del Coro, infine il re si decide di liberarla, ma è ormai troppo tardi perché Antigone si è impiccata. Il fatto innesca tutta una sequela di tragedie: il figlio del re e fidanzato innamorato di Antigone, Emone, disperato si suicida, seguito dalla madre e moglie di Creonte, Euridice (che nulla ha che vedere con l'omonima moglie di Orfeo). A Creonte non resta che la disperata solitudine a causa della sua cieca stoltezza.  [La traduzione dei brani utilizzati è di Ettore Romagnoli]

Nel Prologo (la scena si svolge sull'acropoli di Tebe, dinanzi alla reggia, dalla quale escono Antigone e Ismene): è l’alba disperata che segue la morte di Eteocle e Polinice, figli di Edipo, che si sono uccisi l'un l'altro per combattere nella difesa del trono di Tebe. Antigone, la sorella, informa Ismene, l'altra sorella, che lo zio Creonte, nuovo re della città, vuol seppellire e dare onoranze funebri al corpo di Eteocle ma vuol lasciare insepolto quello di Polinice.
Dice Antigone: «O mia compagna, o mia sorella, Ismene, / sai tu quale dei mali che provengono / da Èdipo, Giove sopra noi non compia, / mentre siamo ancor vive? Oh!, nulla v'è / di doloroso, di funesto e turpe, / di vergognoso, che fra i mali tuoi, / fra i mali miei visto non abbia. / […]». E racconta alla sorella ignara il bando che il Signore di Tebe aveva appena fatto gridare per la città (chi avesse seppellito Polinice sarebbe stato lapidato): «Non sai tu che Creonte, onor di tomba / concesse all'uno dei fratelli nostri, / l'altro mandò privo d'onore? Etèocle, / come la legge e la giustizia vogliono, / sotto la terra lo celò, ché onore / fra i morti avesse di laggiù; ma il corpo / di Poliníce, che perì di misera / morte, ha bandito ai cittadini, dicono, / che niun gli dia sepolcro, e niun lo gema, / ma, senza sepoltura e senza lagrime, / dolce tesoro alle pupille resti / degli uccelli, che a gaudio se ne cibino. […]». Antigone sostiene che vuole però seppellire anche il corpo di Polinice, sfidando così l’ordine del re. Chiede alla sorella un aiuto ma Ismene, spaventata, glielo nega lasciando sola Antigone a tentare la pericolosa impresa. Così parla Ismene: «[…] / Ora noi due, sole rimaste, vedi / quanto sarà la nostra fine orribile, / se i decreti del principe e il potere / trasgrediremo, della legge a scorno. / Ed anche a ciò convien pensare: femmine / siamo, e non tali da lottar con gli uomini; / e assai più forti son quelli che imperano; / e obbedire dobbiam dunque ai loro ordini, / e se fosser più duri. Io dunque, ai morti / chiedo perdono, poi che son costretta,/ ed ai potenti obbedirò: ché ardire / oltre le proprie forze, è cosa stolta.». Risponde Antigone alla sorella: «[…] / Sepolcro io gli darò; bella, se l'opera / avrò compiuta, mi parrà la morte. / E cara giacerò presso a lui caro, / d'un pio misfatto rea: poiché piacere / più lungo tempo a quelli di laggiù / debbo, che a quelli che qui sono. / […] / Or me, la mia follia, lascia che soffrano / l'orrenda pena: niun saprà convincermi / ch'io non affronti questa morte bella. / […]».

