venerdì 24 maggio 2013

Dante e le parole d’amore eterno nella Divina Commedia


     Paolo e Francesca                                      Dante e Beatrice



                                                                                                                                                                                                                                                      
                                                                                                                           


Paradiso di Eimuntas Nekrošius



Dante Alighieri ha scritto altre indimenticabili parole d’amore eterno nell’Inferno, nel brano dedicato a Paolo e Francesca. Con i suoi versi, Dante nobilitò un fosco fatto di cronaca nera svoltosi nel 1285: Francesca, figlia del signore di Ravenna Guido da Polenta il Vecchio, era stata data in sposa a Gian Giotto Malatesta (un uomo brutto e repellente), avendone anche una figlia. Francesca s’innamorò però del fratello del marito (elegante e bello ma sposato e padre di due figli) e venne colta in flagrante adulterio dal marito che la uccise. La mitologia romantica ha poi trasformato Francesca nell’emblema della donna che si perde, travolta dall’amore fatale:  forza indomita cui non si può resistere.

Nel Canto V Paolo e Francesca, inclusi nella schiera dei “peccatori carnali”, sono costretti a essere trascinati da un furioso vento di tempesta nell’oscurità dell’Inferno: «[…] Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende / prese costui de la bella persona / che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende. / Amor, ch’a nullo amato amar perdona, / mi prese del costui piacer sì forte, / che, come vedi, ancor non m’abbandona. / Amor condusse noi ad una morte. / Caina (luogo in cui erano confinati i traditori dei parenti) attende chi a vita ci spense.”. / Queste parole da lor ci fuor  porte. / […] / Ma dimmi: al tempo de’ dolci sospiri, / a che e come concedette amore / che conosceste i dubbiosi disiri? ”. / E quella a me: “Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore. / Ma s’a conoscer la prima radice / del nostro amor tu hai cotanto affetto, / dirò come colui che piange e dice. / Noi leggiavamo un giorno per diletto / di Lancialotto come amor lo strinse; / soli eravamo e sanza alcun sospetto. / Per più fiate li occhi ci sospinse / quella lettura, e scolorocci il viso; / ma solo un punto fu quel che ci vinse. / Quando leggemmo il disiato riso / esser basciato da cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso, / la bocca mi basciò tutto tremante. / Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse: / quel giorno più non vi leggemmo avante” / Mentre che l’uno spirto questo disse, / l’altro piangea; sì che di pietade / io venni men così com’io morisse. / E caddi come corpo morto cade.».

Nel Canto II dell’Inferno, così scrive Dante con riferimento a Beatrice: «[…] / I’ son Beatrice che ti faccio andare; / vegno del loco ove tornar disio; / amor mi mosse, che mi fa parlare. / Quando sarò dinanzi al segnor mio, / di te mi loderò sovente a lui”. / Tacette allora, e poi comincia’ io: / O donna di virtù, sola per cui / l’umana spezie eccede ogne contento / di quel ciel c’ha minor li cerchi sui, / tanto m’aggrada il tuo comandamento, / che l’ubidir, se già fosse, m’è tardi; / più non t’è uo’ ch’aprirmi il tuo talento. / […]”.».

Nel canto XXXI del Paradiso, Dante trova Santo Bernardo e per lui rivede Beatrice in tutta la  sua gloria, e così scrive: «O donna in cui la mia speranza vige, / e che soffristi per la mia salute / in inferno lasciar le tue vestige, / di tante cose quant’i’ ho vedute, / dal tuo podere e da la tua bontate / riconosco la grazia e la virtute. / Tu m’hai di servo tratto a libertate / per tutte quelle vie, per tutt’i modi / che di ciò fare avei la potestate. / La tua magnificenza in me custodi, / sì che l’anima mia, che fatt’ hai sana, / piacente a te dal corpo si disnodi”.».

A proposito dell’amore nell’era medievale (e quindi nel Paradiso), nel suo articolo giornalistico L’amor sacro e profano, Piero Citati (La Repubblica del 28/1/2006) così scrive: «Forse, nel cristianesimo di oggi, “eros” ha perduto la forza, che possedeva nel Medioevo. Platone ci ha abbandonato. Come potremmo immaginare, oggi, un libro come il “Paradiso”, con quella immensa forza erotica, quella gioia, quella paurosa e lucidissima ubriachezza, quella luce nella luce, che si rispecchia, si riflette, trova sempre nuovi echi, variazioni, modulazioni e riverberi? Al Cristianesimo di oggi è rimasto il territorio di “agàpe”, la virtù di San Paolo.».

