venerdì 24 maggio 2013

Dante e le parole d’amore eterno nella Divina Commedia


     Paolo e Francesca                                      Dante e Beatrice



                                                                                                                                                                                                                                                      
                                                                                                                           


Paradiso di Eimuntas Nekrošius



Dante Alighieri ha scritto altre indimenticabili parole d’amore eterno nell’Inferno, nel brano dedicato a Paolo e Francesca. Con i suoi versi, Dante nobilitò un fosco fatto di cronaca nera svoltosi nel 1285: Francesca, figlia del signore di Ravenna Guido da Polenta il Vecchio, era stata data in sposa a Gian Giotto Malatesta (un uomo brutto e repellente), avendone anche una figlia. Francesca s’innamorò però del fratello del marito (elegante e bello ma sposato e padre di due figli) e venne colta in flagrante adulterio dal marito che la uccise. La mitologia romantica ha poi trasformato Francesca nell’emblema della donna che si perde, travolta dall’amore fatale:  forza indomita cui non si può resistere.

Nel Canto V Paolo e Francesca, inclusi nella schiera dei “peccatori carnali”, sono costretti a essere trascinati da un furioso vento di tempesta nell’oscurità dell’Inferno: «[…] Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende / prese costui de la bella persona / che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende. / Amor, ch’a nullo amato amar perdona, / mi prese del costui piacer sì forte, / che, come vedi, ancor non m’abbandona. / Amor condusse noi ad una morte. / Caina (luogo in cui erano confinati i traditori dei parenti) attende chi a vita ci spense.”. / Queste parole da lor ci fuor  porte. / […] / Ma dimmi: al tempo de’ dolci sospiri, / a che e come concedette amore / che conosceste i dubbiosi disiri? ”. / E quella a me: “Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore. / Ma s’a conoscer la prima radice / del nostro amor tu hai cotanto affetto, / dirò come colui che piange e dice. / Noi leggiavamo un giorno per diletto / di Lancialotto come amor lo strinse; / soli eravamo e sanza alcun sospetto. / Per più fiate li occhi ci sospinse / quella lettura, e scolorocci il viso; / ma solo un punto fu quel che ci vinse. / Quando leggemmo il disiato riso / esser basciato da cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso, / la bocca mi basciò tutto tremante. / Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse: / quel giorno più non vi leggemmo avante” / Mentre che l’uno spirto questo disse, / l’altro piangea; sì che di pietade / io venni men così com’io morisse. / E caddi come corpo morto cade.».

Nel Canto II dell’Inferno, così scrive Dante con riferimento a Beatrice: «[…] / I’ son Beatrice che ti faccio andare; / vegno del loco ove tornar disio; / amor mi mosse, che mi fa parlare. / Quando sarò dinanzi al segnor mio, / di te mi loderò sovente a lui”. / Tacette allora, e poi comincia’ io: / O donna di virtù, sola per cui / l’umana spezie eccede ogne contento / di quel ciel c’ha minor li cerchi sui, / tanto m’aggrada il tuo comandamento, / che l’ubidir, se già fosse, m’è tardi; / più non t’è uo’ ch’aprirmi il tuo talento. / […]”.».

Nel canto XXXI del Paradiso, Dante trova Santo Bernardo e per lui rivede Beatrice in tutta la  sua gloria, e così scrive: «O donna in cui la mia speranza vige, / e che soffristi per la mia salute / in inferno lasciar le tue vestige, / di tante cose quant’i’ ho vedute, / dal tuo podere e da la tua bontate / riconosco la grazia e la virtute. / Tu m’hai di servo tratto a libertate / per tutte quelle vie, per tutt’i modi / che di ciò fare avei la potestate. / La tua magnificenza in me custodi, / sì che l’anima mia, che fatt’ hai sana, / piacente a te dal corpo si disnodi”.».

A proposito dell’amore nell’era medievale (e quindi nel Paradiso), nel suo articolo giornalistico L’amor sacro e profano, Piero Citati (La Repubblica del 28/1/2006) così scrive: «Forse, nel cristianesimo di oggi, “eros” ha perduto la forza, che possedeva nel Medioevo. Platone ci ha abbandonato. Come potremmo immaginare, oggi, un libro come il “Paradiso”, con quella immensa forza erotica, quella gioia, quella paurosa e lucidissima ubriachezza, quella luce nella luce, che si rispecchia, si riflette, trova sempre nuovi echi, variazioni, modulazioni e riverberi? Al Cristianesimo di oggi è rimasto il territorio di “agàpe”, la virtù di San Paolo.».