Entra allora il Coro degli anziani di Tebe, in trionfo perché l’esercito invasore guidato da Polinice è stato sconfitto da quello tebano capitanato da Eteocle, annunciando l'arrivo imminente di Creonte, il nuovo re di Tebe. Così conclude il Coro: «[…] / Soltanto i due miseri figli / d'un grembo, d'un padre, le lancie / entrambe vittrici, appuntando / al seno un dell'altro, retaggio / di morte comune riscossero.». E Creonte, dopo un lungo discorso, conclude dicendo: «[…] / Ed ordini conformi intorno ai due / figli d'Èdipo, bandir feci: Etèocle, / che per questa città, poi che ogni prova / di valore compie', pugnando cadde, / si seppellisca, e quanti onori spettano / ai più illustri defunti, a lui si rendano; / ma suo fratello, Poliníce, dico, / l'esule che tornò, che il patrio suolo / strugger volea col fuoco, e i Numi aviti, / che del sangue fraterno abbeverarsi / voleva, e trarre gli altri in servitù, / costui col bando imposi alla città / che niun gli dia sepolcro, e niun lo pianga, / ma si lasci insepolto, e, divorato / dagli uccelli e dai cani, e, deturpato, / sia visibile il corpo. È questo il mio / divisamento: ché non mai da me / avranno uguale onore i buoni e i tristi: / sol chi devoto alla città si mostra, / in vita e in morte, onore avrà da me.». Subito dopo arriva però un soldato, uno dei custodi posti a guardia del cadavere di Polinice, che appare timido e impaurito e che vuol parlare al sovrano per dirgli che qualcuno ha contravvenuto al suo ordine, gettando della sabbia sul corpo di Polinice e compiendo il rito funebre: «Te lo dirò. Qualcuno ha seppellito / poco fa quel defunto, ed è scomparso: / sopra le membra sparse arida polvere, / tutte compie' le cerimonie debite.». Creonte è furioso, convinto che tale atto sia opera di tebani contrari al suo governo, e ordina alla guardia di trovare i colpevoli.

Il Coro si mette allora a fare un elogio dell’ingegno umano, delle molte cose mirabili al mondo ma nessuna pari all’uomo che ha saputo sottomettere la terra e gli animali, organizzando la vita civile attraverso delle buone leggi; il Coro avanza però anche la possibilità che l’ingegno umano voglia volgersi al male e distruggere quelle stesse cose che ha costruito.

Riappare la stessa guardia che trascina Antigone e che racconta che – dopo aver rimosso la sabbia dal corpo di Polinice – era rimasto in osservazione e aveva visto la fanciulla che ritornava a ricoprire il corpo: «Questa è colei che l'opera compieva: / costei sorpresa abbiamo, che al cadavere / dava sepolcro. Ma dov'è Creonte? / […] / E reco a te questa fanciulla, còlta / che la tomba adornava; e non fu d'uopo / di trarre a sorte: mia fu la fortuna, / non d'altri. E adesso, o re, prendi costei, / come ti piace, esàminala, giudicala; / ma giusto è ch'io dai guai rimanga libero.». Interrogata da Creonte, Antigone non nega («L'ho compiuta: confesso, e non lo nego.») ma sostiene con vigore che la sepoltura di un cadavere è un rito voluto dagli dei, di molto superiori a Creonte: «Non Giove a me lanciò simile bando, / né la Giustizia, che dimora insieme / coi Dèmoni d'Averno, onde altre leggi / furono imposte agli uomini; e i tuoi bandi / io non credei che tanta forza avessero / da far sì che le leggi dei Celesti, / non scritte, ed incrollabili, potesse / soverchiare un mortal: ché non adesso / furon sancite, o ieri: eterne vivono / esse; e niuno conosce il dì che nacquero. / E violarle e renderne ragione / ai Numi, non potevo io, per timore / d'alcun superbo. […] / Tu dirai che da folle io mi comporto; / ma forse di follia m'accusa un folle.».

Furioso, il re le rinfaccia il non aver rispettato i suoi ordini e, rimproverandole l'esser soprattutto donna, le imputa la sua condanna a morte, nonostante Antigone sia sua nipote (la ragion di Stato deve prevalere sugli affetti). Creonte coinvolge anche Ismene: «[…] / Ma figlia sia d'una sorella, o stretta / a me di sangue più di quanti Giove / protegge sotto i miei tetti, all'orribile / sorte sfuggire non potrà, né seco / la sua sorella: ché non men di questa / dell'averlo sepolto io quella incrìmino. / […]». Antigone si difende e accusa Creonte di tirannia: «Che dunque indugi? Delle tue parole / niuna m'è grata, e mai non mi sarà / grata: anche a te, così, piacer non possono / le mie. Ma donde mai gloria più fulgida / acquistare potrei, che al mio fratello / dando sepolcro? E lode a me darebbero / tutti costoro, se terror le lingue / non rinserrasse: privilegi ha molti / la tirannide; e questo anche fra gli altri: / che dire e far ciò ch'essa vuole può.».