Dante Aligieri (1265–1321) non è stato un uomo felice: ha vissuto una sfilza interminabile di lutti, amarezze e lunghi periodi di esilio e solitudine. Quando nacque nel 1265 a Firenze, comune florido ma turbolento, l’Europa e l’Italia godevano un grande benessere ma si preparavano notevoli cambiamenti per la società e la cultura. Il padre Alighiero degli Alighieri, appartenente a una famiglia guelfa della piccola nobiltà in declino, aveva sposato Bella che morì nel 1275. Alighiero si risposò con Lapa, che crebbe Dante insieme con gli altri suoi due figli Francesco e Gaetana. Nel 1283 morì, purtroppo, anche Alighiero lasciando Dante orfano di entrambi i genitori. Secondo l’usanza del tempo, a 12 anni, era stato promesso a Gemma Donati (appartenente a un ramo cadetto di una potente famiglia di antica nobiltà) che effettivamente sposò nel 1285 e dalla quale ebbe i tre figli Pietro, Jacopo e Antonia. Fece buoni studi primari e superiori ma fu fondamentalmente un autodidatta: come maestro di arte retorica ebbe Brunetto Latini (1220–1294), notaio e uomo politico, che tentò di allargare la sua cultura attraverso l’uso del volgare; come amico ebbe Guido Cavalcanti (1250–1300), creatore di un vivace cenacolo di poeti chiamati «fedeli d’amore». Ben presto Dante fu noto per il suo «dir parole d’amore in rima», ma l’amore al quale s’ispirava non era più quello della poesia provenzale in lingua d’Oc né quello della poesia siciliana degli autori vicini alla corte di Federico II, bensì l’amore–devozione (espresso nella poesia del “dolce stil nuovo”) per la donna–angelo, mezzo di comunicazione tra lo spirito dell’uomo e il mondo sovrannaturale, oltre che strumento per aumentare la perfezione dell’anima dell’amato. Dopo la morte di Beatrice, Dante si dedicò alla poesia “comico–realistica” (di cui fu un grande interprete Cecco Angiolieri), che era tutto l’opposto della poesia del “dolce stil nuovo”. Trasse in seguito conforto dallo studio della Filosofia, ma amava anche il disegno, la pittura e la musica. Si pensa che abbia vissuto altri amori oltre a quello per Beatrice; si conoscono almeno due nomi di donne amate: la “Pargoletta” e “Pietra”, donna crudele e insensibile per la quale compose le cosiddette «rime petrose».

Il grande poeta visse una forte esperienza politica partecipando alle lotte comunali, schierato con la fazione dei Bianchi in contrapposizione ai Neri, e nel 1301 fu condannato all’esilio perpetuo. «Legno sanza vela e sanza governo… peregrino, quasi mendicando», fu costretto a «lo scendere e il salir per l’altrui scale» e a mangiare «lo pane altrui». Fu a Forlì, Verona, Arezzo, Treviso, Padova e Lucca, forse a Parigi, ancora a Verona, ove chiamò presso di sé i tre figli (mentre la moglie Gemma non lo raggiunse, e i motivi non ci sono noti), e infine a Ravenna, che fu il rifugio sereno nel quale visse in gran tranquillità l’ultimo periodo della sua vita, dedicandosi alla composizione della Divina commedia, circondato da estimatori e discepoli. In esilio, Dante non si comportò da vinto ma consapevole della decadenza del suo tempo - nel rimpianto della moralità della Firenze antica - e spinto da un vivo senso di verità e giustizia, tentò di proporre un ordine etico superiore che rispondesse strettamente ai suoi ideali delusi. Pensava di aver trovato la via da mostrare agli uomini per la loro redenzione collettiva con la Divina commedia, un poema allegorico di notevole altezza morale, di straordinaria ricchezza dottrinaria e d’immensa poesia. L’opera fu scritta dopo il suo esilio, tra il 1307 e gli ultimi anni di vita del poeta, e prese origine proprio da questa aspirazione di un ordine superiore e da questo desiderio di perfezione e felicità, per i quali lottò, polemizzò, esaltò i personaggi virtuosi che aderirono alla sua etica mentre al contrario disprezzò con alterigia e trattò con rigore i viziosi che ne erano lontani. Usò l’aldilà come un duro mezzo per far giustizia di tutte le offese e le iniquità del mondo; nell’aldilà vi era però Beatrice, simbolo ideale della Teologia, della sapienza delle cose di Dio.

