giovedì 12 settembre 2013

Ugo Foscolo, il poeta affetto dal mal d’amore



Ugo Foscolo

Riporto due sonetti di argomento amoroso tra i dodici approvati dal Foscolo (il poeta ha scritto molto più di quanto non abbia poi pubblicato), ricchi di alta tensione lirica e di grande maturità nonostante siano stati scritti in un’età giovanile.

Sonetto IV
Perché taccia il rumor di mia catena
di lagrime, di speme e d’amor vivo
e di silenzio, ché pietà mi affrena
se con lei parlo, o di lei penso e scrivo.

Tu sol mi ascolti, o solitario rivo,
ove ogni notte Amor seco mi mena:
qui affido il pianto, e i miei danni descrivo,
qui tutta verso del dolor la piena.

E narro come i grandi occhi ridenti
arsero d’immortal raggio il mio core;
come la rosea bocca e i rilucenti

odorati capelli, ed il candore
delle divine membra, e i cari accenti
m’insegnaron alfin pianger d’amore.

Sonetto V
Così gl’interi giorni in lungo incerto
sonno gemo! Ma poi quando la bruna
notte gli astri nel ciel chiama e la luna,
e il fresco aer di mute ombre è coverto;
           
            dove selvoso è il piano e più deserto
allor lento io vagando ad una ad una
palpo le piaghe onde la rea fortuna
e amore e il mondo hanno il mio core aperto.

            Stanco mi appoggio or al troncon d’un pino,
ed or prostrato ove strepitan l’onde,
con le speranze mie parlo e deliro.

            Ma per te le mortali ire e il destino
spesso obliando, a te, donna, io sospiro:
luce degli occhi miei chi mi t’asconde?
[Da “Sonetti” (1802-1803 )]

Questi versi guardano certamente al Petrarca, forse anche all’Alfieri, ma soprattutto ai poeti elegiaci latini. I sonetti furono ispirati quasi sicuramente da Isabella Roncioni, bellissima diciottenne «dalle chiome bionde e dagli occhi azzurri nuotanti» (incontrata dal poeta a Firenze), che egli chiamava la «divina fanciulla». I versi lasciano intravvedere un amore violento ma struggente per la donna del sogno, che Ugo in realtà dimenticò ben presto per una nuova e più ardente passione amorosa. Allo stesso modo che in altri sonetti e nell’Ortis, ritorna il tema della solitudine quale compagna fedele di tutti gli ammalati di mal d’amore, quasi un “esilio” dalla realtà. A proposito di questi sonetti, Foscolo scriveva: «Non è professione di letteratura ma bisogno imperioso dell’anima: non atteggiamento… ma febbre o delirio o beatitudine, o tormento fugace: un brivido d’amore: un rimpianto, un ricordo, un presentimento: un istante di vita interiore, singolarmente intenso».

La vita del poeta non fu felice ma egli seppe esprimere appieno tutte le novità e le contraddizioni del suo tempo. Primo di quattro figli, nacque – da un chirurgo veneziano e da una donna greca di nascita e religione – a Zante, una delle isole Ionie appartenenti alla Repubblica Veneziana, il 6 febbraio del 1778. Da ragazzo visse a Spalato e aveva appena dieci anni quando perse il padre; nel 1792 si trasferì a Venezia (ove la madre era andata a vivere), centro culturale allora molto libero e vivido, ove Ugo (il suo vero nome era però Niccolò) si dedicò a studi intensi ma irregolari, ricco di entusiasmo, di spirito d’avventura e di fervidi sentimenti repubblicani. Giovanissimo, s’innamorò di Isabella Teotochi Albrizzi (di origini greche), donna bella e intellettuale, della quale frequentò con assiduità il salotto letterario (il poeta la vagheggerà nei suoi versi ora con il nome di Temira, ora con quello di Laura). Nel 1797, a diciannove anni, fece rappresentare a Venezia la sua prima tragedia, il Tieste, che scagliandosi contro la tirannide arieggiava l’Alfieri e che gli diede immediatamente una discreta fama sia come artista sia come liberale.