Ismene, chiamata, si mostra desiderosa di morire con Antigone: «Se consente costei, confesso: complice / sono, e con lei partecipo la colpa.». Antigone rifiuta però il suo sostegno: «Morir meco non devi, e far tuo quello / che non compievi; la mia morte basta. / […] / Salva te stessa: invidia io non ne avrò. / […] / Tu la vita scegliesti, ed io la morte. / […] / Fa' cuor! Tu vivi; e da gran tempo è morta / l'anima mia: potrà giovare ai morti. / […]». Ismene ricorda allora a Creonte che ucciderà Antigone, la sposa promessa di Emone: «Ma non com'era questa a quello adatta!». Implacabile, Creonte le risponde: «Pei figli miei detesto tristi femmine!».
Creonte fa trascinare entrambe incatenate ma la sua condanna riguarda la sola Antigone.

Sconsolatamente il Coro si lamenta su come sia effimera la vita umana e colpita continuamente da sventure che non mostrano un disegno comprensibile agli uomini: «[…] / Ed or, su l'estrema radice, / nella casa d'Edìpo, una luce / brillava; ma polvere / sanguigna degl'Inferi, / follia di parole / adesso, e delirio di mente la spengono. / […] / Spesso il male sembra un bene / ad un uomo a cui la mente / volse un Nume alla rovina. / E da rovina ben poco tempo lontano resta.».

Appare intanto Emone, figlio di Creonte, crucciato per Antigone, che è la sua promessa sposa, e «doglioso per la speme di nozze delusa», ma Creonte è risoluto e gli dice: «[…] / Mai la lusinga del piacer di femmina / di senno uscire non ti faccia, o figlio. / Freddo, sappi, è di femmina l'amplesso / che sia trista compagna del tuo talamo: / piaga peggior non c'è d'un tristo amore. / […] / Male maggiore invece non esiste / della mancanza d'ordine: per questa / vanno in rovina le città, disperse / vanno le case, le schiere alleate / fuggono infrante dalla pugna. Invece, / la disciplina dà vittoria, e salva / ai più la vita. È necessario dunque / difendere le leggi, e a nessun patto / consentir che una femmina ci vinca. / Se cadere si dee, meglio cadere / per man d'un uomo: dir non si potrà / che noi fummo più fiacchi d'una femmina.». Il figlio dovrà sottostare necessariamente al suo volere di suo padre. Inutilmente, Emone ribatte che il popolo è con Antigone e desidera che sia salvata: «[…] / La tua presenza, sbigottiti rende / i cittadini, sì che non ti dicono / mai ciò che udire non ti piace: invece / io tutto posso udir, quanto nell'ombra / dicendo van: che la città commisera / questa fanciulla, immacolata più / d'ogni altra donna, e che compiuta ha l'opera / la più nobile, e in cambio ne riceve / la più misera morte. […]». Creonte furioso, chiamandolo ribaldo e servo d'una femmina, minaccia il figlio di uccidere Antigone davanti ai suoi occhi: «[…] Ah! per l'Olimpo, a te l'ingiurie / pro' non faranno, sappilo. – Recate / qui l'odiosa femmina: morire / deve innanzi al suo sposo, al fianco suo.».

L'infelice e disperato Emone si allontana furibondo: «Innanzi a me? Non lo sperare, no! / Ella a me presso non morrà, né tu / il viso mio vedrai più: con gli amici / che a te son ligi, resta al tuo delirio.». Creonte manifesta al Coro il suo desiderio di condanna per Antigone: «In un sentiero dove uomo non trànsiti / la condurrò, la seppellirò viva / in un antro roccioso; e accanto a lei / tanto cibo porrò, quanto sol basti / ad evitare il sacrilegio, a rendere / immune Tebe dal contagio. […]». Il Coro intona allora un canto in onore di Eros che trascina con forza e rende folli coloro che da lui sono colpiti.