Dante chiamò “Commedia” il suo poema, a causa del lieto fine e della stesura in volgare; furono i posteri che – incantati dalla potenza dell’opera – vi aggiunsero l’aggettivo “Divina”. Le altre sue opere più importanti furono Le Rime (chiamate in seguito Canzoniere), che contenevano numerose poesie dedicate a Beatrice; il De vulgari eloquentia, scritto in latino e dedicato alla funzione dello scrittore nella formazione del linguaggio di un popolo; e il Monarchia, che sosteneva l’autonomia dell’Impero sulla Chiesa quale fattore indispensabile per la felicità dell’uomo. Andato a Venezia nel 1321 per una missione diplomatica, durante il viaggio di ritorno per terre malsane si buscò delle febbri violente che lo portarono a morte ad appena 56 anni. Venne sepolto a Ravenna con grandi onori: sulla sua tomba fu posta una iscrizione che faceva riferimento a «Firenze, madre di poco amore».
Con le sue moderne intuizioni e con la sua visione etica del mondo, Dante Alighieri ebbe il merito di chiudere il Medioevo e di preparare le basi per il Rinascimento.

Vorrei scrivere qualcosa sul Paradiso rivisto da Eimuntas Nekrošius, che è una vera e propria trasfigurazione dell’esperienza di quel viaggio che come ha detto lo stesso Dante è «a pochissimi destinato e a pochissimi concesso». Il regista lituano ha precisato di voler portare il paradiso sulla Terra, come a dire che il viaggio nella trascendenza porta, in effetti, sulla terra. Lo spettacolo scritto e diretto da Eimuntas Nekrosius viene considerato «un capolavoro assoluto, una bellezza non solo rara ma anche rarefatta, che toglie il fiato» ed è stato prodotto dalla Compagnia Teatrale Meno Fortas (coproduzione Comune di Vicenza e Fondazione Teatro Comunale di Vicenza, in collaborazione con il Ministero della Cultura Lituano e Aldo Miguel Grompone) ed è stato presentato al Teatro Olimpico di Vicenza in prima mondiale il 21 settembre del 2012 (ved. http://www.nottola.it/tag/dante-alighieri/). Ha scritto Nicola Arrigoni: «Cos’è il Paradiso di Eimuntas Nekrošius? Non è una condizione, ma piuttosto un percorso, non è né spazio né tempo, ma un itinerario, un viaggio terrestre che fa dire a Beatrice come ultima battuta: “Il paradiso c’è” ed infatti poco prima – nella drammaturgia poetica e visiva del regista lituano – la stessa Beatrice dice al suo Dante: “Volgiti e ascolta; Ché non pur ne’ miei occhi è paradiso”. Non solo negli occhi di Beatrice, ma tutto intorno, in terra è paradiso.». Arrigoni parla di «teatro ’primitivo’ di Eimuntas Nekrošius», riporta come il regista Nekrošius abbia scritto: «Il Paradiso è dono non necessario nel presente, è aspirazione», e osserva che, nell’affrontare il terzo capitolo della Commedia,  Nekrošius «vola, vola con i suoi attori che entrano leggeri, sono angeli terrestri di un’aspirazione alla perfezione che solo può dare l’amore, l’amore che unisce Dante (Rolandas Kazlas) e Beatrice (Ieva Triskauskaité). Per aspirare al Paradiso bisogna essere leggeri e lasciare le cose terrene…». E questo volo sembra «incoraggiato dai gesti di un coro di giovani attori e attrici che a tratti sembra voler spiccare il volo» nella «pienezza d’amore». Arrigoni passa in rassegna «i simboli, ovvero i segni destinati a raccontarci il senso inafferrabile dell’amore» e accenna a «una programmatica e poetica anticipazione nel canto popolare lituano che apre lo spettacolo, canto dell’amante che lontano dalla sua ragazza affida a una colomba cerulea lo struggimento del suo cuore», a «una danza che attira e respinge Dante e Beatrice» e a un «amore che di due corpi ne fa uno solo», e alla  «carnalissima e paradisiaca poesia». Conclude Arrigoni: «Eimuntas Nekrošius fa dire alla sua Beatrice: “Il Paradiso c’è” e non si può che convenire con lei e con il regista: il paradiso c’è, è in terra e al Teatro Olimpico s’è mostrato e palesato in tutta la sua poetica bellezza.» (Teatro all’Olimpico Il Paradiso c’è secondo Nekrosius di Nicola Arrigoni,

http://www.sipario.it/component/content/article/391-articoli-homepage/6054-paradiso-di-eimuntas-nekrosius-allolimpico-di-vicenza.html).

martedì 21 maggio 2013

Dante e la Vita Nuova, l’amor gentile per una donna che è un angelo



Dante di Gustavo Doré                                        Sceneggiato TV


La Vita nuova – intesa sia nel significato di vita giovanile sia nel senso di vita completamente rinnovata dall’amore – è una sorta di diario intimo, o meglio di “operetta autobiografica”, costituita dalla raccolta in ordine cronologico dei commenti in prosa e delle rime dedicate a Beatrice Portinari.