Aperto agli ideali di libertà e alle aspirazioni repubblicane, amò la carriera militare e si arruolò come volontario nell’esercito napoleonico, anche se – con il trattato di Campoformio e l’intenzione di Bonaparte di sacrificare la Repubblica Veneta (e Venezia) all’Austria – vide cadere miseramente tutti i suoi romantici sogni di democrazia. Si trasferì allora a Milano (capitale della Repubblica Cisalpina e sede della cultura più nobile), ove ebbe occasione di conoscere Ippolito Pindemonte e Parini; frequentò anche Vincenzo Monti, della cui moglie Teresa Pikler – donna di bellezza straordinaria – s’innamorò appassionatamente ma infelicemente. Nel 1801 visse il grande dolore del suicidio del fratello Gian Dionigi, causato dallo scandalo creato da un’appropriazione indebita di denaro pubblico; entrambi i fratelli, accesi idealisti e non esperti di problemi pratici, avevano manie di grandezza e amavano la vita dispendiosa. Anche in Ugo ritroviamo l’ossessione del suicidio, inteso come massima espressione di virilità e ben esemplificato nelle sue opere; non per nulla Jacopo Ortis muore suicida: «[…] e sotto il verso “Libertà va cercando ch’è si cara” scrisse l’altro verso che gli vien dietro “Come sa chi per lei vita rifiuta” […]».

Aveva intanto cominciato a lavorare alle Ultime lettere di Jacopo Ortis (che completò nel 1802), nelle quali in modo acceso e autobiografico rappresentava un uomo in crisi esistenziale col suo complesso e tormentato mondo spirituale (vera proiezione fantastica del poeta). Jacopo è un giovane esule a Venezia dopo il trattato di Campoformio, che si tormenta con le sue passioni e inquietudini, in bilico tra l’amore per Teresa (la donna amata) e quello per l’Italia (la patria amatissima). In un’introduzione all’ultima edizione dell’Ortis (1817), parlando di un diario di vita vissuta, Foscolo narrava delle «sue angosciose passioni com’ei le provava d’ora in ora, e le andava di giorno in giorno scrivendo». Per l’esaltata e cupa disperazione e per l’irresponsabile giustificazione ideale del suicidio, il libro fu considerato dalla critica come un testo moralmente malsano, in grado d’influenzare negativamente la gioventù del tempo. Nella lettera del 14 maggio, scritta di sera, con moderna acutezza psicologica ci presenta la romantica rappresentazione di un incontro amoroso: «[…] Sì; ho baciato Teresa; i fiori e le piante esalavano in quel momento un odore soave; le aure erano tutte armonia; i rivi risuonavano da lontano; e tutte le cose s’abbellivano allo splendore della Luna che era tutta piena della luce infinita della Divinità. Gli elementi e gli esseri esultavano nella gioia di due cuori ebbri di amore – ho baciata e ribaciata quella mano – e Teresa mi abbracciava tutta tremante, e trasfondea i suoi sospiri nella mia bocca, e il suo cuore palpitava su questo petto: mirandomi co’ suoi grandi occhi languenti, mi baciava, e le sue labbra umide, socchiuse, mormoravano su le mie – ahi! che ad un tratto mi si è staccata dal seno quasi atterrita: chiamò sua sorella, e s’alzò correndole incontro. Io me le sono prostrato, e tendeva le braccia come per afferrar le sue vesti – ma non ho ardito di rattenerla, né richiamarla. La sua virtù – e non tanto la sua virtù quanto la sua passione, mi sgomentava: sentiva e sento rimorso di averla io prima eccitata nel suo cuore innocente. Ed è rimorso – rimorso di tradimento! Ahi mio cuore codardo! – Me le sono accostato tremando: – Non posso essere vostra mai! – e pronunciò queste parole dal cuore profondo, e con un’occhiata con cui parea rimproverarsi e compiangermi. […]». In questo brano dominano i grandi sentimenti e il mito dell’amore romantico, con i palpiti veri e sensuali di un uomo e di una donna fatti di carne e sangue, senza smancerie o artificiosità arcadico-pastorali. Quando Jacopo ha già deciso la sua morte ed è combattuto tra la passione amorosa e il triste disinganno, scrive: «I nostri occhi morenti chiedono altrui qualche stilla di pianto, e il nostro cuore ama che il recente cadavere sia sostenuto da bracci amorose, e cerca un petto dove trasfondere l’ultimo nostro respiro. Geme la Natura perfin nella tomba, e il suo gemito vince il silenzio e l’oscurità della morte […] Forse Teresa verrà solitaria sull’alba a rattristarsi dolcemente su le mie antiche memorie, e a dirmi un altro addio. No! la morte non è dolorosa. Che se taluno metterà le mani nella sepoltura e scompiglierà il mio scheletro per trarre dalla notte, in cui giaceranno, le mie ardenti passioni, le mie opinioni, i miei delitti – forse; non mi difendere, Lorenzo; rispondi soltanto: “Era uomo, e infelice”.».