Dante Aligieri (1265–1321) non è stato un uomo felice: ha vissuto una sfilza interminabile di lutti, amarezze e lunghi periodi di esilio e solitudine. Quando nacque nel 1265 a Firenze, comune florido ma turbolento, l’Europa e l’Italia godevano un grande benessere ma si preparavano notevoli cambiamenti per la società e la cultura. Il padre Alighiero degli Alighieri, appartenente a una famiglia guelfa della piccola nobiltà in declino, aveva sposato Bella che morì nel 1275. Alighiero si risposò con Lapa, che crebbe Dante insieme con gli altri suoi due figli Francesco e Gaetana. Nel 1283 morì, purtroppo, anche Alighiero lasciando Dante orfano di entrambi i genitori. Secondo l’usanza del tempo, a 12 anni, era stato promesso a Gemma Donati (appartenente a un ramo cadetto di una potente famiglia di antica nobiltà) che effettivamente sposò nel 1285 e dalla quale ebbe i tre figli Pietro, Jacopo e Antonia. Fece buoni studi primari e superiori ma fu fondamentalmente un autodidatta: come maestro di arte retorica ebbe Brunetto Latini (1220–1294), notaio e uomo politico, che tentò di allargare la sua cultura attraverso l’uso del volgare; come amico ebbe Guido Cavalcanti (1250–1300), creatore di un vivace cenacolo di poeti chiamati «fedeli d’amore». Ben presto Dante fu noto per il suo «dir parole d’amore in rima», ma l’amore al quale s’ispirava non era più quello della poesia provenzale in lingua d’Oc né quello della poesia siciliana degli autori vicini alla corte di Federico II, bensì l’amore–devozione (espresso nella poesia del “dolce stil nuovo”) per la donna–angelo, mezzo di comunicazione tra lo spirito dell’uomo e il mondo sovrannaturale, oltre che strumento per aumentare la perfezione dell’anima dell’amato. Dopo la morte di Beatrice, Dante si dedicò alla poesia “comico–realistica” (di cui fu un grande interprete Cecco Angiolieri), che era tutto l’opposto della poesia del “dolce stil nuovo”. Trasse in seguito conforto dallo studio della Filosofia, ma amava anche il disegno, la pittura e la musica. Si pensa che abbia vissuto altri amori oltre a quello per Beatrice; si conoscono almeno due nomi di donne amate: la “Pargoletta” e “Pietra”, donna crudele e insensibile per la quale compose le cosiddette «rime petrose».

Il grande poeta visse una forte esperienza politica partecipando alle lotte comunali, schierato con la fazione dei Bianchi in contrapposizione ai Neri, e nel 1301 fu condannato all’esilio perpetuo. «Legno sanza vela e sanza governo… peregrino, quasi mendicando», fu costretto a «lo scendere e il salir per l’altrui scale» e a mangiare «lo pane altrui». Fu a Forlì, Verona, Arezzo, Treviso, Padova e Lucca, forse a Parigi, ancora a Verona, ove chiamò presso di sé i tre figli (mentre la moglie Gemma non lo raggiunse, e i motivi non ci sono noti), e infine a Ravenna, che fu il rifugio sereno nel quale visse in gran tranquillità l’ultimo periodo della sua vita, dedicandosi alla composizione della Divina commedia, circondato da estimatori e discepoli. In esilio, Dante non si comportò da vinto ma consapevole della decadenza del suo tempo - nel rimpianto della moralità della Firenze antica - e spinto da un vivo senso di verità e giustizia, tentò di proporre un ordine etico superiore che rispondesse strettamente ai suoi ideali delusi. Pensava di aver trovato la via da mostrare agli uomini per la loro redenzione collettiva con la Divina commedia, un poema allegorico di notevole altezza morale, di straordinaria ricchezza dottrinaria e d’immensa poesia. L’opera fu scritta dopo il suo esilio, tra il 1307 e gli ultimi anni di vita del poeta, e prese origine proprio da questa aspirazione di un ordine superiore e da questo desiderio di perfezione e felicità, per i quali lottò, polemizzò, esaltò i personaggi virtuosi che aderirono alla sua etica mentre al contrario disprezzò con alterigia e trattò con rigore i viziosi che ne erano lontani. Usò l’aldilà come un duro mezzo per far giustizia di tutte le offese e le iniquità del mondo; nell’aldilà vi era però Beatrice, simbolo ideale della Teologia, della sapienza delle cose di Dio.