In toni quasi mistici, Beatrice è cantata come un prodigio del Paradiso davanti al quale non si può che restare in muta e trepidante adorazione. Dante parla d’amore secondo i canoni del “dolce Stil Novo” ma, poiché è già il gran poeta che conosciamo (in modo auto–referenziale diceva di se stesso: «Sono colui che sono, non per grazia di ricchezza, sì per grazia di Dio»), la sua esperienza amorosa prende il sopravvento sul manierismo culturale e Beatrice – la donna amatissima – ci appare non un arido e freddo simbolo ma una donna viva, anche se trasfigurata in “donna–angelo” dal vagheggiamento amoroso del poeta che è completamente rapito da quello che considera «un amore perfetto». E Beatrice diverrà il suo costante punto di riferimento, la sua luce nel buio, il suo faro nella tempesta.

In questa giovanile composizione poetica a carattere autobiografico – costituita da alcuni brani in prosa, da venticinque sonetti, da quattro canzoni, da una stanza e da una ballata – viene descritto il primo incontro di Dante e Beatrice, entrambi coetanei, avvenuto per la prima volta quando il poeta aveva appena nove anni (e il nove, per Dante, è certamente un numero simbolico e miracoloso). Il secondo incontro – durante il quale i due si scambiarono soltanto un fugace saluto – avvenne nove anni dopo, quando entrambi avevano 18 anni. L’amore per Beatrice possiede Dante in una maniera così totalizzante che, per evitare pettegolezzi, è costretto a fingere amore per due diverse “donne–schermo”, amareggiando così Beatrice che gli toglie il saluto. In una orrida visione, Dante vede Beatrice nuda, portata da Dio in un «drappo sanguigno» e costretta a nutrirsi del cuore del poeta; subito dopo, Amore piangente sparisce in cielo con la donna amata. Questa spaventosa visione di morte ha però il significato dell’accettazione dell’amore per Dante da parte di Beatrice, la cui morte trasforma l’amore umano del Poeta in Amore assoluto, fonte di elevazione e ispirazione. E nella trasfigurazione del poeta l’amata diventa una forte guida morale.

Ed ecco i tre sonetti più belli e più noti della “Vita Nuova” (1292–1293).

Capitolo XXI.
Sonetto: Ne li occhi porta la mia donna Amore.
Ne li occhi porta la mia donna Amore,
per che si fa gentil ciò ch’ella mira;
ov’ella passa, ogn’om ver lei si gira,
e cui saluta fa tremar lo core,

sì che, bassando il viso, tutto smore,
e d’ogni suo difetto allor sospira:
fugge dinanzi a lei superbia ed ira.
Aiutatemi, donne farle onore.

Ogne dolcezza, ogne pensero umìle
nasce nel core a chi parlar la sente,
ond’è laudato chi prima la vide.

Quel ch’ella par quando un poco sorride,
non si pò dicer né tenere a mente,
sì è novo miracolo e gentile.

Capitolo XXVI.
Sonetto: Tanto gentile e tanto onesta pare.
Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogni lingua devèn tremando muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.

Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.

Móstrasi sì piacente a chi la mira
che dà per gli occhi una dolcezza al core
che ’ntender no la può chi no la prova:

e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d’amore,
che va dicendo a l’anima: Sospira.

Sonetto: Vede perfettamente onne salute.
Vede perfettamente onne salute
chi la mia donna tra le donne vede;
quelle che vanno con lei son tenute
di bella grazia a Dio render merzede.

E sua bieltate è di tanta vertute,
che nulla invidia a l’altre ne procede,
anzi le face andar seco vestute
di gentilezza, d’amore e di fede.

La vista sua fa onne cosa umìle;
e non fa sola sé parer piacente,
ma ciascuna per lei riceve onore.

Ed è ne li atti suoi tanto gentile,
che nessuno la si può recare a mente,
che non sospiri in dolcezza d’amore.

Nel brano in prosa della “Vita Nuova” (Capitolo XXVI.) che precede il sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare, Dante scriveva: «[…] Diceano molti, poi che passata era: – Questa non è femina, anzi è uno de li bellissimi angeli del cielo. – E altri diceano: – Questa è una meraviglia; che benedetto sia lo Segnore, che sì mirabilmente sae adoperare! - […]». Il libro termina (Capitolo XLII.) col proposito di Dante di scrivere un’opera ancora più eccelsa, ispirata anch’essa a Beatrice, ove egli possa dire tutto quello che non è stato mai detto per nessun altro essere di sesso femminile. Ed egli sogna che, alla fine di ciò, possa riunirsi in cielo alla donna tanto amata; il poemetto finisce con queste ultime parole: «E poi piaccia a colui che è sire de la cortesia, che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui “qui est per omnia saecula benedictus”.».