Ugo Foscolo aveva intanto conosciuto e amato Isabella Roncioni, che gli diede nuova ispirazione per la seconda redazione dell’Ortis. Nel 1802 compose l’ode All’amica risanata, dedicata stavolta alla contessa Antonietta Fagnani Arese con cui visse una turbolenta e torbida relazione sentimentale. Nel 1803 uscirono le edizioni definitive delle Odi e dei Sonetti. Dopo aver ripreso il servizio nell’esercito, Ugo fece continui viaggi per l’Italia e la Francia; a Valenciennes conobbe una giovane prigioniera inglese, dalla quale ebbe la figlia Floriana, che lasciò alla madre e che ritrovò adulta nel periodo inglese della sua vita. Nel 1807 pubblicò i Sepolcri, che costituiscono l’ultima sua grande opera di poesia, con la quale – in un angoscioso presentimento della morte – si rivolgeva al lettore da uomo ad uomo. Ispirato dalla letteratura sepolcrale inglese, vi presentava le sue meditazioni liriche sul tema della tragicità della morte, sulle memorie che durano nel tempo e sulle tombe quale unica possibile «illusione» di un muto colloquio tra i vivi e i morti e quale luogo esclusivo in grado di «render l’uomo vittorioso del nulla e della morte», al di là delle devastazioni del tempo. Nel 1809, per un periodo brevissimo, fu professore universitario d’eloquenza a Pavia (in una «solitudine, solitudine, senza pace»), ricoprendo quella cattedra che era stata tenuta dal Monti e che purtroppo gli fu revocata dopo pochi mesi. Ebbe appena l’opportunità di tenere cinque lezioni di valore e la superba prima lezione inaugurale richiamò un grande pubblico di studenti e di ascoltatori, compreso il Monti. Nel 1811 compose la tragedia Aiace, che fu rappresentata alla Scala senza troppo successo e che fu censurata perché ritenuta di sentimenti e intenti anti–napoleonici. Si struggeva, intanto, alla composizione dell’opera in versi Grazie, rimasta incompiuta e costituita da tre inni dedicati all’opera delle Grazie confortatrici dell’uomo (fu pubblicata postuma nel 1848 e secondo alcuni critici rappresenta la punta più alta della poesia di Foscolo).

Caduto Napoleone e scoppiati i gravi disordini di Milano, gli Austriaci giunsero a ristabilire l’ordine e, almeno in un primo momento, sembrarono mostrare un volto da illuminati liberatori; nel 1815, però, poiché l’Austria chiedeva il giuramento di fedeltà agli ex ufficiali napoleonici, Ugo scelse “l’Esilio”, riparando prima in Svizzera e quindi in Inghilterra, ove inizialmente fu accolto con stima e considerazione. Si dedicò alla traduzione dell’Iliade e alla saggistica critica, collaborando con le maggiori riviste inglesi e riuscendo a cogliere nella sua acuta analisi letteraria la grande «poesia della storia». In seguito, questi buoni rapporti si guastarono a causa del carattere contraddittorio di Foscolo e delle sue tristi vicende personali.  Uomo dal temperamento malinconico ma volubilissimo, romantico e passionale, irritabile e collerico, intellettuale avido di esperienze sempre nuove e trasgressive ma esposto a grandi “illusioni” e ad altrettanto grandi “disillusioni”, Foscolo subì il contrasto tra la smisurata grandezza dei suoi sogni e la misera mediocrità della vita d’ogni giorno.

Grande individualista, da cittadino, visse importanti avventure civili e campagne militari mentre, da uomo, fu dominato da una persistente inquietudine sentimentale, abbandonandosi a innumerevoli amori infelici e non riuscendo a riconoscere la sincerità dell’amore; trascurò per esempio il fedele sentimento di Quirina Mocenni Magiotti, che egli chiamava la «donna gentile» e che da lontano gli fu sempre vicina con affetto e generosità tentando costantemente di richiamarlo in Toscana. A proposito dei suoi numerosi amori, Ugo scriveva: «Parmi che la coscienza di amare, e di sentirsi l’anima piena di qualche cosa che la riscaldi, sia un istinto ed una necessità, alla quale i mortali debbono in un modo o in un altro soddisfare».

In Inghilterra Foscolo fu un uomo perennemente in crisi: amareggiato, sfiduciato, non stimato, sradicato da tutto ciò che amava ma soprattutto perseguitato dai creditori (non sapeva limitare le spese e viveva sempre al di sopra dei suoi redditi). Sperperò in modo futile persino il piccolo patrimonio della figlia Floriana (rimasta orfana della madre), che lo seguì nel suo girovagare per abitazioni diverse e sempre più modeste nel tentativo di sfuggire tutti coloro ai quali doveva del denaro. Fu addirittura arrestato per debiti nel 1824! L’anno dopo si ammalò gravemente di fegato e morì a Turnham Green (Londra) il 10 settembre del 1827, distrutto dalla malattia e dagli affanni economici. Fu seppellito nel cimitero di Chiswick ma dal 1871 le sue ossa riposano nella chiesa di S. Croce a Firenze, città che aveva celebrato nei Sepolcri.