Esce dalla reggia, fra le guardie, Antigone condotta al supplizio. Mentre il Coro è solidale con lei, Antigone si lamenta del proprio destino che la condanna a morire prima di conoscer qualcosa del matrimonio: «[…]: alle mie soglie / inno di nozze non suonò, ché sorte / non m'ebbi d'Imenèi: / io sarò sposa al Nume della Morte. / […] Oh misera! / Ospite non di vivi / né di morti, non d'ombre / né d'uomini sarò. / […] / E tu fratello, quali tristi nozze / avesti in tuo retaggio! / Morendo, me struggesti / ch'ero tuttora in vita. / […] / Non pianto, non amici, /  non inni nuziali: a me s'appresta / sol questa via funesta. / […]». Appare Creonte che sostiene di non voler contaminarsi con il crimine odioso agli dei di uccidere una consanguinea e di aver deciso di gettare Antigone in una grotta perché possa vivere o morire lontano da tutti: «[…] Volete in fretta / condurla via? Nella profonda tomba, / come v'ho imposto, sia rinchiusa, e sola / vi sia lasciata, e ch'ivi morir debba, / o in quell'antro restar viva sepolta. / Pure del sangue suo le mani avremo; / ma sarà priva del consorzio umano.». Questa decisione non rallegra Antigone che immagina il suo futuro solitario e disperato, pur essendo innocente («E qual giustizia di Numi violai?»). Mentre così conclude: «[…] / Vedete, o signori di Tebe, / che debbo soffrir, da quali uomini, / perché pietosa volli essere, / io, sola superstite / del sangue dei re.». Le guardie la portano via e il Coro ricorda alcuni personaggi mitologici imprigionati: Danae, Licurgo e i figli di Cleopatra.

Giunge intanto Tiresia, il vecchio profeta cieco guidato per la mano da un fanciullo, che si rivolge a Creonte sostenendo l'impurità della città per la mancata sepoltura di Polinice, nipote di Creonte e quindi consanguineo, e consigliandogli di lasciare da parte la sua inflessibilità: «[…] / E tal morbo funesta la città / pel tuo disegno: ché gli altari e l'are / pieni son della carne, che vi spargono / cani ed uccelli, dell'esposto misero / figlio d'Èdipo […] /; […] Or tu / cedi al defunto, non colpire un morto. / Sarà prodezza uccidere un cadavere? / Pel tuo bene pensai, pel tuo ben parlo; / e dolcissima cosa è dare ascolto / a chi ben parla, quando utile arreca. / […] / E questo sappi tu: non molti giri / dell'agili vedrai ruote del sole, / e un uom dal sangue tuo nato, cadavere / tu dovrai dare, in cambio d'un cadavere, / perché spingesti, all'Orco, di quassù, / e senza onor desti sepolcro a un'anima, / e un altro invece, che appartiene agli Inferi, / qui senza tomba e senza onor lo tieni, / cadavere nefando; e tal diritto / non appartiene a te, non ai Celesti / d'Olimpo; e pure, è tuo questo sopruso. / […]». Creonte rimprovera a Tiresia di pensare soltanto al suo tornaconto personale e riafferma con forza il suo primato di sovrano; andando via, Tiresia gli lascia l'ultimo avvertimento di pensare alle Erinni che stanno per agire contro di lui: «E l'Erinni dei Numi e dell'Averno / t'agguatano perciò, vendicatrici, / sterminatrici, perché tu procomba / nei medesimi mali. Or guarda bene / se corrotto dall'oro io parlo a te. / […]».

Sconvolto nel cuore e convinto dal Coro degli anziani che, a proposito di Tiresia, sostiene che «a Tebe ei mai non disse il falso», Creonte decide infine di liberare Antigone dalla «stanza sotterranea» e di innalzare «al defunto un tumulo»: «Faccio forza al cuor mio, m'induco all'opera: / sconvien contro il destino un'ardua pugna. / […] Ed io, poiché / il mio disegno fu così travolto, / io stesso, a scioglier ciò che avvinsi, andrò. / Temo che il meglio sia vivere illeso, / serbando ognor le costumanze avite.». Ed esce in fretta con i suoi seguaci.