Nel Convivio (1304–1307) Dante identificherà Beatrice con la Filosofia, immagine di perfezione e verità, guida alla sicura redenzione di tutti. Ma quale uomo – del passato o del presente – ha mai dato tanta importanza o conferito tale ruolo alla donna amata? Era ancora un fanciulletto, quando il poeta s’innamorò di Bice, la figlia del fiorentino Folco Portinari (andata poi sposa a Simone dei Bardi), ma questo amore lo coltivò e lo conservò per sempre nel suo cuore, anche dopo la morte di lei avvenuta nel 1290. Si discute se tra Dante e Beatrice siano esistiti rapporti reali e se il loro amore abbia raggiunto una certa concretezza; in realtà ciò non ha nessuna importanza, perché questo amore è certamente esistito nell’immaginario del poeta – sempre e con forza immutata – per tutta la vita. Dante, inoltre, è stato tra i primi a considerare la donna non soltanto come oggetto d’amore e desiderio ma anche come soggetto capace di amare, decidere e scegliere con senso morale.

Da anni in provincia di Salerno, presso le grotte dell’Angelo di Pertosa (attraversate da un fiume navigabile) e il complesso monastico della Certosa di San Lorenzo Padula, sono messi in scena i celebri spettacoli de L’Inferno e de Il Purgatorio di Dante. Per celebrare San Valentino, nel febbraio del 2013, dopo più di 700 anni dalla nascita del loro amore, «Dante e Beatrice cederanno alla tentazione e si lasceranno travolgere dalla passione facendo cadere tutti i tabù del dolce stilnovo. Un bacio, vero, per festeggiare tutti gli innamorati e promuovere la cultura». Il regista e ideatore degli spettacoli Domenico Maria Corrado ha dichiarato: «È un omaggio a tutti gli innamorati attraverso una coppia simbolo della letteratura italiana. Un’iniziativa per certi versi provocatoria, ma che in realtà vuole rendere più accattivante la cultura celebrando l’amore. Dai tempi di Dante ad oggi molte cose sono mutate e quindi anche la cultura deve sperimentare nuove strade» (ved.: lacittadisalerno.gelocal.it/cronaca/2013/02/13/news/cosi-dante-e-beatrice-si-baciano-a-teatro-1.6528217).

Ritornando più indietro nel tempo, ai giorni della mia adolescenza, vorrei ricordare Vita di Dante, sceneggiato televisivo diretto da Vittorio Cottafavi (sceneggiatura di Giorgio Prosperi e costumi di Veniero Colasanti), trasmesso dalla RAI in tre puntate nel dicembre del 1965, nell'ambito di una trilogia di Vite celebri curata da Angelo Guglielmi (che comprendeva la Vita di Michelangelo per la regia di Silverio Blasim trasmessa nel 1964, e la Vita di Cavour per la regia di Piero Schivazappa, trasmessa nel 1967). E Dante Alighieri era Giorgio Albertazzi mentre Loretta Goggi era una tenera e adolescente Beatrice. Trasmesso nel settimo centenario della nascita di Dante, lo sceneggiato costituì «un impegnato spesso riuscito tentativo di ricostruire la vita di Dante Alighieri evitando nel contempo le secche del culturale televisivo e anche quelle del teleromanzo facilone» (ved. http://www.cinemedioevo.net/Film2/vita_dante.htm). Ha scritto Aldo Grasso che, lungi dall’essere «una biografia romanzata», lo sceneggiato rappresenta uno «spunto per una rigorosa ricostruzione della vita del poeta» (ved. Televisione, le garzantine, a cura di Aldo Grasso, Garzanti editore, Milano 2008).

sabato 11 maggio 2013

William Inge, grande autore di Hollywood nei mitici anni Cinquanta


 William Motter Inge                                   Picnic 


     Splendore nell'erba


William Inge, grande autore di Hollywood nei mitici anni Cinquanta

Nel maggio di questo anno avrebbe compiuto 100 anni il grande drammaturgo e sceneggiatore William Motter Inge (nato il 3 maggio 1913 a Indipendence nel Kansas), vincitore del Premio Pulitzer nel 1953 per l'opera teatrale “Picnic” e premio Oscar alla migliore sceneggiatura originale nel 1962 per lo stupendo film “Splendore nell'erba”. Si è distinto come il creatore di personaggi solitari e appassionati ma ricchi di fascino e interiorità, pur nelle loro difficoltà a relazionarsi con  gli altri per una educazione repressiva.