Di Foscolo è rimasto un vasto epistolario che, raccogliendo le vicende di tutta una vita, ci ha fatto conoscere i suoi difetti e i suoi limiti caratteriali ma anche la sua grande caratura di artista. Con la sua attenzione alla dimensione psicologica e ai valori assoluti dell’esistenza, Ugo divenne per i suoi contemporanei e per gli uomini delle generazioni successive il romantico modello di vita, l’amato e ammirato leader civile di gran fascino, il forte ispiratore delle grandi passioni del Risorgimento.

P.S. La tragedia in cinque atti Aiace (che fu un fiasco clamoroso alla Scala di Milano nel 1811) è, in effetti, una favola che racconta la gara fra Aiace (il Telamonio) e Ulisse per entrare in possesso delle armi del morto Achille (l’esercito sta per Aiace mentre Agamennone e i re parteggiano per Ulisse che le ha guadagnate grazie alle sue astuzie). L’orgoglioso Aiace, accusato da Ulisse di essere un traditore (ha sposato, senza amarla, Tecmessa, un’orfana principessa troiana), si uccide raccomandando ai suoi l’obbedienza al re Agamennone. Questa tragedia sembra non essere mai rappresentata in epoca recente. Nell’'articolo La tragedia classica italiana: questa sconosciuta, si fa rilevare come la tragedia italiana (nata ai primi del ‘500) costituisca un «genere della letteratura classica italiana che più degli altri ha patito gli improperi della critica romantica e post–romantica»; si osserva, inoltre, come basti leggere una qualsiasi storia del teatro come, per esempio, quella assai celebre di Silvio D’Amico (“Storia del teatro drammatico”, Bulzoni, Roma 1982) per «rendersi conto di quanto sia profonda l’incomprensione della modernità nei riguardi di quei poemi». Aveva scritto Silvio D’Amico che il classicismo era il suo difetto maggiore: «Il letterato italiano credette che ad attinger lo spirito tragico gli bastasse guardare ai modelli dell’antichità», e – alludendo alle dispute di letterati e critici cinquecenteschi sulle famose unità aristoteliche – aggiungeva: «Le torture di quelle strettoie si estesero da quel secolo [il XVI] ai successivi; né per abbatterle ci volle da meno del Romanticismo.». Continua l’estensore dell’articolo: «Questo giudizio di D’Amico non era altro che uno dei tanti di una lunga serie, che da De Sanctis, attraverso Carducci e Croce, è giunto fin nel cuore del XX secolo. Questo vero e proprio odio metafisico per la tragedia italiana ha fatto sì che essa sia praticamente scomparsa dagli scaffali delle moderne librerie, dove possiamo trovare nelle sezioni dedicate al teatro, certamente cattive traduzioni in italiano di Shakespeare, Schiller o Goethe, o al massimo qualche volume di tragedie alfieriane, ma dell’antico teatro italiano si è come perduto il ricordo. Le antologie di letteratura poi a mala pena menzionano qualche nome, ma nessuna o quasi ne riporta il benché minimo brano. I teatri stabili a loro volta hanno cancellato dai cartelloni la messa in scena di qualcuna di quelle antiche opere drammaturgiche.». Questa “damnatio memoriae” (condanna della memoria) non sembrerebbe giustificata né da un punto di vista culturale, né da un punto di vista artistico: «Senza infatti la feroce determinazione dei tragedi italiani del ‘500, che sulla scorta degli antichi modelli classici, resuscitarono di bel nuovo un genere letterario e una forma compositiva, […], non avremmo sicuramente, né le tragedie shakespeariane, né quelle spagnole del “siglo de oro”, e neppure, infine, la tragedia classica francese di Corneille e Racine.». Ne deriva che sarebbe importante conoscere i migliori tragediografi classici italiani: «Molti di loro infatti furono dei veri poeti e i loro drammi degni di essere letti, rappresentati ed imitati.». E proprio contro questa condanna della memoria una sezione del sito sulla Poesia Classica (http://www.poesiaclassica.it/tragediografi.html) è dedicata alla tragedia classica, e in essa il testo dell’Aiace di Foscolo può essere reperito facilmente e letto nella sua superba interezza
(http://www.liberliber.it/mediateca/libri/f/foscolo/ajace/pdf/ajace_p.pdf).

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