Il Coro si rallegra per il ravvedimento di Creonte e prega Bacco perché protegga benevolo la sua città prediletta. Giunge correndo, esterrefatto, un messo che informa il Coro e la moglie di Creonte, Euridice, dell'infelicità del re: «[…] Era Creonte / degno un tempo d'invidia, a quanto sembrami, / ché dai nemici libera fe' questa / terra cadmèa, solo sovrano fu / di tutto il regno, e lo guidava, e florido / era per copia di bennati figli. / Ed or, tutto ha perduto. E quando un uomo / non ha più gioie, vivo io non lo reputo, / ma spoglia inane che respiri. / […]». Il messaggero continua a narrare gli ultimi orrendi accadimenti: Creonte aveva seppellito Polinice ma l’ordine di liberazione era arrivato troppo tardi; infatti, a un tratto aveva udito il pianto del figlio Emone che proveniva dalla grotta in cui era reclusa Antigone, la quale con l'impiccagione aveva posto fine alla sua vita infelice: «[…] Ed ecco, / uno dei nostri, ode da lungi, intorno / a quel sepolcro senza esequie, il suono / d'acuti ululi, e corre, ed a Creonte / ne reca annunzio; e quando questi, più / si fa vicino, un indistinto suono / l'avvolge d'urli miseri; e singhiozza / egli, lagrima, e rompe in questi accenti; / “Misero me, sono io dunque indovino? / Questa è dunque la più funesta via / di quante io prima ne battei? La voce / mi molce il cuor del figlio mio. / […]”». Erano accorsi e avevano visto: «al fondo pel collo stretta la fanciulla» e Emone che la stringeva «e le nozze / piangea distrutte nell'Averno, e l'opere / empie del padre, e l'infelice talamo piangeva.». Emone, disperato, aveva sputato su Creonte e rivolto la sua spada contro di lui ma, avendolo mancato, aveva rivolto la sua arma contro di sé uccidendosi («si gittò su la spada, e a mezzo il petto se la confisse» e «giace cadavere a un cadavere avvinto»). Sentendo quegli avvenimenti, sconvolta Euridice fugge di corsa, rientrando nella reggia. Il Coro descrive adesso l'arrivo di Creonte che trasporta la bara contenente il cadavere di Emone («un insigne segnacolo dell'error che fu suo, non d'altrui»), e che piangendo per la sua stoltezza così parla: «[…] / Uscir da una stessa progenie / vedete uccisori ed uccisi. / Ahimè, dei miei consigli esito tristo! / […]». Si presenta allora un altro messaggero che gli dice che anche la moglie Euridice si suicidata: «Morta è la sposa tua, la madre, o misero, / di questo morto: s'è trafitta or ora!». La rovina del re si è completata: uccisore del figlio e della moglie, a Creonte non resta altro che invocare la morte per sé: «[…] /Ahimè, che tu finisci un uom defunto! / […] / Ahimè! / Quale, o misero, veggo altra sciagura! / Che sorte ancor, che sorte ancor m'attende? / Tra le mie mani il figlio or ora m'ebbi, / e questa nuova salma a me dinanzi / or veggo: ahi ahi, madre infelice! Ahi, figlio! / […] / Via questo insano conducete, l'uomo / che te contro sua voglia uccise, o figlio, / e te, sposa, oh me misero! Lo sguardo / a chi dei due volger non so, né dove / trovi un sostegno: ché rovina è tutto / a me dintorno, e sopra il capo mio / un destino implacabile piombò.».

Termina così questa tragedia fosca che celebra il conflitto tra l'autorità e il potere, il contrasto tra la legge divina (difesa da Antigone) e quella umana (difesa da Creonte), la disputa tra legge della famiglia e legge dello Stato (sotto questo riguardo, Antigone ha rappresentato una metafora dei diritti del singolo contro i diritti di uno Stato totalitario). Soltanto la catastrofe finale fa comprendere a Creonte, despota e legislatore, i suoi errori. E la ribellione di Antigone è qualcosa di più complesso e moderno, perché riguarda anche il suo esser donna, il suo non volere essere umile e sottomessa al volere maschile oltre che regale, giustificata dal fine nobile di tutelare un suo affetto familiare (il modello tradizionale è rappresentato invece dalla sorella Ismene).

Pochissime parole su Sofocle. Nacque a Colono, un sobborgo di Atene, nel 496 a.C. ed è considerato uno dei maggiori autori tragici dell'antica Grecia. Figlio di un ricco ateniese proprietario di schiavi, Sophilos, fu ben educato e per la sua attività drammaturgica vide importanti riconoscimenti già in età giovanile (conquistò ben ventiquattro vittorie).  Morì nel 406 a.C. ad Atene, novantenne.

Secondo la tradizione Sofocle scrisse 123 tragedie ma ne sono rimaste soltanto sette: Antigone, Aiace, Edipo re, Elettra, Filottete, Le Trachinie ed Edipo a Colono, la sua ultima tragedia,rappresentata postuma nello stesso anno della morte (406 a.C.). Ebbe il merito di dar vita a eroi contraddittori in conflitto con forze oscure e temibili, molto umani ma minati da problemi fisici e psichici, generosi e forti ma votati al male e alla tragedia, coronati dalla gloria ma portatori di un destino di dannazione.

Nessun commento:

Posta un commento