Inge completò gli studi all'Independence Community College, laureandosi  nel 1935 in “Speech and Drama” presso l'University of Kansas a Lawrence. Frequentò un “Master of Arts” al George Peabody College for Teachers di Nashville (Tennessee), interrompendolo poco dopo ma completandolo più tardi. Dopo una breve esperienza di lavoro, dal 1937 al 1938 insegnò “English and drama” presso la Cherokee County Community High School a Columbus (Kansas) e dal 1938 al 1943 allo Stephens College in Columbia (Missouri). Nel 1943 divenne critico teatrale del St. Louis Star-Times. Era, quindi un professore e un intellettuale della convenzionale provincia americana, rurale e vivace ma mortificata dalla repressione sessuale, che lo ispirò per i suoi drammi e le sue sceneggiature, e che fece dire ai critici di trovarsi dinanzi al «Playwright of the Midwest» (Drammaturgo del Midwest). [Per altre informazioni, ved.: http://www.britannica.com/EBchecked/topic/288051/William-Inge]

Incoraggiato nei suoi primi tentativi drammaturgici da Tennessee Williams, suo estimatore della prima ora cui aveva inviato alcuni suoi testi, si fece notare con il primo dramma in un atto Farther Off from Heaven (1947), prodotto a Dallas nel Texas, e con Come Back Little Sheba (Torna piccola Sheba) (1950), dramma scritto mentre insegnava presso la Washington University in St. Louis (tra il 1946 e il 1949), che fu rappresentata a Broadway e che fece vincere un Tony Awards alla tenera e intensissima interprete Shirley Booth e al vigoroso e tormentato Sidney Blackmer. Il regista teatrale del testo di Inge a Broadway fu il quasi coetaneo Danny Mann (1912–1991), che nel 1952 lo trasformò nel film del suo debutto, grande e intimo capolavoro benedetto da due grandissime interpretazioni, quella confusa e dolente di Shirley Booth (che Mann volle anche nel film) e quella malinconica e struggente di Burt Lancaster: gli occhi di entrambi, tristi e velati, lasciano intuire spazi illimitati di solitudine e di sofferenza. Il film fece vincere a Shirley Booth un Oscar e un Golden Globe. Scrivono i Morandini: «[…] sposato con una sciattona maldestra, senza figli, ex alcolista nutre un morboso affetto per una ragazza e rimane sconvolto quando lei si fa corteggiare da un giovanotto. La leggerezza non è certamente una delle qualità di questo interno familiare che conta soprattutto per l'interpretazione dell'esimia teatrante S. Booth, premiata con l'Oscar.» (il Morandini, Zanichelli editore). La trama è drammatica e sofferta: Doc Delaney è un maturo signore alcolizzato e frustrato, in crisi matrimoniale con la moglie Lola che ha sposato molto giovane, interrompendo i suoi brillanti studi di medicina soltanto perché la credeva incinta. Entrambi pensano con rimpianto alla piccola Sheba, la cagnolina che avevano allevato insieme e che è scappata per non ritornare mai più. Decidono di affittare una stanza della loro casa a una ragazza con lo scopo di trovarsi meno soli e di sconfiggere la solitudine. Mary entra nel loro infelice e soffocante ambiente familiare – arido specchio dell'anima e della sensibilità ferita dei protagonisti – portando una nuova dimenticata vitalità e mettendo in crisi Doc che ne è subito conquistato. Molto ben rappresentato vi è il dramma dell'alcolismo e dei suoi devastanti effetti, e piuttosto interessanti risultano gli interventi (abbastanza inediti allora) dell'associazione Alcolisti Anonimi nel supportare l'alcolizzato e i suoi familiari. Lo scrittore, vittima dell'alcolismo cronico, conosceva gli Alcolisti Anonimi per esperienza diretta e presso gli AA incontrò la moglie che si chiamava appunto Lola coma la protagonista del suo dramma.

Da un'esperienza vissuta in età infantile nel Kansas ebbe origine il dramma Picnic (1953), che rappresentava la storia di una giovane donna intensa e indimenticabile (e della madre e della giovanissima sorella) in una piccola cittadina del centro America, la bella del paese, che preferisce fuggire con un affascinante vagabondo ricco di sex appeal, lasciando il fidanzato ricco e affidabile, dopo il picnic durante una festa campestre in commemorazione del Labor Day, ignorando le tensioni latenti che l'arrivo del vagabondo ha provocato. Fu un successo strepitoso a Broadway, diretto dal regista Joshua Logan (vinse due Academy Awards), e meritò a Inge il premio Pulitzer nel 1953. Il testo divenne l'omonimo indimenticabile film del 1956, diretto dallo stesso Joshua Logan, con William Holden, Kim Novak, Betty Field, Rosalind Russell e Susan Strasberg. Il film fece incetta di nomination e di Oscar (per la migliore scenografia e per il miglior montaggio). Scrisse Logan: «Ho voluto fare un film sulla solitudine dei belli». A proposito di questo film, Raul Radice, ha scritto sull'“Europeo” (21 febbraio 1960) un articolo dal titolo Il solito petto villoso che turba le comari del Kansas; Carlo Terron sul “Tempo” (23 aprile 1960) ha scritto un articolo dal titolo Angustie d'orizzonti. [vedere in: “Repertorio bibliografico della letteratura Americana in Italia: 1945-1949”, a cura di Biancamaria Tedeschini Lalli, Centro italiano di studi americani, Rome, Italy]. Credo che il film si sia molto avvantaggiato del ruolo di William Holden, il classico «bravo ragazzo americano», dall'atteggiamento disincantato e malinconico, dalla parlata laconica ma dallo sguardo aperto, che «interpretò il ruolo dell'affascinante giramondo, che porta lo scompiglio e il turbamento emotivo in una cittadina del Kansas facendo innamorare di sé due donne» (in William Holden, vol. 6, “Il Cinema – Grande storia illustrata”, Ist. Geografico De Agostini, Novara 1981).