Dante chiamò “Commedia” il suo poema, a causa del lieto fine e della stesura in volgare; furono i posteri che – incantati dalla potenza dell’opera – vi aggiunsero l’aggettivo “Divina”. Le altre sue opere più importanti furono Le Rime (chiamate in seguito Canzoniere), che contenevano numerose poesie dedicate a Beatrice; il De vulgari eloquentia, scritto in latino e dedicato alla funzione dello scrittore nella formazione del linguaggio di un popolo; e il Monarchia, che sosteneva l’autonomia dell’Impero sulla Chiesa quale fattore indispensabile per la felicità dell’uomo. Andato a Venezia nel 1321 per una missione diplomatica, durante il viaggio di ritorno per terre malsane si buscò delle febbri violente che lo portarono a morte ad appena 56 anni. Venne sepolto a Ravenna con grandi onori: sulla sua tomba fu posta una iscrizione che faceva riferimento a «Firenze, madre di poco amore».
Con le sue moderne intuizioni e con la sua visione etica del mondo, Dante Alighieri ebbe il merito di chiudere il Medioevo e di preparare le basi per il Rinascimento.

Vorrei scrivere qualcosa sul Paradiso rivisto da Eimuntas Nekrošius, che è una vera e propria trasfigurazione dell’esperienza di quel viaggio che come ha detto lo stesso Dante è «a pochissimi destinato e a pochissimi concesso». Il regista lituano ha precisato di voler portare il paradiso sulla Terra, come a dire che il viaggio nella trascendenza porta, in effetti, sulla terra. Lo spettacolo scritto e diretto da Eimuntas Nekrosius viene considerato «un capolavoro assoluto, una bellezza non solo rara ma anche rarefatta, che toglie il fiato» ed è stato prodotto dalla Compagnia Teatrale Meno Fortas (coproduzione Comune di Vicenza e Fondazione Teatro Comunale di Vicenza, in collaborazione con il Ministero della Cultura Lituano e Aldo Miguel Grompone) ed è stato presentato al Teatro Olimpico di Vicenza in prima mondiale il 21 settembre del 2012 (ved. http://www.nottola.it/tag/dante-alighieri/). Ha scritto Nicola Arrigoni: «Cos’è il Paradiso di Eimuntas Nekrošius? Non è una condizione, ma piuttosto un percorso, non è né spazio né tempo, ma un itinerario, un viaggio terrestre che fa dire a Beatrice come ultima battuta: “Il paradiso c’è” ed infatti poco prima – nella drammaturgia poetica e visiva del regista lituano – la stessa Beatrice dice al suo Dante: “Volgiti e ascolta; Ché non pur ne’ miei occhi è paradiso”. Non solo negli occhi di Beatrice, ma tutto intorno, in terra è paradiso.». Arrigoni parla di «teatro ’primitivo’ di Eimuntas Nekrošius», riporta come il regista Nekrošius abbia scritto: «Il Paradiso è dono non necessario nel presente, è aspirazione», e osserva che, nell’affrontare il terzo capitolo della Commedia,  Nekrošius «vola, vola con i suoi attori che entrano leggeri, sono angeli terrestri di un’aspirazione alla perfezione che solo può dare l’amore, l’amore che unisce Dante (Rolandas Kazlas) e Beatrice (Ieva Triskauskaité). Per aspirare al Paradiso bisogna essere leggeri e lasciare le cose terrene…». E questo volo sembra «incoraggiato dai gesti di un coro di giovani attori e attrici che a tratti sembra voler spiccare il volo» nella «pienezza d’amore». Arrigoni passa in rassegna «i simboli, ovvero i segni destinati a raccontarci il senso inafferrabile dell’amore» e accenna a «una programmatica e poetica anticipazione nel canto popolare lituano che apre lo spettacolo, canto dell’amante che lontano dalla sua ragazza affida a una colomba cerulea lo struggimento del suo cuore», a «una danza che attira e respinge Dante e Beatrice» e a un «amore che di due corpi ne fa uno solo», e alla  «carnalissima e paradisiaca poesia». Conclude Arrigoni: «Eimuntas Nekrošius fa dire alla sua Beatrice: “Il Paradiso c’è” e non si può che convenire con lei e con il regista: il paradiso c’è, è in terra e al Teatro Olimpico s’è mostrato e palesato in tutta la sua poetica bellezza.» (Teatro all’Olimpico Il Paradiso c’è secondo Nekrosius di Nicola Arrigoni,

http://www.sipario.it/component/content/article/391-articoli-homepage/6054-paradiso-di-eimuntas-nekrosius-allolimpico-di-vicenza.html).

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