Inge divenne allora uno degli autori più rappresentati a Broadway negli anni Cinquanta. Seguirono due altri grandi successi: Bus Stop  (1955), presentato al “The Music Box Theatre” e The Dark at the Top of the Stairs, ispirato alla prima sua opera teatrale “Farther Off from Heaven” e presentato a New York nel 1957 per la regia di Elia Kazan. Entrambi furono trasformati in due grandi film. Il primo, Fermata d'autobus (1956), diretto da Joshua Logan, con Marilyn Monroe nel ruolo della tenera Cherie (uno dei suoi migliori, per aderenza e intensità) e Don Murray nel ruolo del rude e casto Bo Ducker; era la storia di un giovane e aitante cowboy che sogna di sposare un angelo e che lo trova nella cantante–entraineuse di uno squallido night di Phoenix che costringe a salire in autobus con lui per ritornare nel Montana (nel 1956 il film fu inserito dal “National Board of Review of Motion Pictures” tra i dieci migliori film dell'anno). Il secondo Il buio in cima alle scale (1960) per la regia di Delbert Mann, con Robert Preston, Dorothy McGuire, Eve Arden e Angela Lansbury, che racconta la storia triste di due coppie di coniugi in una cittadina dell'Oklahoma negli anni Venti, i cui rapporti – anche felici alla'apparenza – sono logorati dalla frustrazione e dall'incomprensione, e il nascere del primo amore che si conclude in tragedia tra la figlia adolescente di una delle due coppie e il fidanzatino ebreo, cacciato da un ballo, il quale pone fine alla sua vita. Il film ricevette una nomination agli Oscar (a Shirley Knight che interpretava Reenie Floode, l'infelice adolescente) e due nomination ai Golden Globe nel 1961 mentre il “National Board of Review of Motion Pictures” nel 1960 lo ha inserito tra i dieci film migliori dell'anno. A proposito di quest'ultimo film, Albero Moravia sull'“Espresso” (12 marzo 1961) ha scritto un articolo dal titolo Un film americano. La moglie punisce il marito fallito.

Il successo continuò con Glory in the Flower (1953), teletrasmesso con grande successo con il titolo di Omnibus (con Hume Cronyn, Jessica Tandy e James Dean). Fu poi la volta del dramma A Loss of Roses (1960) (con Carol Haney, Warren Beatty e Betty Field) che ispirò il film The Stripper (Donna d'estate) (1963), diretto da Franklin J. Schaffner, con Joanne Woodward, Richard Beymer e Claire Trevor; il film racconta la storia melodrammatica ma ricca di sentimenti delicati di una ex reginetta di bellezza che, divenuta una spogliarellista, torna nella sua città natale nel Kansas e s'innamora di un giovanissimo meccanico. A proposito del film,  Ercole Patti ha scritto un articolo sul “Tempo” (6 luglio 1963) dal titolo Una ragazza commovente.  

Nel 1961 Inge scrisse la sceneggiatura del film Splendor in the Grass (Splendore nell'erba) (1961), di Elia Kazan, con Natalie Wood (Deannie Loomis) e Warren Beatty (Bud Stamper), che vinse l'Oscar per la migliore sceneggiatura originale. Il film, ambientato nel Kansas chiuso e convenzionale degli anni Venti, narra l'amore impossibile (perché contrastato dai rispettivi genitori) tra Bud, studente di liceo e figlio di un ricco e ambizioso imprenditore del petrolio che per il figlio desidera una moglie ricca e altolocata, e la compagna di scuola Deannie, educata in modo grettamente puritano da un'ipocrita famiglia perbenista. Dopo un tentativo di suicidio e un lungo ricovero in una casa per malattie mentali di Deannie, i due ragazzi si perdono di vista. Quando si rivedono, Bud è sul lastrico per la grave crisi del '29 (il padre si è suicidato) e si è sposato mentre Deannie ha rinunciato definitivamente al suo sogno d'amore e ritrovato un nuovo e diverso equilibrio senza l'amato perduto. Del film Inge fu anche produttore e si ritagliò un piccolo cameo. Hanno commentato i Morandini (ne il Morandini – Zanichelli editore): «Forse il melodramma più fiammeggiante sul primo amore che mai sia stato fatto al cinema. E i suoi ultimi 5 strazianti minuti sono uno dei culmini creativi del cinema di Kazan. Esordio del ventiquattrenne W. Beatty e primo film made in USA che pose esplicitamente l'accento sulla sessualità adolescenziale. Superlativa direzione d'attori: N. Wood fu candidata all'Oscar, ma le fu preferita la Sophia Loren di La ciociara.». A proposito di questo film Sergio Frosali sulla “Nazione” (4 dicembre 1961) ha scritto un articolo dal titolo Due giovani troppo innamorati nell'America del Charleston.  

Questo splendido film ha fatto entrare nei nostri cuori il poeta inglese vittoriano William Wordsworth (17701850), con un verso e una strofa recitati nel film, tratti dall’Ode Intuizioni di immortalità nei ricordi dell’infanzia (Intimation of Immortality from Recollections of Early Childhood) (1807); questi sono i versi citati nel film: «Se niente può far sì che si rinnovi / all’erba il suo splendore o che riviva il fiore, / della sorte funesta non ci dorremo allora / ma, ancor più saldi in petto, godrem di quel che resta» (traduzione letterale dall’inglese: «Se niente può far sì che torni indietro il tempo / dello splendore nell’erba, della gloria nel fiore; / non ci rattristeremo ma piuttosto troveremo / forza in quel che resta»). Questa tristissima poesia esprime la nostalgia degli ideali e di ciò che non può più essere insieme con la necessità di vivere nella realtà anche soltanto ciò che rimane dei sogni in un poeta, Wordsworth, segnato dalla povertà e dalle sventure domestiche (la perdita dei genitori quando era bambino e la morte precoce di un fratello e di due dei cinque figli). Nei versi iniziali, l’Ode (da me tradotta dall’originale) così recita: «C’era un tempo in cui prato, boschetto, e fiume, / la terra e ogni vista comune / a me sembravano, / avvolti dalla luce celeste, / la gloria e la freschezza d’un sogno. / Or non è più com’è stato allora; / per quanto mi possa rigirare da ogni parte, / di notte o di giorno, / le cose che ho visto non posso più vederle ora. / [...]».

Del 1963 fu il dramma Natural Affection, focalizzato sulla violenza familiare immotivata e senza senso (al centro una madre single e il suo adolescente figlio illegittimo), che ebbe la sfortuna di debuttare a Broadway, diretto da Tony Richardson, durante un lungo sciopero dei giornali, che vide un crollo di presenze e di vendita di biglietti, e che fu rappresentato soltanto per alcuni mesi (il testo ispirò a Truman Capote il suo inquietante Cold Blood).

Durante gli anni settanta, Inge visse a Los Angeles e insegnò drammaturgia all'University of California a Irvine ma gli ultimi suoi lavori ebbero poco riscontro di pubblico e di critica, e ciò lo precipitò in una tremenda crisi esistenziale e in una grave depressione. Nell'ultimo testo drammatico The Last Pad (1970), originariamente titolato The Disposal, lo scrittore parlava apertamente di omosessualità, focalizzando l'attenzione su un Archie, un protagonista gay (probabilmente lo stesso Inge pativa una certa ambiguità sessuale). Il dramma venne presentato al Southwest Ensemble Theatre di Phoenix in Arizona, diretto da Keith A. Anderson, con Nick Nolte, Jim Matz e Richard Elmore. Dopo il trasferimento della compagnia a Los Angeles, si ebbe l'apertura soltanto pochi giorni dopo il suicidio di William Inge che moriva ancora giovane a Hollywood in Los Angeles il 10 giugno del 1973 (si avvelenò col monossido di carbonio). Questo lavoro fu proclamato the Best Play del 1972 in Arizona mentre a Los Angeles diede inizio alla trascinante carriera di Nick Nolte, premiato per la sua incisiva interpretazione. Dopo la sua tragica scomparsa, tuttavia, alcuni dei suoi lavori hanno continuato a essere rappresentati con successo.


Il “The William Inge Collection at Independence Community College”, in onore a Inge, ha raccolto una ricca collezione di manoscritti (circa 400), film, lettere, programmi teatrali e molto altro ancora, mentre la sua città natale Independence ha istituito l'annuale “William Inge Theatre Festival”. Ralph F. Voss gli ha dedicato il libro A Life of William Inge: The Strains of Triumph (Lawrence, Kansas: University Press of Kansas 2000).